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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Pace, giustizia e solidarietà

P.Joseph Joblin
Fonte: "Aggiornamenti sociali" luglio-agosto 2003

Le nuove generazioni si domandano come mai quelle più anziane attribuiscano tanta importanza all’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, al punto di celebrare prima il ventesimo e poi il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione. Le idee che essa propone sulla pace, e in particolare sulle sue relazioni con la giustizia e la solidarietà, appaiono loro così evidenti, che non comprendono in che cosa tale documento abbia potuto costituire una novità. Esso, tuttavia, ha aperto orizzonti nuovi, e non è inutile domandarsi, nel momento in cui il mondo si trova ad affrontare le questioni che nascono dalla globalizzazione, quali lezioni si possono trarre dall’insegnamento di Giovanni XXIII sulla costruzione della pace.

I cristiani si sono sempre chiesti come attualizzare la massima di Cristo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Per inscriverla nella realtà occorre identificare, in ciascuna epoca, gli attentati contro la giustizia e la solidarietà che mettono in pericolo la pace, al fine di eliminarli. Per la generazione presente si tratta di scoprire come rimediare alla contraddizione tra l’affermazione che una pace «universale e duratura» deve essere frutto della giustizia e della solidarietà, quando i suoi contemporanei si trovano in disaccordo sul contenuto da dare a tali valori e, conseguentemente, sulle priorità da perseguire attraverso la globalizzazione dell’economia e il rafforzamento dei legami politici tra gli Stati. Per i cristiani si tratta di dire per quale ragione ritengono che la Chiesa possa, nel mondo odierno, assolvere a una «missione di giustizia e di pace».

1. L’insegnamento tradizionale sulla pace e le attuali esigenze di universalità

Le prime riflessioni dei teologi cattolici su un ordine internazionale atto a rimediare ai danni provocati dalle guerre nazionali, sono iniziate nel XIX secolo, in particolare con il gesuita padre Luigi Taparelli d’Azeglio 1. Egli affermava che è immorale che degli Stati, per quanto si proclamino sovrani, possano ritenere legittimo entrare in guerra, quando un’organizzazione internazionale fondata sulla giustizia e la solidarietà sarebbe capace, in un dato periodo di tempo, di impedire ogni ricorso alle violenze interstatali. Egli coniò addirittura una parola, «etnarchia», per designare il raggruppamento dei popoli in una unità politica nella quale ciascuno riconosca i «doveri or di giustizia or di benevolenza» che gli spetta di assolvere 2. In una simile società, si arriva «a tale perfezione di mente, di volontà e di forza da conoscere, volere e ottenere una esatta giustizia tra gli associati. […] La guerra […] non potrà più darsi se non fra la suprema sua autorità aiutata dal concorso di tutte le genti associate, e quell’una che pretendesse violar l’ordine, ed opprimere le genti sue uguali. In ogni altro caso ciascun popolo, assicurato dalle forze della intera etnarchia e retto da leggi etnarchiche, che egli pure avrà approvate, potrà con forze mediocri dormir sicuro sulla propria indipendenza. Ed ecco, come potrà scemarsi il peso enorme degli eserciti permanenti» 3 .

Le idee di Taparelli sulla pace e sulla guerra compariranno con sempre maggiore frequenza negli interventi dei Papi, come pure dei giuristi e dei politici, nel corso degli ultimi due secoli; gli uni e gli altri si mostreranno progressivamente favorevoli all’idea di strutturare l’ordine internazionale attraverso istituzioni. Pio XII sarà il primo Papa ad esporre, sistematicamente, «i presupposti essenziali di un ordine internazionale», come si espresse nel radiomessaggio per il Natale 1941: «insistiamo anche ora su alcuni presupposti essenziali di un ordine internazionale che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, sia fecondo di benessere e di prosperità» 4.

Per il Papa, infatti, i popoli non sono entità giustapposte nell’universo; tra essi esiste una unità organica che comporta, per conseguenza, il fatto che essi devono perseguire insieme il proprio bene comune, in uno spirito di giustizia e di solidarietà: «Il genere umano, in effetti — osserva mons. De Solages —, nonostante si divida, in virtù dell’ordine naturale stabilito da Dio, in gruppi sociali, nazioni o Stati, indipendenti gli uni dagli altri per ciò che riguarda il modo di regolare la rispettiva vita interna, è però unito da legami naturali, morali e giuridici in una grande comunità, ordinata al bene di tutte le nazioni e regolata da leggi speciali che ne proteggono l’unità e ne sviluppano la prosperità» 5 .

Tale, prosegue Pio XII, è il «nuovo ordinamento» che deve «essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale», la cui «osservanza deve venir inculcata e promossa dall’opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno possa osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante» 6 .

