Pace, giustizia e solidarietà
Le
nuove generazioni si domandano come mai quelle più anziane attribuiscano tanta
importanza all’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, al punto
di celebrare prima il ventesimo e poi il quarantesimo anniversario della sua
pubblicazione. Le idee che essa propone sulla pace, e in particolare sulle sue
relazioni con la giustizia e la solidarietà, appaiono loro così evidenti, che
non comprendono in che cosa tale documento abbia potuto costituire una novità.
Esso, tuttavia, ha aperto orizzonti nuovi, e non è inutile domandarsi, nel
momento in cui il mondo si trova ad affrontare le questioni che nascono dalla
globalizzazione, quali lezioni si possono trarre dall’insegnamento di Giovanni
XXIII sulla costruzione della pace.
I
cristiani si sono sempre chiesti come attualizzare la massima di Cristo: «Beati
gli operatori di pace» (Mt 5,9). Per inscriverla nella realtà occorre
identificare, in ciascuna epoca, gli attentati contro la giustizia e la
solidarietà che mettono in pericolo la pace, al fine di eliminarli. Per la
generazione presente si tratta di scoprire come rimediare alla contraddizione
tra l’affermazione che una pace «universale e duratura» deve essere frutto
della giustizia e della solidarietà, quando i suoi contemporanei si trovano in
disaccordo sul contenuto da dare a tali valori e, conseguentemente, sulle
priorità da perseguire attraverso la globalizzazione dell’economia e il
rafforzamento dei legami politici tra gli Stati. Per i cristiani si tratta di
dire per quale ragione ritengono che la Chiesa possa, nel mondo odierno,
assolvere a una «missione di giustizia e di pace».
1.
L’insegnamento tradizionale sulla pace e le attuali esigenze di universalità
Le
prime riflessioni dei teologi cattolici su un ordine internazionale atto a
rimediare ai danni provocati dalle guerre nazionali, sono iniziate nel XIX
secolo, in particolare con il gesuita padre Luigi Taparelli d’Azeglio 1.
Egli affermava che è immorale che degli Stati, per quanto si proclamino
sovrani, possano ritenere legittimo entrare in guerra, quando
un’organizzazione internazionale fondata sulla giustizia e la solidarietà
sarebbe capace, in un dato periodo di tempo, di impedire ogni ricorso alle
violenze interstatali. Egli coniò addirittura una parola, «etnarchia», per
designare il raggruppamento dei popoli in una unità politica nella quale
ciascuno riconosca i «doveri or di giustizia or di benevolenza» che gli spetta
di assolvere 2. In una simile società, si arriva «a tale perfezione
di mente, di volontà e di forza da conoscere, volere e ottenere una esatta
giustizia tra gli associati. […] La guerra […] non potrà più darsi se non
fra la suprema sua autorità aiutata dal concorso di tutte le genti associate, e
quell’una che pretendesse violar l’ordine, ed opprimere le genti sue uguali.
In ogni altro caso ciascun popolo, assicurato dalle forze della intera etnarchia
e retto da leggi etnarchiche, che egli pure avrà approvate, potrà con forze
mediocri dormir sicuro sulla propria indipendenza. Ed ecco, come potrà scemarsi
il peso enorme degli eserciti permanenti» 3 .
Le
idee di Taparelli sulla pace e sulla guerra compariranno con sempre maggiore
frequenza negli interventi dei Papi, come pure dei giuristi e dei politici, nel
corso degli ultimi due secoli; gli uni e gli altri si mostreranno
progressivamente favorevoli all’idea di strutturare l’ordine internazionale
attraverso istituzioni. Pio XII sarà il primo Papa ad esporre,
sistematicamente, «i presupposti essenziali di un ordine internazionale», come
si espresse nel radiomessaggio per il Natale 1941: «insistiamo anche ora su
alcuni presupposti essenziali di un ordine internazionale che, assicurando a
tutti i popoli una pace giusta e duratura, sia fecondo di benessere e di
prosperità» 4.
Per
il Papa, infatti, i popoli non sono entità giustapposte nell’universo; tra
essi esiste una unità organica che comporta, per conseguenza, il fatto che essi
devono perseguire insieme il proprio bene comune, in uno spirito di giustizia e
di solidarietà: «Il genere umano, in effetti — osserva mons. De Solages —,
nonostante si divida, in virtù dell’ordine naturale stabilito da Dio, in
gruppi sociali, nazioni o Stati, indipendenti gli uni dagli altri per ciò che
riguarda il modo di regolare la rispettiva vita interna, è però unito da
legami naturali, morali e giuridici in una grande comunità, ordinata al bene di
tutte le nazioni e regolata da leggi speciali che ne proteggono l’unità e ne
sviluppano la prosperità» 5 .
Tale,
prosegue Pio XII, è il «nuovo ordinamento» che deve «essere innalzato sulla
rupe incrollabile e immutabile della legge morale», la cui «osservanza deve
venir inculcata e promossa dall’opinione pubblica di tutte le Nazioni e di
tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno possa osare
di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante» 6 .
