Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace
Discorso per la vigilia di Sant'Ambrogio 2001
I temi del mio discorso indicati nel titolo hanno
accompagnato da sempre l’umanità, da quando Caino alzò la mano
proditoriamente su Abele e lo uccise (Gen 4,8) e da quando Dio dichiarò:
«Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte» (Gen
4,15), fino alla parola di Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv
14,27).
Ma in questi mesi, a partire dall’11 settembre,
tali temi sono ritornati di bruciante attualità.
I fatti sono noti: gravissimi attentati
terroristici che rivelano una capacità inaudita di odio e fanatismo, che si
serve di tecnologie raffinate e si nutre di forme finora inedite di
fondamentalismo civile e religioso (pensiamo a tutti gli aspiranti suicidi).
Agli attentati è seguita un’azione di caccia ai terroristi che è sfociata in
una guerra in Afghanistan. In questi ultimi giorni, poi, si sono moltiplicati
vergognosi attentati suicidi contro cittadini inermi in Israele, a cui hanno
fatto seguito ritorsioni e azioni militari in Palestina, in luoghi dove ormai da
anni c’è un crescendo di violenza di cui non si vede la fine.
1. Uno sguardo al Vangelo (Lc
13,1-5)
Questi fatti ci addolorano, ci interpellano, ci sconvolgono.
Pensiamo con dolore agli innumerevoli morti, ai feriti che porteranno per tutta
la vita il segno della tragedia, alle famiglie distrutte, ai milioni di
profughi, al pianto dei bambini mutilati. Nascono molte domande, ipotesi,
inquietudini. Domande di carattere umano e religioso e anche di carattere
politico. Si vorrebbe capire, giudicare, vedere come agire per farla finita con
il terrorismo, la paura, la guerra, come operare seriamente per una pace
duratura.
Certamente la situazione è ancora troppo complessa e fluida per
descriverla in maniera adeguata. Ogni giorno, poi, aggiunge la sua sorpresa, per
lo più dolorosa. Avevo iniziato queste riflessioni partendo anzitutto
dall’attentato alle Torri gemelle, ma poi gli eventi in Afghanistan e negli
ultimi giorni la recrudescenza degli eccidi in Medio Oriente hanno via via
allargato il mio campo di discernimento. Del resto è innegabile che nella
preparazione della tragedia dell’11 settembre abbia avuto un ruolo non
secondario il risentimento accumulato nell’annoso conflitto
israeliano-palestinese. Perciò mi sono chiesto con insistenza e ho chiesto al
Signore: in questo turbine della nostra storia, ha davvero senso parlare di
pace? E in che modo, e a quale prezzo?
Parlando, leggendo e ascoltando molto mi sono accorto di come anche
i pareri siano tanto divergenti. Molteplici i punti di vista, gli angoli di
visuale; fortissime le passioni, i coinvolgimenti emotivi; resistenti a
sgretolarsi le precomprensioni, soprattutto quelle inconsce. Sembrerebbe più
saggio attendere, pregare, e per intanto sanare e medicare in quanto si può le
ferite, come in emergenza. Ma sant’Ambrogio non si è sottratto alla
riflessione e al tentativo di giudizio su fatti assai gravi, pubblici e
controversi del suo tempo. Così il suo umile successore chiede, per
l’intercessione del nostro Patrono e con l’aiuto delle preghiere e dei
suggerimenti di tanti, la grazia di poter parlare a voce alta di queste cose di
fronte a Dio, al Vangelo e alla coscienza dell’umanità.
Sono numerose le pagine bibliche evocate in questi mesi per cercare
luce nella parola di Dio. Io vorrei partire dal passo evangelico di Luca
(13,1-5) che è stato letto durante la preghiera vespertina. Si tratta di due
affermazioni o reazioni di Gesù, posto di fronte a gravi fatti di sangue di
origine politica e a dolorose calamità naturali.
«In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa
quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici.
Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più
peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non
vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali
rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di
tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite,
perirete tutti allo stesso modo”».