Alle affermazioni di Pio XII faranno eco quelle di Giovanni XXIII, che alla fine della Pacem in terris dichiara: «la pace rimane solo un vuoto suono di parole, se non è fondata su quell’ordine di cui Noi abbiamo, con fervida speranza, abbozzato in questa enciclica le linee essenziali: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e, infine, posto in atto nella libertà» 7 . In breve, la pace è solo una parola vuota di senso se non è fondata sulla concezione di un ordine giusto e vero accettato da tutti.

Ma chi non vede le difficoltà teoriche sollevate da tale affermazione? L’insegnamento della dottrina sociale sulla pace non appare forse come l’insegnamento di una dottrina sociale tra le altre, sebbene pretenda di detenere essa sola il privilegio della verità? Ma allora, non è illusorio pretendere di essere accettati da tutti, quando molte altre dottrine sulla pace sono state elaborate nel corso dei secoli e tutte hanno preteso di costituire l’ultima parola sulla questione; più ancora, tutte si sono appellate ai valori di verità, giustizia, libertà e solidarietà, e si sono presentate come se ne proponessero una interpretazione incontestabile? Come può la Chiesa pretendere di svolgere un ruolo determinante nella costruzione di una pace universale «giusta e duratura» in un mondo diviso sulla concezione della giustizia e sulla estensione della solidarietà, quando essa stessa appare difendere una dottrina che non accetta compromessi? Il riferimento, nella dottrina cristiana sulla pace, a un Dio unico, trascendente e autore dell’ordine del mondo, non costituisce un ostacolo a che il cristianesimo possa svolgere un ruolo universalizzante, di riconciliazione, nei riguardi di tutte le proposte di pace che si avvicendano sulla scena politica? Tali sono alcune delle questioni che un cristiano non può non porsi oggi, e alle quali una certa tradizione intellettuale, nel mondo occidentale come nella Chiesa, pare attribuire importanza.

2. Originalità della Pacem in terris

Se l’enciclica Pacem in terris non fosse altro che un’esposizione intelligente delle condizioni ideali richieste per stabilire la pace, e se si limitasse soltanto a presentare il pensiero della Chiesa su questo punto, l’opinione pubblica mondiale non l’avrebbe accolta come un segno di speranza. In effetti, un po’ ovunque, e perfino nei Paesi dell’Est, si sono costituiti dei gruppi con l’intento di scoprire l’approccio nuovo alle questioni della pace che l’enciclica sembrava proporre. In essa è presente un elemento ulteriore, rispetto alla visione tradizionale della Chiesa sulla pace, che dobbiamo precisare, prima di mostrarne la specificità.

Una conferenza tenuta dal card. Agostino Casaroli nel 1983 ci sarà di orientamento. In essa egli commenta, tra le altre, la prima frase dell’enciclica: «La pace in terra [...] può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (n. 1). Mentre un lettore frettoloso non vi scorgerà nulla di nuovo, l’affermazione di Giovanni XXIII, rileva il card. Casaroli, travalica i soli aspetti giuridici indispensabili alla costruzione della pace: «presuppone, da una parte, la certezza dell’esistenza di un insieme di norme obiettive, trascendenti le scelte o gli accordi degli uomini; e dall’altra, il convincimento che l’uomo può, a sua scelta, rispettare e non rispettare quest’ordine. Il suo rispetto è condizione ineludibile per la pace; potrebbe anzi dirsi che tale rispetto, non tanto ha come conseguenza, ma è esso stesso la pace. Il suo mancato rispetto porta inevitabilmente a quel “disordine” che — constata l’Enciclica — regna tra gli esseri umani e tra i popoli, quasi che i loro rapporti non possano essere regolati che per mezzo della forza (n. 43)» 8 .

Giovanni XXIII sposta la discussione sulla costruzione della pace dal terreno intellettuale a quello dell’azione pratica. Egli si rivolge alla coscienza di tutti gli uomini, credenti e non credenti, per dir loro che «la pace è doverosa», che «la pace è possibile» e dipende da ciascuno 9.

L’insistenza posta da Giovanni XXIII sulla costruzione della pace a partire dal fatto che in ogni uomo vi è una coscienza che è alla sua ricerca, ha fatto brillare una luce di speranza nel mondo. L’apporto della Pacem in terris va valutato in riferimento alla situazione della società internazionale nel momento della sua pubblicazione e al timore, allora diffuso, di vedere il mondo impegnato in un nuovo conflitto generale, stavolta atomico. Essa ha liberato le popolazioni dal senso di fallimento ineluttabile al quale sembravano votate le loro aspirazioni alla pace, e ciò sin dalla fine della seconda guerra mondiale.