Alle
affermazioni di Pio XII faranno eco quelle di Giovanni XXIII, che alla fine
della Pacem in terris dichiara: «la pace rimane solo un vuoto suono di parole,
se non è fondata su quell’ordine di cui Noi abbiamo, con fervida speranza,
abbozzato in questa enciclica le linee essenziali: ordine fondato sulla verità,
costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e, infine,
posto in atto nella libertà» 7 . In breve, la pace è solo una
parola vuota di senso se non è fondata sulla concezione di un ordine giusto e
vero accettato da tutti.
Ma
chi non vede le difficoltà teoriche sollevate da tale affermazione?
L’insegnamento della dottrina sociale sulla pace non appare forse come
l’insegnamento di una dottrina sociale tra le altre, sebbene pretenda di
detenere essa sola il privilegio della verità? Ma allora, non è illusorio
pretendere di essere accettati da tutti, quando molte altre dottrine sulla pace
sono state elaborate nel corso dei secoli e tutte hanno preteso di costituire
l’ultima parola sulla questione; più ancora, tutte si sono appellate ai
valori di verità, giustizia, libertà e solidarietà, e si sono presentate come
se ne proponessero una interpretazione incontestabile? Come può la Chiesa
pretendere di svolgere un ruolo determinante nella costruzione di una pace
universale «giusta e duratura» in un mondo diviso sulla concezione della
giustizia e sulla estensione della solidarietà, quando essa stessa appare
difendere una dottrina che non accetta compromessi? Il riferimento, nella
dottrina cristiana sulla pace, a un Dio unico, trascendente e autore
dell’ordine del mondo, non costituisce un ostacolo a che il cristianesimo
possa svolgere un ruolo universalizzante, di riconciliazione, nei riguardi di
tutte le proposte di pace che si avvicendano sulla scena politica? Tali sono
alcune delle questioni che un cristiano non può non porsi oggi, e alle quali
una certa tradizione intellettuale, nel mondo occidentale come nella Chiesa,
pare attribuire importanza.
2.
Originalità della Pacem
in terris
Se
l’enciclica Pacem in terris non fosse altro che un’esposizione
intelligente delle condizioni ideali richieste per stabilire la pace, e se si
limitasse soltanto a presentare il pensiero della Chiesa su questo punto,
l’opinione pubblica mondiale non l’avrebbe accolta come un segno di
speranza. In effetti, un po’ ovunque, e perfino nei Paesi dell’Est, si sono
costituiti dei gruppi con l’intento di scoprire l’approccio nuovo alle
questioni della pace che l’enciclica sembrava proporre. In essa è presente un
elemento ulteriore, rispetto alla visione tradizionale della Chiesa sulla pace,
che dobbiamo precisare, prima di mostrarne la specificità.
Una
conferenza tenuta dal card. Agostino Casaroli nel 1983 ci sarà di orientamento.
In essa egli commenta, tra le altre, la prima frase dell’enciclica: «La pace
in terra [...] può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto
dell’ordine stabilito da Dio» (n. 1). Mentre un lettore frettoloso non vi
scorgerà nulla di nuovo, l’affermazione di Giovanni XXIII, rileva il card.
Casaroli, travalica i soli aspetti giuridici indispensabili alla costruzione
della pace: «presuppone, da una parte, la certezza dell’esistenza di un
insieme di norme obiettive, trascendenti le scelte o gli accordi degli uomini; e
dall’altra, il convincimento che l’uomo può, a sua scelta, rispettare e non
rispettare quest’ordine. Il suo rispetto è condizione ineludibile per la
pace; potrebbe anzi dirsi che tale rispetto, non tanto ha come conseguenza, ma
è esso stesso la pace. Il suo mancato rispetto porta inevitabilmente a quel
“disordine” che — constata l’Enciclica — regna tra gli esseri umani e
tra i popoli, quasi che i loro rapporti non possano essere regolati che per
mezzo della forza (n. 43)» 8 .
Giovanni
XXIII sposta la discussione sulla costruzione della pace dal terreno
intellettuale a quello dell’azione pratica. Egli si rivolge alla coscienza di
tutti gli uomini, credenti e non credenti, per dir loro che «la pace è
doverosa», che «la pace è possibile» e dipende da ciascuno 9.