Noto un particolare curioso. S. Ambrogio, che pure commenta con
accuratezza e talora con pedanteria l’intero terzo vangelo, su tale punto è
reticente. Sorvolando su qualunque sentimento antiromano che poteva risultare
dal crimine di Pilato, si limita a un’affermazione marginale, ipotizzando, per
il massacro di Gerusalemme, una colpa rituale dei Galilei uccisi, così da farne
un caso esemplare di punizione «per coloro che su istigazione diabolica non
offrono il sacrificio con animo puro» (Esp. del Vang. Sec. Luca, VII,
159). Evita quindi di lasciarsi coinvolgere dalle ardue domande politiche e
teologiche che emergono da tali eventi e lascia senza commento lo sconcertante e
inedito comportamento di Gesù. Noi però non riusciamo a fare altrettanto.
Gesù si trova infatti di fronte a un groviglio di problemi etici,
teologici e politici. Gli interrogativi che emergono sono analoghi ma superiori
per gravità a quello sul quale sarà poi interrogato a proposito del tributo da
pagare a Cesare (Lc 20,20-26): interrogazione quest’ultima — nota
l’evangelista Luca — propostagli «da informatori che si fingevano persone
oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all’autorità
e al potere del governatore» (Lc 20,20).
Qui si tratta ugualmente di domande a trappola, ma a proposito di
fatti ben più sconvolgenti. V’è in questione ciò che noi chiameremmo una «strage
di Stato», voluta dal rappresentante dell’Imperatore e per di più perpetrata
nel luogo sacro del tempio: quindi un massacro avvenuto probabilmente durante le
festività pasquali, nel quale dovevano essere state trucidate molte persone,
forse terroristi disposti al sacrificio supremo. Non sappiamo quanti fossero, ma
è sufficiente ricordare che alcuni anni prima il predecessore di Pilato aveva
ucciso in una sola occasione tremila Ebrei.
Gesù viene dunque provocato a esprimersi e a dare un giudizio:
condannerà l’assassinio politico, voluto per umiliare ulteriormente gli Ebrei
e profanare il tempio? Griderà contro la crudeltà e il cinismo del regime
dominante? Oppure, come altri in Israele che ritenevano la dominazione straniera
comunque un minor male di fronte a un possibile caos, dirà che si è trattato
di una dolorosa operazione di legittima difesa, di una repressione inevitabile
per evitare nuove stragi da parte di un terrorismo suicida e senza sbocchi? Non
aveva forse un tempo lo stesso profeta Geremia sconsigliato atti di inutile
resistenza al conquistatore babilonese? Immagino che Gesù si sarà sentito
addosso la domanda che un giorno gli rivolgeranno i Giudei nel tempio: «Fino a
quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei davvero il Cristo, dillo a noi
apertamente». Cioè, nel nostro caso, facci sapere, tu che sai tutto, da che
parte sta la verità e da che parte sta l’ingiustizia.
Anche la seconda situazione narrata da Luca 13,1-5 richiama domande
attuali. Essa riguarda una calamità naturale, la caduta di una torre a
Gerusalemme che travolge diciotto persone (noi pensiamo agli incidenti e drammi
di questi ultimi tempi: i disastri dei trafori del Monte Bianco e del Gottardo,
il tragico incidente di Linate, gli incidenti aerei delle ultime settimane, le
stragi per le fughe di gas...). Allora, come ora, tali incidenti suscitavano
tante domande: si tratta di calamità inevitabili o sono frutto di negligenza,
di errore umano o di incoscienza o di imprudenze inescusabili? Chi è colpevole?
Chi doveva vigilare? Quale autorità ha omesso i dovuti controlli, ha
sottovalutato gli appelli, ecc.?
I due episodi sono proposti a Gesù perché prenda posizione. Molti
aspettano, come ho sopra indicato, che egli si dichiari contro il tiranno Pilato;
altri vorrebbero che criticasse i Galilei come terroristi insipienti. A
proposito della caduta della torre ci si attende che denunci con parole di fuoco
l’incuria dei governanti o al contrario rimproveri l’imprudenza colpevole
della gente.
Invece si verifica l’imprevisto. Gesù non prende posizione né
pro né contro nessuna delle persone coinvolte, non si esprime su chi degli
immediati protagonisti sia da ritenersi colpevole. Proclama, è vero, un suo
giudizio, che dovremo approfondire. Ma la sua voce sta al di sopra di tutti i
temi sia pur gravi di politica corrente. Ciò può sorprendere, deludere e
turbare. Vedremo che cosa voglia dire per l’oggi. Notiamo tuttavia fin da ora
che si verifica qui quanto affermava un recente storico delle origini cristiane:
«In confronto ai profeti classici di Israele, il Gesù storico è notevolmente
silenzioso a proposito di molte scottanti questioni sociali e politiche del suo
tempo. [...] Il Gesù storico sovverte non solo alcune ideologie, ma tutte le
ideologie» (MEIER J. P., Un ebreo marginale: Ripensare il Gesù storico,
Brescia 2001, p. 189).