A quell’epoca gli Stati erano divisi in blocchi contrapposti; vi erano state numerose guerre regionali (nel 1963 oltre un centinaio) e a diverse riprese le grandi potenze erano state sul punto di scontrarsi in un conflitto generale: la repressione della rivolta in Ungheria (1956), l’avventura militare franco-inglese di Suez (1956), la spedizione della Baia dei Porci a Cuba (1961), la costruzione del muro di Berlino (1961), la crisi dei missili (installati a Cuba) con l’URSS (1962), il conflitto armato sino-indiano (1962), l’invasione della Cecoslovacchia (1968), ecc.; tutti questi avvenimenti mostravano con evidenza che la pace sarebbe rimasta fuori della portata degli uomini finché questi avessero opposto le proprie visioni, diverse e incompatibili, dell’ordine internazionale. Le poche collaborazioni o contatti che fu possibile instaurare dopo il rapporto Chruscëv che metteva sotto accusa la dittatura stalinista (1956), rendevano ancora più acuto questo senso d’impotenza. Li elenchiamo in ordine cronologico: discorso di Gromyko dell’11 gennaio 1958 a un gruppo di comunisti italiani, in cui parla della somiglianza di vedute con il Vaticano su questioni attinenti alla pace 10; visita di Chruscëv in Francia e all’ONU (1960); trattato di neutralizzazione del Continente Antartico (1961); accettazione della coesistenza di sistemi economici e sociali diversi in seno all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1960); colloqui di Kennedy e Chruscëv a Vienna (1961); presenza di non cattolici alla prima sessione del Vaticano II (1962). Tutti questi fatti non erano in grado, per se stessi, di fermare la corsa agli armamenti 11.

Giovanni XXIII ha avuto l’abilità di trarre una conseguenza liberatrice da due constatazioni, che si impongono per la loro evidenza. La prima è che la pace, vale a dire lo stato di armonia tra persone o popoli, dipende dalla loro volontà di fare della ricerca della verità, della giustizia, della libertà e della solidarietà — una vera solidarietà verso tutti, e in particolare verso i più svantaggiati — la ragion d’essere della politica, e quindi di giudicare le decisioni prese in funzione della loro adeguatezza a inscrivere tali valori nella realtà. La seconda è che questo esame di coscienza è possibile a dispetto delle fratture ideologiche, e che spetta ai popoli intraprenderlo, poiché tutti gli uomini sono dotati di una coscienza che impone loro come un dovere la costruzione della pace. Su quest’ultima osservazione si regge quella che sarà considerata l’innovazione della Pacem in terris: se tutti gli uomini sono dotati di una coscienza che instilla in loro il desiderio di trovare una pace fondata sulla verità, perché non potrebbero collaborare tra loro in questo compito, e quindi perché non si potrebbe stabilire una cooperazione tra i movimenti sociali attraverso i quali essi hanno sin qui perseguito, separatamente, l’obiettivo della pace?

Così Giovanni XXIII non nega che la pace presupponga l’introduzione di un ordine internazionale fondato sulla verità, la giustizia, la libertà e la solidarietà, che traggono il loro senso da Dio; anzi, mantiene senza possibilità di equivoci questa affermazione della dottrina tradizionale, ma non obbliga gli uomini politici a farne materia dei propri programmi politici senza una adeguata riflessione previa. Le mentalità si trasformano solo lentamente; pertanto non si può realizzare in tempi brevi un accordo sul contenuto teorico dell’ordine internazionale, ma si può trovare un accordo su un pensiero pratico, al fine di eliminare ciò che si trova manifestamente in contraddizione con esso e di creare le condizioni affinché tale pensiero si sviluppi.

3. Giovanni XXIII e la nuova percezione dei rapporti tra i cristiani e il mondo

Le riflessioni della Pacem in terris sulla pace costituiscono al tempo stesso una conclusione e un punto di partenza. Questa enciclica ha dato un impulso determinante al movimento che si delineava in Occidente nelle relazioni dei cattolici con le autorità politiche di Stati non confessionali; essa in effetti realizza la sintesi tra due correnti, che si interrogavano sia sull’opportunità di una presenza attiva dei cristiani nella società pluralista, sia sulla giustificazione di tale presenza.

a) Presenza dei cristiani nella società pluralista

Erede delle critiche rivolte alla filosofia agnostica del «libero pensiero» e alla Rivoluzione francese, il cristianesimo sociale aveva inizialmente sognato la restaurazione dell’ordine cristiano; ha per lungo tempo considerato la propria missione nella società come una lotta della verità contro l’errore. Uno dei suoi teorici, il benedettino dom Besse, lo dichiarava esplicitamente: «Non ci si allontanerebbe di molto dalla verità definendo la situazione filosofica della Francia come l’unione tra il Libero Pensiero e lo Stato. Ma è appunto il contrario di tale unione, quella tra la Chiesa e lo Stato, che noi reclamiamo. I privilegi di cui la Chiesa in altri tempi godette, per il momento sono devoluti al Libero Pensiero e ai suoi partigiani. È il trionfo del Naturalismo nella politica» 12.