L’insistenza
posta da Giovanni XXIII sulla costruzione della pace a partire dal fatto che in
ogni uomo vi è una coscienza che è alla sua ricerca, ha fatto brillare una
luce di speranza nel mondo. L’apporto della Pacem in terris va valutato in
riferimento alla situazione della società internazionale nel momento della sua
pubblicazione e al timore, allora diffuso, di vedere il mondo impegnato in un
nuovo conflitto generale, stavolta atomico. Essa ha liberato le popolazioni dal
senso di fallimento ineluttabile al quale sembravano votate le loro aspirazioni
alla pace, e ciò sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
A
quell’epoca gli Stati erano divisi in blocchi contrapposti; vi erano state
numerose guerre regionali (nel 1963 oltre un centinaio) e a diverse riprese le
grandi potenze erano state sul punto di scontrarsi in un conflitto generale: la
repressione della rivolta in Ungheria (1956), l’avventura militare
franco-inglese di Suez (1956), la spedizione della Baia dei Porci a Cuba (1961),
la costruzione del muro di Berlino (1961), la crisi dei missili (installati a
Cuba) con l’URSS (1962), il conflitto armato sino-indiano (1962),
l’invasione della Cecoslovacchia (1968), ecc.; tutti questi avvenimenti
mostravano con evidenza che la pace sarebbe rimasta fuori della portata degli
uomini finché questi avessero opposto le proprie visioni, diverse e
incompatibili, dell’ordine internazionale. Le poche collaborazioni o contatti
che fu possibile instaurare dopo il rapporto Chruscëv che metteva sotto accusa
la dittatura stalinista (1956), rendevano ancora più acuto questo senso
d’impotenza. Li elenchiamo in ordine cronologico: discorso di Gromyko
dell’11 gennaio 1958 a un gruppo di comunisti italiani, in cui parla della
somiglianza di vedute con il Vaticano su questioni attinenti alla pace 10;
visita di Chruscëv in Francia e all’ONU (1960); trattato di neutralizzazione
del Continente Antartico (1961); accettazione della coesistenza di sistemi
economici e sociali diversi in seno all’Organizzazione Internazionale del
Lavoro (1960); colloqui di Kennedy e Chruscëv a Vienna (1961); presenza di non
cattolici alla prima sessione del Vaticano II (1962). Tutti questi fatti non
erano in grado, per se stessi, di fermare la corsa agli armamenti 11.
Giovanni
XXIII ha avuto l’abilità di trarre una conseguenza liberatrice da due
constatazioni, che si impongono per la loro evidenza. La prima è che la pace,
vale a dire lo stato di armonia tra persone o popoli, dipende dalla loro volontà
di fare della ricerca della verità, della giustizia, della libertà e della
solidarietà — una vera solidarietà verso tutti, e in particolare verso i più
svantaggiati — la ragion d’essere della politica, e quindi di giudicare le
decisioni prese in funzione della loro adeguatezza a inscrivere tali valori
nella realtà. La seconda è che questo esame di coscienza è possibile a
dispetto delle fratture ideologiche, e che spetta ai popoli intraprenderlo,
poiché tutti gli uomini sono dotati di una coscienza che impone loro come un
dovere la costruzione della pace. Su quest’ultima osservazione si regge quella
che sarà considerata l’innovazione della Pacem in terris: se tutti gli uomini
sono dotati di una coscienza che instilla in loro il desiderio di trovare una
pace fondata sulla verità, perché non potrebbero collaborare tra loro in
questo compito, e quindi perché non si potrebbe stabilire una cooperazione tra
i movimenti sociali attraverso i quali essi hanno sin qui perseguito,
separatamente, l’obiettivo della pace?
Così
Giovanni XXIII non nega che la pace presupponga l’introduzione di un ordine
internazionale fondato sulla verità, la giustizia, la libertà e la solidarietà,
che traggono il loro senso da Dio; anzi, mantiene senza possibilità di equivoci
questa affermazione della dottrina tradizionale, ma non obbliga gli uomini
politici a farne materia dei propri programmi politici senza una adeguata
riflessione previa. Le mentalità si trasformano solo lentamente; pertanto non
si può realizzare in tempi brevi un accordo sul contenuto teorico dell’ordine
internazionale, ma si può trovare un accordo su un pensiero pratico, al fine di
eliminare ciò che si trova manifestamente in contraddizione con esso e di
creare le condizioni affinché tale pensiero si sviluppi.
3.
Giovanni XXIII e la nuova percezione dei rapporti tra i cristiani e il mondo
Le
riflessioni della Pacem in terris sulla pace costituiscono al tempo
stesso una conclusione e un punto di partenza. Questa enciclica ha dato un
impulso determinante al movimento che si delineava in Occidente nelle relazioni
dei cattolici con le autorità politiche di Stati non confessionali; essa in
effetti realizza la sintesi tra due correnti, che si interrogavano sia
sull’opportunità di una presenza attiva dei cristiani nella società
pluralista, sia sulla giustificazione di tale presenza.
a)
Presenza dei cristiani nella società pluralista
Erede
delle critiche rivolte alla filosofia agnostica del «libero pensiero» e alla
Rivoluzione francese, il cristianesimo sociale aveva inizialmente sognato la
restaurazione dell’ordine cristiano; ha per lungo tempo considerato la propria
missione nella società come una lotta della verità contro l’errore. Uno dei
suoi teorici, il benedettino dom Besse, lo dichiarava esplicitamente: «Non ci
si allontanerebbe di molto dalla verità definendo la situazione filosofica
della Francia come l’unione tra il Libero Pensiero e lo Stato. Ma è appunto
il contrario di tale unione, quella tra la Chiesa e lo Stato, che noi
reclamiamo. I privilegi di cui la Chiesa in altri tempi godette, per il momento
sono devoluti al Libero Pensiero e ai suoi partigiani. È il trionfo del
Naturalismo nella politica» 12.