2. Le domande di oggi
Qualcosa di simile avviene oggi. Gli interrogativi sui fatti della
storia e soprattutto su quelli drammatici dei nostri giorni sono tanti e
comprensibilmente carichi di sofferte emozioni, di precomprensioni affettive e
anche di pregiudizi. E non di rado si invocano da qualche autorità morale
risposte immediate e chiarificatrici (per lo più nell’attesa di essere
confermati in ciò che ciascuno ha già giudicato dentro di sé!).
Molte, in particolare, le interrogazioni gravi che si pone l’uomo
della strada di fronte alle notizie e alle immagini televisive di questi mesi e
di questi giorni.
La prima riguarda gli autori dei gesti di terrorismo, a partire dai
più clamorosi e micidiali, specialmente quelli connessi col suicidio
dell’attentatore, ed è la domanda sul perché. Perché un essere umano può
giungere a tanta crudeltà e cecità? Ci si chiede in quali oscuri meandri della
coscienza possano albergare tali sentimenti di odio, di fanatismo politico e
religioso, quali risentimenti personali e sensi di umiliazione collettiva
possano essere alla radice di simili folli decisioni. Nulla e nessuno potrà mai
giustificare tali atti o dare loro una qualunque parvenza anche larvata di
legittimazione. Ci dobbiamo però chiedere: noi tutti ci siamo davvero resi
conto nel passato, rispetto ad altre persone e popoli, quanto grandi ed
esplosivi potessero a poco a poco divenire i risentimenti e quanto nei nostri
comportamenti potesse contribuire e contribuisse di fatto ad attizzare nel
silenzio vampate di ribellione e di odio?
Non posso, a proposito della prima domanda, non sottolineare la
tremenda responsabilità di chi, magari dotato di grandi mezzi di fortuna, ha
imparato a sfruttare i risentimenti e li fornisce di strumenti di morte,
finanziando, armando e organizzando i terroristi in ogni parte del mondo, forse
pure vicino a noi. Anche per costoro non v’è nessuna ragione o benché minima
legittimazione per il loro agire. Valgono piuttosto le parole di Gesù per chi
sfrutta in tal modo la debolezza di persone semplici: «Sarebbe meglio per lui
che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato
negli abissi del mare!» (Mt 18,1). E non posso nemmeno dimenticare
quanto Gesù diceva nel Discorso della Montagna proibendo persino una parola
offensiva perché contenente già i germi dell’odio e dell’omicidio (Mt
5,22: «Chi dice al fratello “pazzo”!, sarà sottoposto al fuoco della
Geenna»). Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della
contestazione (fine anni ’60 – inizio anni ’70) sa che la noncuranza e la
leggerezza, ostentate anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare
e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene
pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il
sasso e si sente impunito domani potrà buttare la bomba o impugnare la pistola.
La «tolleranza zero» è, per ogni parola o gesto di odio, supportata da una
regola evangelica.
Oltre alla domanda di un giudizio umano e morale severo su ogni
anche piccola radice di disprezzo e di odio — da qualunque parte provenga e
contro chiunque si eserciti, per smascherarla e in quanto possibile per
esorcizzarla e disarmarla — emerge con insistenza nel cuore della gente anche
una seconda domanda, di natura piuttosto politica e militare: il tipo di
operazioni che si vanno facendo contro il terrorismo sarà efficace? Servirà
davvero a scoraggiare i terroristi, a chiudere gli episodi macabri degli
uomini-bomba, a creare le condizioni per un superamento delle cause di tante
inquietudini? Ben pochi di noi hanno risposte certe e articolate a tutte queste
questioni, anche per la loro complessità e gli scenari ed episodi diversi e
mutevoli a cui esse si riferiscono. Ciò non toglie che esse gravino
pesantemente sulle coscienze di tutti, in particolare di coloro che sono più
direttamente responsabili di programmare le operazioni contro il terrorismo, di
determinare le misure politiche, economiche, giudiziarie, culturali che si
ritengono necessarie. Soltanto loro conoscono da vicino le circostanze e
l’efficacia, positiva e negativa, dei bombardamenti e di altre azioni di
guerra, dato che gli stessi mass media non sembrano avere un accesso se
non limitato alle fonti dirette dei dati e delle strategie militari. Anche a
tale domanda non osiamo dare qui una risposta; però è connessa strettamente
con la seguente.