La guerra del 1914 fu indubbiamente la prima occasione che si offrì agli europei di sperimentare che una collaborazione tra cristiani e non cristiani per la realizzazione di obiettivi comuni era possibile 13; ma le relazioni di fiducia stabilite allora potevano mantenersi in tempo di pace? In effetti alcuni tentarono di ravvivare le lotte di un tempo, ma Pio XI invitò i cristiani a esercitare una presenza attiva nella vita politica, poiché questa aveva un valore in se stessa. Aprì una prima breccia nel cristianesimo di crociata, in particolare con un discorso tenuto il 18 dicembre 1927 ai dirigenti della FUCI, di cui mons. Giovanni Battista Montini era da poco assistente ecclesiastico; in esso rispondeva alla tentazione di un certo numero di cattolici italiani di rinunciare all’azione politica in una società che si ispirava a principi diversi dai loro. Fu allora che sviluppò l’idea di «carità politica» per qualificare l’impegno dei cristiani per la realizzazione del bene comune. Mediante tale impegno i cattolici «adempiono uno dei più grandi doveri cristiani, perché più è vasto e importante il campo nel quale si può lavorare, più importante è l’obbligo. E tale è il campo della politica che riguarda gli interessi dell’intera società e che, sotto questo profilo, è il campo della più vasta carità, della carità politica» 14. L’importanza di questo discorso deriva dal fatto che non propone più, come faceva dom Besse, di sostituire un programma cattolico a quello dei politici in carica, ma invita l’individuo ad agire nella società in maniera responsabile. Esso implica una distinzione tra l’obiettivo lontano dei cattolici impegnati nell’azione sociopolitica, e la considerazione delle condizioni concrete in cui essi si trovano oggi.

Certo, ad alcuni poté sembrare che Pio XI avrebbe poi fatto un passo indietro con l’ammonimento contenuto nella Divini Redemptoris. Di questa enciclica contro il comunismo molti hanno ritenuto solo la celebre frase : «Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civiltà cristiana» 15. Pastori e moralisti, che si confrontavano con le situazioni concrete dell’esistenza, studiarono la portata di tale condanna e osservarono che essa non poteva significare che in ogni circostanza occorreva prendere le distanze dall’azione dei comunisti e astenersi dal perseguire determinati obiettivi, come la riforma del regime economico, con il pretesto che le misure proposte erano invocate anche dai partiti comunisti 16. Il criterio da adottare doveva consistere nel domandarsi se l’azione progettata «cooperava» o meno «alla vittoria del comunismo», come del resto precisava l’enciclica. Una tale interpretazione, per esempio, consentì ai cristiani francesi di partecipare, con l’approvazione dell’arcivescovo di Parigi, alla distribuzione di aiuti a degli operai in sciopero, nonostante l’azione fosse stata organizzata da municipalità comuniste; ma, soprattutto, essa fu in qualche modo autenticata da Pio XII durante la seconda guerra mondiale, quando approvò quei vescovi americani che ritenevano giustificata un’alleanza del loro Paese con l’URSS per sconfiggere il nazismo 17.

L’intervento che ebbe le maggiori ripercussioni in questo campo fu senza dubbio quello di Jacques Maritain nel Messico nel 1947; in esso, forte delle molte esperienze passate e posto di fronte alla sfida del dopoguerra di superare i blocchi ideologici del passato, egli offrì una giustificazione razionale e pragmatica della piena partecipazione dei cristiani alle attività delle società pluraliste.

L’intervento di Jacques Maritain, in qualità di presidente del Consiglio esecutivo dell’UNESCO in occasione della seconda conferenza di questa organizzazione a Città del Messico nel 1947, può essere considerata come la cerniera tra due epoche: in essa egli mostra che, in una istituzione come l’UNESCO, è possibile e necessario superare le opposizioni dottrinali: «Ciò che a prima vista fa apparire come paradossale il compito dell’UNESCO è che esso implica una concordanza di pensiero tra uomini le cui concezioni del mondo, della cultura e della stessa conoscenza sono diverse o addirittura opposte. [...] Come si può, in queste condizioni, concepire una concordanza di pensiero tra uomini riuniti appunto per un compito d’ordine intellettuale da assolvere in comune, e che provengono dai quattro angoli dell’orizzonte, e appartengono […] a famiglie spirituali e a scuole di pensiero antagoniste?» 18.

Per l’UNESCO, prosegue Maritain, non si tratta di stabilire un «conformismo intellettuale», ma, poiché «la finalità dell’UNESCO è una finalità pratica, l’accordo degli spiriti può realizzarsi spontaneamente, sulla base non di un comune pensiero speculativo, ma di un comune pensiero pratico; non sull’affermazione di una stessa concezione del mondo, dell’uomo e della conoscenza, ma sull’affermazione di uno stesso insieme di convinzioni orientatrici dell’azione. Il che, senza dubbio, è poco, è l’ultimo ridotto dell’accordo degli spiriti. E tuttavia è sufficiente per intraprendere una grande opera, e sarebbe molto prendere coscienza di questo insieme di comuni convinzioni pratiche» 19.