La
guerra del 1914 fu indubbiamente la prima occasione che si offrì agli europei
di sperimentare che una collaborazione tra cristiani e non cristiani per la
realizzazione di obiettivi comuni era possibile 13; ma le relazioni
di fiducia stabilite allora potevano mantenersi in tempo di pace? In effetti
alcuni tentarono di ravvivare le lotte di un tempo, ma Pio XI invitò i
cristiani a esercitare una presenza attiva nella vita politica, poiché questa
aveva un valore in se stessa. Aprì una prima breccia nel cristianesimo di
crociata, in particolare con un discorso tenuto il 18 dicembre 1927 ai dirigenti
della FUCI, di cui mons. Giovanni Battista Montini era da poco assistente
ecclesiastico; in esso rispondeva alla tentazione di un certo numero di
cattolici italiani di rinunciare all’azione politica in una società che si
ispirava a principi diversi dai loro. Fu allora che sviluppò l’idea di «carità
politica» per qualificare l’impegno dei cristiani per la realizzazione del
bene comune. Mediante tale impegno i cattolici «adempiono uno dei più grandi
doveri cristiani, perché più è vasto e importante il campo nel quale si può
lavorare, più importante è l’obbligo. E tale è il campo della politica che
riguarda gli interessi dell’intera società e che, sotto questo profilo, è
il campo della più vasta carità, della carità politica» 14.
L’importanza di questo discorso deriva dal fatto che non propone più, come
faceva dom Besse, di sostituire un programma cattolico a quello dei politici in
carica, ma invita l’individuo ad agire nella società in maniera responsabile.
Esso implica una distinzione tra l’obiettivo lontano dei cattolici impegnati
nell’azione sociopolitica, e la considerazione delle condizioni concrete in
cui essi si trovano oggi.
Certo,
ad alcuni poté sembrare che Pio XI avrebbe poi fatto un passo indietro con
l’ammonimento contenuto nella Divini Redemptoris. Di questa enciclica
contro il comunismo molti hanno ritenuto solo la celebre frase : «Il comunismo
è intrinsecamente perverso e non si può ammettere la collaborazione con esso
da parte di chiunque voglia salvare la civiltà cristiana» 15.
Pastori e moralisti, che si confrontavano con le situazioni concrete
dell’esistenza, studiarono la portata di tale condanna e osservarono che essa
non poteva significare che in ogni circostanza occorreva prendere le distanze
dall’azione dei comunisti e astenersi dal perseguire determinati obiettivi,
come la riforma del regime economico, con il pretesto che le misure proposte
erano invocate anche dai partiti comunisti 16. Il criterio da
adottare doveva consistere nel domandarsi se l’azione progettata «cooperava»
o meno «alla vittoria del comunismo», come del resto precisava l’enciclica.
Una tale interpretazione, per esempio, consentì ai cristiani francesi di
partecipare, con l’approvazione dell’arcivescovo di Parigi, alla
distribuzione di aiuti a degli operai in sciopero, nonostante l’azione fosse
stata organizzata da municipalità comuniste; ma, soprattutto, essa fu in
qualche modo autenticata da Pio XII durante la seconda guerra mondiale, quando
approvò quei vescovi americani che ritenevano giustificata un’alleanza del
loro Paese con l’URSS per sconfiggere il nazismo 17.
L’intervento
che ebbe le maggiori ripercussioni in questo campo fu senza dubbio quello di
Jacques Maritain nel Messico nel 1947; in esso, forte delle molte esperienze
passate e posto di fronte alla sfida del dopoguerra di superare i blocchi
ideologici del passato, egli offrì una giustificazione razionale e pragmatica
della piena partecipazione dei cristiani alle attività delle società
pluraliste.
L’intervento
di Jacques Maritain, in qualità di presidente del Consiglio esecutivo
dell’UNESCO in occasione della seconda conferenza di questa organizzazione a
Città del Messico nel 1947, può essere considerata come la cerniera tra due
epoche: in essa egli mostra che, in una istituzione come l’UNESCO, è
possibile e necessario superare le opposizioni dottrinali: «Ciò che a prima
vista fa apparire come paradossale il compito dell’UNESCO è che esso implica
una concordanza di pensiero tra uomini le cui concezioni del mondo, della
cultura e della stessa conoscenza sono diverse o addirittura opposte. [...] Come
si può, in queste condizioni, concepire una concordanza di pensiero tra uomini
riuniti appunto per un compito d’ordine intellettuale da assolvere in comune,
e che provengono dai quattro angoli dell’orizzonte, e appartengono […] a
famiglie spirituali e a scuole di pensiero antagoniste?» 18.