La terza domanda è di tipo etico: ciò che si è fatto e si sta
facendo contro il terrorismo specialmente a livello bellico rimane nei limiti
della legittima difesa? O presenta la figura, almeno in alcuni casi, della
ritorsione, dell’eccesso di violenza, della vendetta? è chiaro che il diritto
di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un
principio evangelico. Occorre tuttavia una continua vigilanza e un costante
dominio su di sé e sulle passioni individuali e collettive per far sì che
nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la voluttà
della rivalsa e la dismisura della vendetta. Si era avuta l’impressione che
questi principi di cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai
terribili attentati dell’11 settembre. Ma ora a che punto siamo? Non ha forse
l’ansia di vittoria e il dinamismo della violenza preso la mano diminuendo la
soglia di vigilanza sulle azioni di guerra che potrebbero essere non
strettamente necessarie rispetto agli obiettivi originari e soprattutto colpire
popolazioni inermi? è qui che il principio della legittima difesa viene messo
gravemente in questione: infatti non si può impunemente andare oltre senza
creare più odi e conflitti di quanti non si pretenda risolverne. Sembra questo
in particolare il caso, è doloroso dirlo, di quanto continua ad accadere in
maniera crescente in Medio Oriente. Da una parte un terrorismo folle e suicida
contro cittadini pacifici, fra cui tanti bambini, un terrorismo che non conduce
a nulla e che suscita un crescendo di ira, indignazione e orrore. Dall’altra
atti di rappresaglia, difficilmente definibili ancora come operazioni di
legittima difesa, che colpiscono popolazioni inermi, e anche qui tanti bambini.
Vi si aggiungono in più vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali
perfino l’osservatore più imparziale e sinceramente desideroso e convinto del
bisogno di una piena sicurezza per il Paese che così agisce, non riesce a
cogliere quale sia la strategia della pace e della sicurezza che pure è sempre
nel desiderio di tutto quel popolo la cui sopravvivenza è essenziale per il
futuro della pace nella regione e nel mondo intero.
Le tre domande sono nel cuore di tanta gente e su di esse vi
sarebbe tanto da discutere. In ogni caso, pur facendo riferimento a elementi
etici di estrema gravità, non sono di competenza solo, e spesso neanche in
prima istanza, della Chiesa. Non sta alla Chiesa dare l’ultimo giudizio
pratico su atti di cui solo pochi conoscono le modalità ultime e precise.
Sollevando interrogativi come quelli espressi sopra non ho voluto tanto
esprimere giudizi definitivi quanto aiutare me e voi a riflettere seriamente e
soprattutto stimolare i competenti e i responsabili a pesare ogni loro opinione
e azione su una bilancia di rigorosa giustizia e di rispetto dei diritti umani
di ognuno. Tali responsabili veramente competenti non sono probabilmente molti.
Certamente assai meno di quanto non si pensi o non appaia dal numero e dalla
molteplicità delle opinioni che vengono formulate, spesso con tanta sicurezza.
Sono pochi infatti a conoscere a fondo tutti i dati disponibili sui terroristi,
i loro progetti, le loro risorse. Poche le notizie che realmente filtrano sugli
atti di guerra e le loro conseguenze, la natura delle resistenze e gli ambiti
delle strategie. Le autorità politiche e militari responsabili — me ne rendo
conto — pagano qui una misura ardua di solitudine a fronte di decisioni che
coinvolgono la vita di milioni di persone.
Perciò è tanto più prezioso il controllo democratico stabile e
metodico esercitato dai Parlamenti e da una opinione pubblica intelligente e non
faziosa, correttamente informata prima sul varo e poi sulla conduzione degli
eventuali interventi.