Questo discorso segna una svolta nella storia del pensiero politico. Risponde infatti alla posizione assunta dal primo direttore dell’UNESCO in occasione della prima conferenza generale dell’istituzione. Questi aveva espresso il proprio desiderio di diffondere l’ideologia scientista e materialista da lui professata. Lo scopo per Maritain, al contrario, doveva essere quello di superare le opposizioni tra sistemi di pensiero per dare un contenuto concreto alle esigenze di giustizia e solidarietà. La possibilità di questa politica era stata confermata dall’esperienza che l’umanità aveva appena vissuto; la seconda guerra mondiale aveva visto «quanti credevano in Dio e quanti non vi credevano» unire i propri sforzi per sconfiggere uno dei totalitarismi; non era, allora, illogico riprendere le lotte ideologiche, invece di invitare uomini provenienti da orizzonti diversi a intraprendere una collaborazione costruttiva?

b) Giustificazione religiosa del pluralismo

La collaborazione dei cristiani con le forze sociali di ispirazione laica ha troppo spesso portato a occultare l’ispirazione religiosa loro propria. Questo atteggiamento nasceva in loro dall’idea che la fede non avesse nulla da apportare alla soluzione dei problemi sociali, e lentamente si formò in essi la convinzione che tale soluzione dovesse essere richiesta alle ideologie e alle teorie economiche. Il progressismo cattolico è nato da questa posizione 20. La ragione di tale carenza deve essere ricercata nella mancanza di attenzione verso il ruolo della coscienza nelle decisioni morali di quanti sono impegnati nelle attività politiche, economiche o di altra natura delle società pluraliste.

Certo, il ruolo della coscienza è sempre stato giudicato capitale dal cristianesimo: ma per secoli, in società stabili dove le istituzioni erano ritenute corrispondenti alle esigenze della giustizia e della solidarietà, ogni individuo era invitato a scegliere il bene e ad evitare il male, quali erano stati stabiliti dalle autorità ecclesiastiche, nel presupposto che queste si ispiravano agli insegnamenti della Chiesa. Gli Stati confessionali decidevano essi stessi, in modo sovrano, quale tolleranza avrebbero concesso agli altri culti. Un nuovo problema sarebbe scaturito dal fatto che, alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati avevano iniziato a unirsi in comunità più vaste, e tale movimento appariva destinato a intensificarsi. Fu così che nel 1949 fu creata la NATO, e nel 1951 la CECA (primo nucleo della CEE che nascerà nel 1957). Orbene, in tali comunità militari, politiche, economiche di Stati i singoli membri dovevano godere di molti diritti comuni su tutto il territorio delle comunità stesse. La questione della tolleranza dell’errore diventava così di scottante attualità. Pio XII la affrontò nel suo discorso all’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani del 6 dicembre 1953. In esso riconosceva la legittimità di queste comunità e si chiedeva quale dovesse essere l’atteggiamento dell’uomo di Stato cattolico di fronte a una legge ingiusta, introducendo a tale proposito la nozione di «questione di fatto», vale a dire dell’esistenza di un campo in cui, nell’ambito dei principi che gli sono propri, l’uomo di Stato cattolico doveva assumersi la responsabilità delle proprie decisioni 21.

c) Giustizia e solidarietà nella Pacem in terris

L’insegnamento di Pio XII è ripreso al n. 160 dell’enciclica Pacem in terris, in cui Giovanni XXIII spiega che gli uomini, credenti e non credenti, possono sentirsi solidali nella ricerca di ciò che è giusto, e quindi precisa in che modo i cattolici devono comportarsi in questa situazione.

«Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell'eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia individuale che sociale. Perciò, da parte dei cattolici tale decisione spetta in primo luogo a coloro che vivono od operano nei settori specifici della convivenza, in cui quei problemi si pongono, sempre tuttavia in accordo con i principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa e con le direttive dell’autorità ecclesiastica».

Tale direttiva riprende quella di Pio XII, ma assume una nuova importanza per il fatto di trovarsi in un documento solenne del Magistero che, per di più, è indirizzato a tutti gli uomini di buona volontà; l’elemento nuovo è il giudizio sui movimenti storici con i quali i cattolici sono chiamati a collaborare; tale direttiva implica un’antropologia sociale che porta a distinguere fra le teorie sociali e i movimento sociali che ad esse si ispirano.

«Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione».