Per
l’UNESCO, prosegue Maritain, non si tratta di stabilire un «conformismo
intellettuale», ma, poiché «la finalità dell’UNESCO è una finalità
pratica, l’accordo degli spiriti può realizzarsi spontaneamente, sulla base
non di un comune pensiero speculativo, ma di un comune pensiero pratico; non
sull’affermazione di una stessa concezione del mondo, dell’uomo e della
conoscenza, ma sull’affermazione di uno stesso insieme di convinzioni
orientatrici dell’azione. Il che, senza dubbio, è poco, è l’ultimo ridotto
dell’accordo degli spiriti. E tuttavia è sufficiente per intraprendere una
grande opera, e sarebbe molto prendere coscienza di questo insieme di comuni
convinzioni pratiche» 19.
Questo
discorso segna una svolta nella storia del pensiero politico. Risponde infatti
alla posizione assunta dal primo direttore dell’UNESCO in occasione della
prima conferenza generale dell’istituzione. Questi aveva espresso il proprio
desiderio di diffondere l’ideologia scientista e materialista da lui
professata. Lo scopo per Maritain, al contrario, doveva essere quello di
superare le opposizioni tra sistemi di pensiero per dare un contenuto concreto
alle esigenze di giustizia e solidarietà. La possibilità di questa politica
era stata confermata dall’esperienza che l’umanità aveva appena vissuto; la
seconda guerra mondiale aveva visto «quanti credevano in Dio e quanti non vi
credevano» unire i propri sforzi per sconfiggere uno dei totalitarismi; non
era, allora, illogico riprendere le lotte ideologiche, invece di invitare uomini
provenienti da orizzonti diversi a intraprendere una collaborazione costruttiva?
b)
Giustificazione religiosa del pluralismo
La
collaborazione dei cristiani con le forze sociali di ispirazione laica ha troppo
spesso portato a occultare l’ispirazione religiosa loro propria. Questo
atteggiamento nasceva in loro dall’idea che la fede non avesse nulla da
apportare alla soluzione dei problemi sociali, e lentamente si formò in essi la
convinzione che tale soluzione dovesse essere richiesta alle ideologie e alle
teorie economiche. Il progressismo cattolico è nato da questa posizione 20.
La ragione di tale carenza deve essere ricercata nella mancanza di attenzione
verso il ruolo della coscienza nelle decisioni morali di quanti sono impegnati
nelle attività politiche, economiche o di altra natura delle società
pluraliste.
Certo,
il ruolo della coscienza è sempre stato giudicato capitale dal cristianesimo:
ma per secoli, in società stabili dove le istituzioni erano ritenute
corrispondenti alle esigenze della giustizia e della solidarietà, ogni
individuo era invitato a scegliere il bene e ad evitare il male, quali erano
stati stabiliti dalle autorità ecclesiastiche, nel presupposto che queste si
ispiravano agli insegnamenti della Chiesa. Gli Stati confessionali decidevano
essi stessi, in modo sovrano, quale tolleranza avrebbero concesso agli altri
culti. Un nuovo problema sarebbe scaturito dal fatto che, alla fine della
seconda guerra mondiale, gli Stati avevano iniziato a unirsi in comunità più
vaste, e tale movimento appariva destinato a intensificarsi. Fu così che nel
1949 fu creata la NATO, e nel 1951 la CECA (primo nucleo della CEE che nascerà
nel 1957). Orbene, in tali comunità militari, politiche, economiche di Stati i
singoli membri dovevano godere di molti diritti comuni su tutto il territorio
delle comunità stesse. La questione della tolleranza dell’errore diventava
così di scottante attualità. Pio XII la affrontò nel suo discorso
all’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani del 6 dicembre 1953. In esso
riconosceva la legittimità di queste comunità e si chiedeva quale dovesse
essere l’atteggiamento dell’uomo di Stato cattolico di fronte a una legge
ingiusta, introducendo a tale proposito la nozione di «questione di fatto»,
vale a dire dell’esistenza di un campo in cui, nell’ambito dei principi che
gli sono propri, l’uomo di Stato cattolico doveva assumersi la responsabilità
delle proprie decisioni 21.
c)
Giustizia e solidarietà nella Pacem in terris
L’insegnamento
di Pio XII è ripreso al n. 160 dell’enciclica Pacem in terris, in cui
Giovanni XXIII spiega che gli uomini, credenti e non credenti, possono sentirsi
solidali nella ricerca di ciò che è giusto, e quindi precisa in che modo i
cattolici devono comportarsi in questa situazione.
«Pertanto,
può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri
ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire
domani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i
gradi dell'eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi
economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della
comunità, sono problemi che si possono risolvere soltanto con la virtù della
prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia
individuale che sociale. Perciò, da parte dei cattolici tale decisione spetta
in primo luogo a coloro che vivono od operano nei settori specifici della
convivenza, in cui quei problemi si pongono, sempre tuttavia in accordo con i
principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa e con le
direttive dell’autorità ecclesiastica».
Tale
direttiva riprende quella di Pio XII, ma assume una nuova importanza per il
fatto di trovarsi in un documento solenne del Magistero che, per di più, è
indirizzato a tutti gli uomini di buona volontà; l’elemento nuovo è il
giudizio sui movimenti storici con i quali i cattolici sono chiamati a
collaborare; tale direttiva implica un’antropologia sociale che porta a
distinguere fra le teorie sociali e i movimento sociali che ad esse si ispirano.