3. L’atteggiamento di Gesù
A questo punto ci impressiona e ci scuote ancora di più
l’atteggiamento di Gesù nel brano di Luca, da cui siamo partiti e al quale
ora vorrei ritornare. C’è infatti un’ulteriore domanda oltre alle quattro
richiamate a proposito dei fatti attuali di terrorismo e di guerra. è una
domanda molto semplice, di natura evangelica. Suona così: che cosa ci direbbe
oggi Gesù su quanto abbiamo evocato fin qui? Che cosa ci suggerirebbe nello
spirito del Discorso della Montagna, nel quadro delle beatitudini dei
misericordiosi e degli operatori di pace?
Abbiamo visto sopra, nella pagina di Luca 13,1-5, che Gesù non
entra in nessuno dei problemi che hanno in mente i suoi interlocutori e che
riguardavano l’attribuzione delle colpevolezze per gravi fatti di sangue, la
ricerca di capri espiatori. Superando ogni giudizio morale categoriale sulle
azioni di singoli o di gruppi, Gesù rimanda alla radice profonda di tutti
questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di
ciascuno con la violenza e il male, ripetendo per ben due volte: «se non vi
convertite, perirete tutti allo stesso modo». Egli invita a cercare in ciascuno
di noi i segni della nostra complicità con l’ingiustizia. Ci ammonisce a non
limitarci a sradicarla qui o là, ma a cambiare scala di valori, a cambiare
vita.
Ciò in un primo momento ci sorprende. Ci appare una fuga dal
presente, un volare troppo alto di fronte a eventi che richiedono con urgenza
decisioni e giudizi. Ci sembra un generalizzare un problema che rischia di
confondere torti e ragioni, carnefici e vittime, tutti accomunati sotto un unico
denominatore.
Ma Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la propria
concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne porta le
conseguenze. Per questo Gesù disse a Pietro che tentava di difenderlo con la
forza quando vennero per arrestarlo: «Rimetti la spada nel fodero, perché
tutti quelli che metteranno mano alla spada periranno di spada» (Mt
26,52). Egli sa che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte
alle singole situazioni. Gli importa però assai di più segnalare che gli
sforzi umani di distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un
effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause
profonde del male stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia,
gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia. Se non si
mette mano a questi ambiti più profondi mutando la nostra scala di valori, tra
breve ci ritroveremo di fronte a quei mali che abbiamo cercato con ogni sforzo
esteriore di eliminare.
è così che i Vescovi provenienti da tutto il mondo e riuniti in
Sinodo nel mese di ottobre 2001 hanno valutato la situazione odierna. Cito dal
messaggio finale: «La nostra assemblea, in comunione con il Santo Padre, ha
espresso la più viva sofferenza per le vittime degli attentati dell’11
settembre e per le loro famiglie. Preghiamo per loro e per tutte le vittime del
terrorismo nel mondo. Condanniamo in maniera assoluto il terrorismo, che nulla
può giustificare. D’altronde non abbiamo potuto non ascoltare, nel corso del
Sinodo, l’eco di tanti altri drammi collettivi... Secondo osservatori
competenti dell'economia mondiale, l’80% della popolazione del pianeta vive
con il 20% delle sue risorse e un miliardo e duecento milioni di persone sono
costrette a vivere con meno di un dollaro al giorno. Si impone un cambiamento di
ordine morale» (nn. 9-10). E ancora i Vescovi elencano alcuni «mali endemici,
troppo a lungo sottovalutati, che possono portare alla disperazione intere
popolazioni. Come tacere di fronte al dramma persistente della fame e della
povertà estrema, in un’epoca in cui l’umanità ha a disposizione come non
mai gli strumenti per un’equa condivisione? Non possiamo non esprimere la
nostra solidarietà con la massa dei rifugiati e degli immigrati che, a causa di
guerra, in conseguenza di oppressione politica o di discriminazione economica,
sono costretti ad abbandonare la propria terra...» (n. 11).