Il fatto è che i movimenti sociali hanno l’obiettivo di cambiare le condizioni di esistenza delle società; essi rispondono a un bisogno, inscritto nella natura umana, di costruire la pace mediante la giustizia e la solidarietà, poiché, come dice san Tommaso commentando sant’Agostino, «una concordia ordinata» tra due uomini fa sì che«l’uno concordi con l’altro su cose che convengono a entrambi» 22. Le teorie alle quali i movimenti si ispirano non sono altro che «ipotesi direttrici» (secondo l’espressione di F. Perroux) che verranno necessariamente adattate quando si presenteranno circostanze nuove. Donde la conclusione: «Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?».

Ci siamo chiesti all’inizio di questa riflessione il motivo per cui la Pacem in terris abbia suscitato una tale eco nella pubblica opinione. Una breve sintesi dell’enciclica permette di rispondere a tale questione.

a) La distinzione operata da Giovanni XXIII tra ideologie e movimenti storici ha incoraggiato i cattolici a non irrigidirsi in una opposizione sterile rispetto ai movimenti sociali diversi dai loro; essa ha aperto gli spiriti alla speranza di un cambiamento anche nei rapporti con il comunismo. Indubbiamente la dottrina comunista salda indissolubilmente il suo ateismo al suo progetto politico, ma per l’appunto, sostiene il Papa, niente assicura che sarà sempre così, poiché avvenimenti ed esperienze impongono ai movimenti sociali di dissociarsi dalle ideologie dalle quali hanno tratto origine, malgrado ogni affermazione di segno contrario. Il mutamento di situazioni, di cui Giovanni XXIII evoca la possibilità, si sarebbe prodotto negli anni successivi, quando si sarebbero visti dirigenti comunisti tentare di mantenere, contro ogni speranza, un sistema basato su una ideologia politica, allorché lo sviluppo economico e la diffusione di nuovi valori avevano modificato le basi stesse del loro sistema.

b) Maritain nel suo discorso all’UNESCO (1947) e Pio XII nel suo discorso ai giuristi cattolici italiani (1953) avevano entrambi adottato un atteggiamento comprensivo, pragmatico, per autorizzare i rapporti tra cattolici e non cattolici sul piano sociopolitico. Giovanni XXIII non si accontenta di riprendere questa direttiva di ordine pratico, ma le conferisce un fondamento filosofico. Prima di essere cristiano, l’uomo è anzitutto inserito in un ordine naturale e umano che ha proprie leggi di sviluppo. Assumendo questo punto di partenza per la sua riflessione (nn. 2 ss.), Giovanni XXIII non parla più di tolleranza; egli adotta un modo di pensare che lo conduce, da un lato, ad analizzare come costruire l’ordine naturale delle relazioni umane (di qui le sue riflessioni sui diritti dell’uomo e l’ordine internazionale), e, dall’altro, a chiedersi se si debbano porre dei limiti, e quali, alla cooperazione dei cattolici a questa impresa comune (è questo l’oggetto dei nn. 156 ss. sui rapporti tra cattolici e non cattolici).

c) Il ricorso alla filosofia non conduce il Papa a stabilire un dualismo tra dottrina e azione. La riuscita del perseguimento del proprio sviluppo naturale da parte dell’umanità dipende dal «rispetto» dell’ordine stabilito da Dio (n. 1) e dall’impegno che ciascuno mette per scoprirlo, dal momento che esso è inscritto nella natura delle cose (n. 4) e nella coscienza (n. 5). Di qui la presentazione dei diritti dell’uomo non più all’interno della visione rivelata, come aveva fatto Pio XII nel radiomessaggio per il Natale 1941; di qui, ancora, l’abbozzo di un ordine internazionale destinato a soddisfare l’aspirazione naturale di ogni uomo ad «avere di più, per essere di più» 23, e l’esortazione ai cristiani di«inscrivere la legge divina nella vita della città terrena» 24, e cioè maggiore giustizia, solidarietà e rispetto effettivo per la realtà dell’altro.

d) La responsabilità del cristiano si inscrive all’interno di questa visione religiosa della condizione umana. Considerando la storia umana nella quale egli è impegnato, l’uomo constata che essa è contrassegnata da divisione, lotta e peccato; il cristiano si presenta allora come il riconciliatore, a immagine di Cristo, e testimone credibile «di verità, di giustizia, di amore fraterno» (nn. 166-172).

Il fatto che questa analisi sia stata oggetto di una enciclica, per di più indirizzata anche «a tutti gli uomini di buona volontà», ha conferito all’insegnamento di Giovanni XXIII un’ampiezza insospettata. Esiste infatti una differenza radicale tra questo insegnamento e quello dei suoi predecessori. Questa enciclica opera un rovesciamento di metodo rispetto a questi ultimi nel modo di considerare le relazioni del cristiano con il mondo. Tale inversione è stata recepita come una liberazione e un segno di speranza.