«Va
altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine
filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell’universo e dell’uomo,
con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche,
anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse
hanno tratto e traggono tuttora ispirazione».
Il
fatto è che i movimenti sociali hanno l’obiettivo di cambiare le condizioni
di esistenza delle società; essi rispondono a un bisogno, inscritto nella
natura umana, di costruire la pace mediante la giustizia e la solidarietà,
poiché, come dice san Tommaso commentando sant’Agostino, «una concordia
ordinata» tra due uomini fa sì che«l’uno concordi con l’altro su cose che
convengono a entrambi» 22. Le teorie alle quali i movimenti si
ispirano non sono altro che «ipotesi direttrici» (secondo l’espressione di
F. Perroux) che verranno necessariamente adattate quando si presenteranno
circostanze nuove. Donde la conclusione: «Inoltre chi può negare che in quei
movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si
fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi
positivi e meritevoli di approvazione?».
Ci
siamo chiesti all’inizio di questa riflessione il motivo per cui la Pacem in
terris abbia suscitato una tale eco nella pubblica opinione. Una breve sintesi
dell’enciclica permette di rispondere a tale questione.
a)
La distinzione operata da Giovanni XXIII tra ideologie e movimenti storici ha
incoraggiato i cattolici a non irrigidirsi in una opposizione sterile rispetto
ai movimenti sociali diversi dai loro; essa ha aperto gli spiriti alla speranza
di un cambiamento anche nei rapporti con il comunismo. Indubbiamente la dottrina
comunista salda indissolubilmente il suo ateismo al suo progetto politico, ma
per l’appunto, sostiene il Papa, niente assicura che sarà sempre così, poiché
avvenimenti ed esperienze impongono ai movimenti sociali di dissociarsi dalle
ideologie dalle quali hanno tratto origine, malgrado ogni affermazione di segno
contrario. Il mutamento di situazioni, di cui Giovanni XXIII evoca la possibilità,
si sarebbe prodotto negli anni successivi, quando si sarebbero visti dirigenti
comunisti tentare di mantenere, contro ogni speranza, un sistema basato su una
ideologia politica, allorché lo sviluppo economico e la diffusione di nuovi
valori avevano modificato le basi stesse del loro sistema.
b)
Maritain nel suo discorso all’UNESCO (1947) e Pio XII nel suo discorso ai
giuristi cattolici italiani (1953) avevano entrambi adottato un atteggiamento
comprensivo, pragmatico, per autorizzare i rapporti tra cattolici e non
cattolici sul piano sociopolitico. Giovanni XXIII non si accontenta di
riprendere questa direttiva di ordine pratico, ma le conferisce un fondamento
filosofico. Prima di essere cristiano, l’uomo è anzitutto inserito in un
ordine naturale e umano che ha proprie leggi di sviluppo. Assumendo questo punto
di partenza per la sua riflessione (nn. 2 ss.), Giovanni XXIII non parla più di
tolleranza; egli adotta un modo di pensare che lo conduce, da un lato, ad
analizzare come costruire l’ordine naturale delle relazioni umane (di qui le
sue riflessioni sui diritti dell’uomo e l’ordine internazionale), e,
dall’altro, a chiedersi se si debbano porre dei limiti, e quali, alla
cooperazione dei cattolici a questa impresa comune (è questo l’oggetto dei nn.
156 ss. sui rapporti tra cattolici e non cattolici).
c)
Il ricorso alla filosofia non conduce il Papa a stabilire un dualismo tra
dottrina e azione. La riuscita del perseguimento del proprio sviluppo naturale
da parte dell’umanità dipende dal «rispetto» dell’ordine stabilito da Dio
(n. 1) e dall’impegno che ciascuno mette per scoprirlo, dal momento che esso
è inscritto nella natura delle cose (n. 4) e nella coscienza (n. 5). Di qui la
presentazione dei diritti dell’uomo non più all’interno della visione
rivelata, come aveva fatto Pio XII nel radiomessaggio per il Natale 1941; di
qui, ancora, l’abbozzo di un ordine internazionale destinato a soddisfare
l’aspirazione naturale di ogni uomo ad «avere di più, per essere di più» 23,
e l’esortazione ai cristiani di«inscrivere la legge divina nella vita della
città terrena» 24, e cioè maggiore giustizia, solidarietà e
rispetto effettivo per la realtà dell’altro.
d)
La responsabilità del cristiano si inscrive all’interno di questa visione
religiosa della condizione umana. Considerando la storia umana nella quale egli
è impegnato, l’uomo constata che essa è contrassegnata da divisione, lotta e
peccato; il cristiano si presenta allora come il riconciliatore, a immagine di
Cristo, e testimone credibile «di verità, di giustizia, di amore fraterno» (nn.
166-172).