Sono tanti i mali da deplorare e da sconfiggere: oltre il
terrorismo e la violenza va condannata ogni ingiustizia e va eliminato ogni
affronto alla dignità umana. Ci chiediamo: sarà possibile una tale inversione
di tendenza? Osiamo affermare di sì, anzitutto perché un simile raddrizzamento
della scala dei valori è necessario per il superamento di quella conflittualità
crescente che mira alla distruzione reciproca dei contendenti. In secondo luogo
perché contiamo sulla grazia di Dio e sulla ragionevolezza di fondo
dell’uomo. In terzo luogo perché come cristiani (e anche in questo ci
distinguiamo da un mondo occidentale fino a poco fa sicuro di sé, ma ora molto
più incerto e sempre più povero di speranza trascendente) abbiamo la certezza
che se il male abbonda è perché sovrabbondi la grazia della conversione e del
perdono. Anche se lasciamo al Signore della storia il calcolo dei tempi,
sappiamo che è ben possibile che maturi di nuovo in Occidente, forse proprio
sotto la spinta di eventi così drammatici, la percezione che è necessario un
cambio di vita, l’adozione di una nuova scala di valori. In un articolo
recente si parlava, a proposito di tale riconoscimento, di «Apocalisse», nel
senso etimologico di un «alzare il velo» di una «rivelazione» (ENZO BIANCHI,
«Le apocalissi dell’11 settembre», in la Repubblica, 27 ottobre
2001). Nel nostro contesto si tratta di una rivelazione del male in cui siamo
immersi, dell’assurdità di una società il cui dio è il denaro, la cui legge
è il successo e il cui tempo è scandito dagli orari di apertura delle borse
mondiali. Una società che giunge quasi al ridicolo nella sua ricerca affannosa
di investimenti virtuali, di transazioni puramente mediatiche e che pretende di
esportare messianicamente questo modo di vedere in tutto il mondo. Tale
globalizzazione è giusto rifiutare. Come ha scritto recentemente Tommaso Padoa
Schioppa, «la strada che porta alla sicurezza è assai più lunga di quella che
ha portato a Kabul. La strada è anche assai più faticosa, perché su di essa
siamo noi a dover camminare, non militari o Paesi lontani. E camminare vuol dire
modificare nostri modi di vivere, nostri pensieri, nostri sistemi politici.
Possiamo chiederci: abbiamo incominciato?» (Corriere della Sera, 18
novembre 2001). Ma se ciò vale per l’economia e la politica, perché non
dovrebbero aprirsi anche nel campo della moralità nuovi spazi per un rinnovato
impegno di serietà e di giustizia, per una ricerca del significato profondo
della vita, per una maggiore apertura sul mistero di Dio? Non ha forse Dio «rinchiuso
tutti nella disobbedienza» di conflitti senza via di uscita «per usare a tutti
misericordia?» (cfr Rom 11,32).
Non è così importante sapere se ciò si avvererà presto. In
fondo, come diceva Bonhoeffer, «per chi è responsabile la domanda ultima non
è: come me la cavo eroicamente in questo affare, ma: quale potrà essere la
vita per la generazione che viene? Solo da questa domanda storicamente
responsabile possono nascere soluzioni feconde» (Resistenza e Resa,
Milano, p. 64). Ciò che dunque urge è dirci che se non avviene un cambio
radicale nella scala dei valori, se non vengono messi al primo posto la pace, la
solidarietà, la mutua convivenza, l’accoglienza reciproca, l’ascolto e la
stima dell’altro, l’accettazione, il perdono, la riconciliazione delle
differenze, il dialogo fraterno e quello politico e diplomatico, mentre vengono
contemporaneamente messe al bando le rappresaglie della guerra, se non vengono
disarmate non solo le mani ma anche le coscienze e i cuori, noi avremo sempre a
che fare con nuove forme di violenza e anche di terrorismo. Riusciremo magari a
spegnerle per un momento, ma per vederle poi risorgere impietosamente altrove.
Come ha ripetuto il 4 dicembre 2001 il Papa a proposito del
conflitto in Medio Oriente: «La violenza non risolve mai i conflitti, ma
soltanto ne accresce le drammatiche conseguenze». Ha perciò lanciato «un
nuovo pressante appello alla comunità internazionale, affinché con sempre
maggiore determinazione e coraggio aiuti israeliani e palestinesi a spezzare
questa inutile spirale di morte. Siano ripresi immediatamente i negoziati, perché
si possa giungere finalmente alla tanto desiderata pace». Inoltre il Papa ha
stimolato, con un gesto assolutamente nuovo nella storia del rapporto
Cristianesimo-Islam, tutti i cattolici a unirsi spiritualmente il 14 dicembre
prossimo alla conclusione del solenne digiuno musulmano del Ramadan,
per proclamare che c’è e ci deve essere un clima di rispetto tra le due
religioni. Di qui avrà inizio un particolare tempo di conversione, di ritorno
al Signore nel cammino faticoso della storia verso la pienezza della verità e
della carità, che culminerà il 24 gennaio 2002 in una grande preghiera
interreligiosa per la pace ad Assisi con la partecipazione del Papa. Sono gesti
che intendono affermare a tutto il mondo che mai per nessun motivo le religioni
devono divenire fonte di conflitto, ma al contrario occasione e strumento di
pace.