A partire dalla fine del secolo XVIII esisteva una frattura tra la Chiesa e il mondo. Fino a quella data l’Occidente accettava una rappresentazione unificata della storia naturale, di quella umana e di quella cristiana. Dio aveva creato il mondo, come affermava la Genesi (storia naturale), l’uomo aveva ricevuto il compito di popolare e di sviluppare la terra (storia umana) e, dopo la caduta originale, Dio era all’opera per la sua redenzione (storia cristiana). Queste tre storie ne costituivano una sola. Ora, da poco più di due secoli, gli uomini hanno scoperto che la Bibbia non era quel libro di scienze naturali e umane che si era creduto che fosse; e hanno allora voluto scoprire da se stessi quale sia la storia del Pianeta per condurla al suo compimento. La religione, allora, appare ad essi come «un ingombro sul cammino del futuro» 25. La Chiesa dà loro l’impressione di opporsi al fatto che l’uomo eserciti tutta la responsabilità alla quale si sente chiamato nell’ordine temporale.

Giovanni XXIII risana questa frattura, mostra che si può mettere termine allo «scisma» tra la dottrina di verità della Chiesa e le verità frutto di esperienze che si impongono alla coscienza umana. Invece di opporre la storia naturale e quella umana alla storia cristiana, egli inscrive quest’ultima all’interno dello sviluppo storico del cosmo e dell’umanità. Per lui, lo sviluppo della società ha la sua verità naturale, ogni uomo, poiché è responsabile della propria crescita, ha dei diritti, e ogni società deve essere organizzata per tutelarli e promuoverli. Il cristiano fa parte di tale società; partecipa a questo movimento di organizzazione e di crescita; è un operatore di quella fraternità universale a cui Dio chiama l’umanità.

Secondo questa linea di pensiero, le nazioni devono sostituire alla esclusiva preoccupazione di difesa dei loro diritti il senso della loro solidarietà con le altre nazioni e considerare che è dovere di giustizia accordare a ciascuna di esse, nella misura di un sano realismo, i mezzi per una partecipazione organica allo sviluppo del mondo.

Quanti si ritengono realisti troveranno utopiche queste prospettive. Eppure esse interpretano la storia dell’umanità quale si manifesta nel rafforzamento delle relazioni economiche e politiche; e prolungano tali relazioni orientando gli uomini verso valori spirituali capaci di vincere i tentativi di dominio e di guerra.

4. Conclusione

Il messaggio della Pacem in terris non ha perduto nulla della sua attualità in un mondo che si unifica e si struttura in funzione dei valori dell’economia di mercato. L’estendersi di uno stesso tessuto economico sull’insieme del mondo non permette per se stesso di assicurare la giustizia e la solidarietà sulle quali si fonda una pace «duratura». Da una parte, l’esperienza mostra che esso lascia sussistere ampie sacche di povertà in popolazioni i cui bisogni essenziali non sono assicurati, si tratti di alimentazione, vestiario, abitazione, istruzione, sanità, ecc. Dall’altra, tali deficienze impediscono la partecipazione organica e democratica di queste stesse popolazioni ai processi decisionali che le riguardano 26 e quindi la costruzione di un ordine internazionale in cui tutti abbiano la vocazione a godere degli stessi diritti.

La soluzione delle questioni sociali, poiché dipende dalle scelte della coscienza nei confronti di ciò che i teologi chiamano il bene comune, non potrebbe essere trovata solo attraverso accordi esterni, nei quali ognuna delle parti agisce con l’unica preoccupazione di salvaguardare i propri interessi e la propria potenza . «[...] soltanto l’unanime e forte contegno di tutti gli amanti della verità e del bene può salvare la pace, e la salverà» 27; per questa via si può giungere al ravvicinamento tra sistemi sociali ed economici diversi; partendo dalla coscienza, che è comune a tutti gli uomini, questo atteggiamento può realizzarsi tra tutti gli uomini di buona volontà; il loro obiettivo deve essere quello di correggere le «strutture di peccato» 28, laddove le stesse contribuiscono a mantenere o ad aggravare situazioni di povertà tanto materiali quanto educative o spirituali, in particolare mediante gli attentati alla libertà religiosa. È per aver chiamato le coscienze a impegnarsi per la realizzazione della giustizia e della solidarietà che la Pacem in terris è sempre attuale 29.

 

Testo pronunciato durante un Convegno internazionale su «La Chiesa e l’ordine internazionale» realizzato a Roma il 23-24 maggio 2003 dalla Pontificia Università Gregoriana (Seminario Permanente di studi «Giuseppe Vedovato» sull’etica nelle Relazioni Internazionali) e dall’Istituto Internazionale Jacques Maritain (Cattedra UNESCO «Pace, sviluppo culturale e politiche culturali») in occasione del 40° anniversario dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII.