Il
fatto che questa analisi sia stata oggetto di una enciclica, per di più
indirizzata anche «a tutti gli uomini di buona volontà», ha conferito
all’insegnamento di Giovanni XXIII un’ampiezza insospettata. Esiste infatti
una differenza radicale tra questo insegnamento e quello dei suoi predecessori.
Questa enciclica opera un rovesciamento di metodo rispetto a questi ultimi nel
modo di considerare le relazioni del cristiano con il mondo. Tale inversione è
stata recepita come una liberazione e un segno di speranza.
A
partire dalla fine del secolo XVIII esisteva una frattura tra la Chiesa e il
mondo. Fino a quella data l’Occidente accettava una rappresentazione unificata
della storia naturale, di quella umana e di quella cristiana. Dio aveva creato
il mondo, come affermava la Genesi (storia naturale), l’uomo aveva ricevuto il
compito di popolare e di sviluppare la terra (storia umana) e, dopo la caduta
originale, Dio era all’opera per la sua redenzione (storia cristiana). Queste
tre storie ne costituivano una sola. Ora, da poco più di due secoli, gli uomini
hanno scoperto che la Bibbia non era quel libro di scienze naturali e umane che
si era creduto che fosse; e hanno allora voluto scoprire da se stessi quale sia
la storia del Pianeta per condurla al suo compimento. La religione, allora,
appare ad essi come «un ingombro sul cammino del futuro» 25. La
Chiesa dà loro l’impressione di opporsi al fatto che l’uomo eserciti tutta
la responsabilità alla quale si sente chiamato nell’ordine temporale.
Giovanni
XXIII risana questa frattura, mostra che si può mettere termine allo «scisma»
tra la dottrina di verità della Chiesa e le verità frutto di esperienze che si
impongono alla coscienza umana. Invece di opporre la storia naturale e quella
umana alla storia cristiana, egli inscrive quest’ultima all’interno dello
sviluppo storico del cosmo e dell’umanità. Per lui, lo sviluppo della società
ha la sua verità naturale, ogni uomo, poiché è responsabile della propria
crescita, ha dei diritti, e ogni società deve essere organizzata per tutelarli
e promuoverli. Il cristiano fa parte di tale società; partecipa a questo
movimento di organizzazione e di crescita; è un operatore di quella fraternità
universale a cui Dio chiama l’umanità.
Secondo
questa linea di pensiero, le nazioni devono sostituire alla esclusiva
preoccupazione di difesa dei loro diritti il senso della loro solidarietà con
le altre nazioni e considerare che è dovere di giustizia accordare a ciascuna
di esse, nella misura di un sano realismo, i mezzi per una partecipazione
organica allo sviluppo del mondo.
Quanti
si ritengono realisti troveranno utopiche queste prospettive. Eppure esse
interpretano la storia dell’umanità quale si manifesta nel rafforzamento
delle relazioni economiche e politiche; e prolungano tali relazioni orientando
gli uomini verso valori spirituali capaci di vincere i tentativi di dominio e di
guerra.
4.
Conclusione
Il
messaggio della Pacem in terris non ha perduto nulla della sua attualità in un
mondo che si unifica e si struttura in funzione dei valori dell’economia di
mercato. L’estendersi di uno stesso tessuto economico sull’insieme del mondo
non permette per se stesso di assicurare la giustizia e la solidarietà sulle
quali si fonda una pace «duratura». Da una parte, l’esperienza mostra che
esso lascia sussistere ampie sacche di povertà in popolazioni i cui bisogni
essenziali non sono assicurati, si tratti di alimentazione, vestiario,
abitazione, istruzione, sanità, ecc. Dall’altra, tali deficienze impediscono
la partecipazione organica e democratica di queste stesse popolazioni ai
processi decisionali che le riguardano 26 e quindi la costruzione di
un ordine internazionale in cui tutti abbiano la vocazione a godere degli stessi
diritti.
La
soluzione delle questioni sociali, poiché dipende dalle scelte della coscienza
nei confronti di ciò che i teologi chiamano il bene comune, non potrebbe essere
trovata solo attraverso accordi esterni, nei quali ognuna delle parti agisce con
l’unica preoccupazione di salvaguardare i propri interessi e la propria
potenza . «[...] soltanto l’unanime e forte contegno di tutti gli amanti
della verità e del bene può salvare la pace, e la salverà» 27;
per questa via si può giungere al ravvicinamento tra sistemi sociali ed
economici diversi; partendo dalla coscienza, che è comune a tutti gli uomini,
questo atteggiamento può realizzarsi tra tutti gli uomini di buona volontà; il
loro obiettivo deve essere quello di correggere le «strutture di peccato» 28,
laddove le stesse contribuiscono a mantenere o ad aggravare situazioni di povertà
tanto materiali quanto educative o spirituali, in particolare mediante gli
attentati alla libertà religiosa. È per aver chiamato le coscienze a
impegnarsi per la realizzazione della giustizia e della solidarietà che la
Pacem in terris è sempre attuale 29.