4. Aperture nuove
Mi accingo a concludere il mio discorso, che inevitabilmente
rischia di coinvolgerci in sempre nuove direzioni, perché la violenza e il male
sono dappertutto e stanno alla radice di tutto. Ma il bene zampilla da una
sorgente ancora più profonda e innaffia, risana e rigenera continuamente questa
radice di male e di amarezza. è importante allora riconoscere che dobbiamo fare
ciascuno la nostra parte e ascoltare l’appello che ci raggiunge. Il momento
drammatico che stiamo vivendo è un forte richiamo alla conversione e al
riconoscimento della nostra connivenza con i mali del mondo. Sottolineo: con i
mali di tutti, sotto ogni latitudine e non del solo mondo occidentale.
Certamente esso ha i suoi gravissimi torti, le sue cecità, i suoi idoli, i suoi
deliri di onnipotenza. Per questo la Chiesa, neppure quella occidentale, che ha
vissuto storicamente e tuttora vive in questo ambito e si è sempre sforzata di
dargli un’anima, non si è mai riconosciuta né identificata del tutto con
esso né tanto meno si identifica ora in un ambito nel quale gloriose tradizioni
di libertà e dignità umana convivono — in un clima crescente di
compromissione — con un individualismo senza regole, con il culto del denaro,
del successo, dell’immagine e della potenza. Pur con tutto ciò non dobbiamo
ritenere che sia solo il nostro mondo occidentale quello chiamato da Gesù a
cambiar vita. Il Signore afferma due volte, nel testo di Luca da cui siamo
partiti (13, 3.5): «se non cambierete vita, perirete tutti!». La follia
dell’autodistruzione, che assume nelle odierne culture innumerevoli forme,
minaccia tutti quanti. Gli spettri della corruzione, del malgoverno, del
prevalere dell’interesse privato e tribale su quello pubblico, della dittatura
e del primato della forza e delle armi, stanno succhiando il sangue di
innumerevoli poveri della terra. Sarebbe troppo facile trovare un solo capro
espiatorio e una sola vittima. Zizzania e buon grano sono intrecciati
profondamente in ogni angolo del pianeta. Gesù sa che il male è nascosto nel
cuore di ogni uomo e di ogni cultura, sa che siamo «generazione incredula e
perversa» (Mt 17,17).
Dobbiamo in altre parole renderci conto che di certe pesti che
ammorbano il mondo (e di cui i conflitti bellici e gli attentati sono una delle
manifestazioni) non è soltanto colpevole l’uno o l’altro individuo o popolo
lontano da noi o vicino a noi, ma ne siamo tutti in qualche modo, ciascuno per
la sua parte, conniventi e corresponsabili.
Se, spinti da eventi tragici che mai avremmo voluto neppure
immaginare, l’invito di Gesù a cambiare scala di valori e criteri di giudizio
cominciasse a venire accolto, ne emergerebbe una società più pensosa, una
gioventù meno dissipata e meno avida di divertimenti, conscia delle proprie
responsabilità per il futuro del pianeta; pronta anche ad ascoltare il richiamo
per aprirsi a esistenze consacrate al servizio totale di Dio e del prossimo. E
di tutto questo inizio di cammino positivo noi, grazie a Dio, siamo anche i
gioiosi testimoni, per poco che sappiamo guardarci intorno con gli occhi della
speranza.
5. Il grande bene della pace
Non potrei concludere il mio discorso senza ritornare a quella che
ne fu l’ispirazione principale fin dall’inizio, cioè il grande bene della
pace: se abbiamo infatti cominciato con l’ascoltare Gesù che parlava della
violenza (Lc 13,1-5), era solo perché a Lui — e oggi alla sua Chiesa
— una cosa sta sommamente a cuore: la pace!