NOTE

1 Luigi Taparelli d'Azeglio (1793-1862), già rettore del Collegio Romano, autore di diverse opere di filosofia politica e uno dei fondatori della rivista La Civiltà Cattolica.

2 TAPARELLI L., Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, Edizioni «La Civiltà Cattolica», Roma 1949, 8a ed. (ristampa della ed. definitiva del 1855), vol II, n. 1299 (1a ed.: Palermo 1840-43).

3 Ivi, nn. 1377-1378.

4 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1941, n. 12.

5 DE SOLAGES B., La théorie de la guerre juste, DDB, Paris 1946, 156.

6 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1941, cit.

7 GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, n. 167.

8 Card. CASAROLI A., «Premessa», in GALIZZI G. (ed.), Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace, Piacenza 7-9 aprile 1983, Franco Angeli 1984, 10 s.

9 Espressioni contenute nei Messaggi di Paolo VI per la Giornata mindiale della pace 1973 e 1974.

10 Cfr STEHLE H., Die Ostpolitik des Vatikans, Piper, München 1975, 333.

11 Una certa distensione si verificò anche nei rapporti della Chiesa con i Paesi dell'Est. Così, per esempio, mons. Beran, arcivescovo di Praga, fu liberato dopo la pubblicazione dell'enciclica, il 3 ottobre 1963.

12 Dom BESSE J.-M., L'Eglise et les libertés, Nouvelle librairie nationale, Paris 1913, 131.

13 Il cristianesimo sociale negli Stati Uniti si è sviluppato in un contesto diverso da quello europeo. L'incontro di queste due correnti si è operato innanzi tutto in occasione del Concilio Vaticano II (1962-1965); cfr. HOLLENBACH D. – DOUGLASS D. B., Catholicism and Liberalism. Contribution to American public philosophy, Cambridge University Press, Cambridge (Ma., USA) 1994, 352.

14 Citato in LUCIANI A., La carità politica, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1994, 355.

15 PIO XI, Divini Redemptoris (1937), n. 58.

16 Cfr VILLAIN J., L’insegnamento sociale della Chiesa, Centro Studi Sociali, Milano 1957, 105-110 (ed. orig. francese 1953, t. 1).

17 Lettera del card. F. J. Spellman del 4 settembre 1941 e lettera di mons. D. Tardini a mons. A. G. Cicognani, delegato apostolico negli Stati Uniti, in data 20 settembre 1941, in BLET P. – GRAHAM R. – MARTINI A. – SCHNEIDER B. (edd.), Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde Guerre Mondiale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1969, vol. V, 186 e 205.

18 Jacques et Raïssa MARITAIN, Oeuvres complètes, vol. IX (1947-1951), Editions Universitaires, Fribourg (Suisse) – Editions Saint-Paul, Paris 1999, 157 s.

19 Ivi, 158.

20 Cfr DELBRÊL M., Città marxista terra di missione, Morcelliana, Brescia 1961 (ed. orig. francese 1957); FESSARD G., De l’actualité historique, t. 2. Progressisme chrétien et apostolat ouvrier, DDB, Paris 1960.

21 Cfr PIO XII, Discorso al 5° Convegno nazionale dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, in AAS, 1953, vol. II, 794-802. Cfr JOBLIN J. (ed.), I cattolici e la società pluralista, ESD, Bologna 1996, 284.

22 S. TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, Seconda parte della Parte seconda, questione 29 (La pace), articolo 1 (Se la pace si identifichi con la concordia), punto 1, Salani, Firenze 1966, vol. XV, 194; cfr AGOSTINO A., La Città di Dio, libro XIX, cap. 13, Rusconi, Milano 1984, 964.

23 PAOLO VI, Populorum progressio, n. 6.

24 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 43.

25 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1956, in AAS, 1957, 14; cfr FESSARD G., Libre méditation sur un message de Pie XII. Noël 1956, Plon, Paris 1957, 165.

26 Cfr PAOLO VI, Discorso all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (10 giugno 1969), in AAS, 1969, 500 s.

27 PIO XII, Radiomessaggio per il Natale 1956, cit., 18. Cfr FESSARD G. , Libre méditation..., cit., 165.

28 GIOVANNI PAOLO II, Reconciliatio et Paenitentia (1984), n. 16; Sollicitudo rei socialis (1987), n. 36.

29 Sulla permanente attualità della Pacem in terris si è pronunciato di recente il Papa: GIOVANNI PAOLO II, «Pacem in terris: un impegno permanente», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2003) 151-158. Per un commento cfr SORGE B., «Attualità dell’enciclica Pacem in terris», ivi, 93-98.

 

Joseph Joblin S.I., Professore emerito nella facoltà di Scienze Sociali della Pontifica Università Gregoriana di Roma

Articolo tratto da AS

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