Testo pronunciato durante un Convegno internazionale su «La Chiesa e l’ordine internazionale» realizzato a Roma il 23-24 maggio 2003 dalla Pontificia Università Gregoriana (Seminario Permanente di studi «Giuseppe Vedovato» sull’etica nelle Relazioni Internazionali) e dall’Istituto Internazionale Jacques Maritain (Cattedra UNESCO «Pace, sviluppo culturale e politiche culturali») in occasione del 40° anniversario dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII.
NOTE
1 Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862), già rettore del Collegio Romano, autore di diverse opere di filosofia politica e uno dei fondatori della rivista La Civiltà Cattolica.
2 TAPARELLI L., Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, Edizioni «La Civiltà Cattolica», Roma 1949, 8a ed. (ristampa della ed. definitiva del 1855), vol II, n. 1299 (1a ed.: Palermo 1840-43).
3 Ivi, nn. 1377-1378.
4 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1941, n. 12.
5 DE SOLAGES B., La théorie de la guerre juste, DDB, Paris 1946, 156.
6 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1941, cit.
7 GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, n. 167.
8 Card. CASAROLI A., «Premessa», in GALIZZI G. (ed.), Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace, Piacenza 7-9 aprile 1983, Franco Angeli 1984, 10 s.
9 Espressioni contenute nei Messaggi di Paolo VI per la Giornata mindiale della pace 1973 e 1974.
10 Cfr STEHLE H., Die Ostpolitik des Vatikans, Piper, München 1975, 333.
11 Una certa distensione si verificò anche nei rapporti della Chiesa con i Paesi dell'Est. Così, per esempio, mons. Beran, arcivescovo di Praga, fu liberato dopo la pubblicazione dell'enciclica, il 3 ottobre 1963.
12 Dom BESSE J.-M., L'Eglise et les libertés, Nouvelle librairie nationale, Paris 1913, 131.
13 Il cristianesimo sociale negli Stati Uniti si è sviluppato in un contesto diverso da quello europeo. L'incontro di queste due correnti si è operato innanzi tutto in occasione del Concilio Vaticano II (1962-1965); cfr. HOLLENBACH D. – DOUGLASS D. B., Catholicism and Liberalism. Contribution to American public philosophy, Cambridge University Press, Cambridge (Ma., USA) 1994, 352.
14 Citato in LUCIANI A., La carità politica, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1994, 355.
15 PIO XI, Divini Redemptoris (1937), n. 58.
16 Cfr VILLAIN J., L’insegnamento sociale della Chiesa, Centro Studi Sociali, Milano 1957, 105-110 (ed. orig. francese 1953, t. 1).
17 Lettera del card. F. J. Spellman del 4 settembre 1941 e lettera di mons. D. Tardini a mons. A. G. Cicognani, delegato apostolico negli Stati Uniti, in data 20 settembre 1941, in BLET P. – GRAHAM R. – MARTINI A. – SCHNEIDER B. (edd.), Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde Guerre Mondiale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1969, vol. V, 186 e 205.
18 Jacques et Raïssa MARITAIN, Oeuvres complètes, vol. IX (1947-1951), Editions Universitaires, Fribourg (Suisse) – Editions Saint-Paul, Paris 1999, 157 s.
19 Ivi, 158.
20 Cfr DELBRÊL M., Città marxista terra di missione, Morcelliana, Brescia 1961 (ed. orig. francese 1957); FESSARD G., De l’actualité historique, t. 2. Progressisme chrétien et apostolat ouvrier, DDB, Paris 1960.
21 Cfr PIO XII, Discorso al 5° Convegno nazionale dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, in AAS, 1953, vol. II, 794-802. Cfr JOBLIN J. (ed.), I cattolici e la società pluralista, ESD, Bologna 1996, 284.
22 S. TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, Seconda parte della Parte seconda, questione 29 (La pace), articolo 1 (Se la pace si identifichi con la concordia), punto 1, Salani, Firenze 1966, vol. XV, 194; cfr AGOSTINO A., La Città di Dio, libro XIX, cap. 13, Rusconi, Milano 1984, 964.
23 PAOLO VI, Populorum progressio, n. 6.
24 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 43.
25 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1956, in AAS, 1957, 14; cfr FESSARD G., Libre méditation sur un message de Pie XII. Noël 1956, Plon, Paris 1957, 165.
26 Cfr PAOLO VI, Discorso all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (10 giugno 1969), in AAS, 1969, 500 s.
27 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1956, cit., 18. Cfr FESSARD G. , Libre méditation..., cit., 165.
28 GIOVANNI PAOLO II, Reconciliatio et Paenitentia (1984), n. 16; Sollicitudo rei socialis (1987), n. 36.
29
Sulla permanente attualità della Pacem in terris
si è pronunciato di recente il Papa: GIOVANNI PAOLO II, «Pacem
in terris: un impegno permanente», in Aggiornamenti
Sociali, 2 (2003) 151-158. Per un commento cfr SORGE B., «Attualità
dell’enciclica Pacem in terris», ivi, 93-98.
Joseph Joblin S.I., Professore emerito nella facoltà di Scienze Sociali della Pontifica Università Gregoriana di Roma