Infatti la pace è il più grande bene umano, perché è la somma
di tutti i beni messianici. Come la pace è sintesi e simbolo di tutti i beni,
così la guerra è sintesi e simbolo di tutti i mali. Non si può mai volere la
guerra per se stessa, perché è sistematica violazione di sostanziali diritti
umani. Vi saranno al limite casi di legittima difesa di beni irrinunciabili. Però
il contrasto all’azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve
restare nei limiti strettamente necessari per difendersi efficacemente. Potranno
anche essere necessarie coraggiose azioni di «ingerenza umanitaria» e
interventi volti alla restituzione e al mantenimento della pace in situazioni a
gravissimo rischio. Ma non saranno ancora la pace.
Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità,
armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti offensivi (cfr
Mt 5,21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper
cedere pur di non entrare in lite (cfr Mt 5,38-47). Pace è frutto di
alleanze durature e sincere (enduring covenants e non solo enduring freedom), a
partire dall’Alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l’uomo, riabilitandolo
e dandogli se stesso come partner di amicizia e di dialogo, in vista dell’unità
di tutti coloro che Egli ama. In virtù di questa unità e di questa alleanza
ciascuno vede nell’altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e
perdonato, e se è cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di
Cristo e lo splendore della Trinità. Può dire al fratello: tu sei sommamente
importante per me, ciò che è mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose
mi importano più delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi
importa il bene di tutti, il bene dell’umanità nuova: non più solo il bene
della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell’etnia, del
movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell’umanità intera: questa
è la pace.
Ogni azione contro questo «bene comune», questo «interesse
generale» affonda le radici nella paura, nell’invidia e nella diffidenza.
Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera
storia e superstoria di grazia per compiere tale cammino. Ma è questa la pace
che è meta della vicenda umana.
6. Alcuni imperativi immediati
1. Abbiamo anzitutto un grande
bisogno di percepire dentro di noi una fontana zampillante di pace che ci apra
alla fiducia nella possibilità di passi concreti e semplici verso un
cambiamento di stile di vita e di criteri di giudizio, unica via a un cammino
serio di pace. Evitiamo di lasciarci intorpidire da un clima consumistico
prenatalizio che rischia di farci rimuovere le domande serie emerse da questi
fatti drammatici.
2. Per evitare di essere
trascinati, magari non intenzionalmente, in uno scontro di civiltà, occorrerà
esercitarsi nell’arte del dialogo, che parte da una chiara coscienza della
propria identità e della ricchezza dei linguaggi con cui esprimerla e renderla
accessibile smontando i pregiudizi, i cavilli e le false comprensioni.
3. Per questo sarà importante
imparare a conoscere le altre religioni, in particolare l’Ebraismo e
l’Islam, scrutando di ciascuna la storia, la letteratura, le ricchezze
spirituali, le profondità mistiche, il pluralismo espressivo, anche quello
sociale e politico.
4. Soprattutto occorrerà educare a
gesti, pensieri e parole di perdono, di comprensione e di pace, usando «tolleranza
zero» per ogni azione che esprima sentimenti di xenofobia, di antisemitismo, di
minor rispetto di qualunque sentimento e tradizione religiosa. Questo richiede
che anche gli altri rispettino e apprezzino quei segni religiosi che sono stati
e sono tuttora per noi la via e il simbolo che ci permette oggi di offrire a
tutti ospitalità e pace.
5. è superfluo ricordare quanto la
scuola e l’università siano chiamate a educare al dialogo, al confronto
sereno, per aiutare a riflettere motivatamente sui gravi problemi in discussione
a livello internazionale ma anche nazionale e regionale (e non soltanto perciò
sui temi della pace e della guerra, ma anche oggi su temi per noi gravi e
urgenti come la giustizia e la sanità). Grande sarà in questo senso il compito
e la responsabilità dell’autonomia scolastica.
Ci conforta e ci fa ben sperare
l’anniversario che si ricorderà domani, quello dell’apertura, 80 anni fa,
proprio a pochi metri da questa Basilica di Sant’Ambrogio, in via
Sant’Agnese, dei corsi della neonata Università Cattolica del Sacro Cuore.
Incominciò con 68 iscritti. Oggi sono oltre 40.000. Auguriamo a essi e a tutti
i giovani del mondo di essere, per il millennio che inizia, come le «sentinelle
del mattino» che annunciano il giorno della tanto desiderata pace.