Terrorismo, guerra e coscienza cristiana
Di fronte al drammatico attentato dell’11 settembre contro gli
Stati Uniti, si sono manifestate nel nostro Paese e nello stesso mondo cattolico
voci e posizioni diverse. Da un lato, tutti hanno condannato senza mezzi
termini l’attentato al World Trade Center di New York e al Pentagono di
Washington; parimenti tutti hanno manifestato sincera solidarietà alle vittime
della strage, ai loro familiari e agli Stati Uniti; come pure tutti si sono
detti convinti che occorre catturare i terroristi, giudicarli e punirli in modo
esemplare. D’altro lato, però, non tutti si sono trovati d’accordo sulla tesi
che, per battere il terrorismo, si dovesse scatenare una guerra; molti hanno
espresso aperto dissenso verso chi si ostina a vedere nel terribile atto di
terrorismo uno scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica; infine è
stato clamoroso il rifiuto del discorso sulla «superiorità» della cultura occidentale.
Non deve stupire che su temi cos“ complessi esistano sensibilità e
posizioni differenti. Tuttavia non possiamo non chiederci in che misura certe
prese di posizione siano coerenti o meno con i valori fondamentali di
democrazia e di libertà, a cui tutti si appellano, e, per i cattolici, con la
dottrina sociale della Chiesa.
Cercheremo, perciò, di chiarire tre questioni di fondo che, anche
dopo l’inizio delle operazioni di guerra in Afghanistan, non cessano di
interpellare la nostra coscienza: 1) La guerra è la risposta adeguata al
terrorismo? 2) Si può parlare di «superiorità» culturale dell’Occidente? 3)
Come sconfiggere il terrorismo e costruire insieme un futuro di pace?
1. Il terrorismo e la guerra
Dinanzi alle macerie e alle vittime delle Torri gemelle e del
Pentagono, tutti abbiamo avvertito che l’atto terroristico di New York e di
Washington era diretto non solo contro gli Stati Uniti, ma anche contro di noi,
contro l’intero mondo civile. La ragione è che quell’attentato è stato un crimine
commesso contro l’umanità. Si spiega perciò che Giovanni Paolo II abbia potuto
definire l’11 settembre 2001 «un giorno buio nella storia dell’umanità, un
terribile affronto alla dignità dell’uomo» (Discorso all’udienza generale, 12
settembre 2001).
La condanna è stata unanime e forte. Giustamente. Tanto che non
possiamo non chiederci perché mai la coscienza civile, insorta l’11 settembre,
non abbia reagito prima e con il medesimo sdegno di fronte ad altri crimini
contro l’umanità, non meno efferati, come quelli commessi, per esempio, in
Algeria o nel cruento conflitto israelo-palestinese. Dopo il messaggio
farneticante di Bin Laden, trasmesso da tutte le televisioni del mondo, ci
rendiamo conto che è stato un errore aver interpretato come sporadici episodi
di «terrorismo locale» quelli che in realtà erano già veri e propri focolai di
terrorismo internazionale. In ogni caso, sebbene in ritardo, giustizia va
fatta. è un dovere. Non si possono lasciare impuniti i crimini contro l’umanità,
dovunque essi vengano perpetrati. Il problema invece è un altro: come fare
giustizia?
Infatti, se è vero che il terrorismo c’è stato sempre e
probabilmente non si potrà mai estirpare del tutto, però dobbiamo riconoscere
che quello di oggi è profondamente diverso da quello di ieri. Va affrontato,
dunque, in modo diverso. L’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono, nella
forma in cui è stato architettato e portato a termine, rivela l’esistenza nel
mondo di un terrorismo nuovo, che dispone sia di ingenti risorse economiche, sia
di una organizzazione efficace e ramificata a livello internazionale, sia di
conoscenze tecnologiche e di strategie molto sofisticate. Basti pensare alla
trama raffinata messa in atto dai terroristi, i quali miravano a mettere in
crisi la presunta invulnerabilità degli Stati Uniti, colpendone simultaneamente
i simboli sia del potere economico (le due Torri), sia del potere militare (il
Pentagono), sia del potere politico (verosimilmente il quarto aereo,
precipitato a Pittsburg, avrebbe dovuto colpire la Casa Bianca).
Perciò, l’organizzazione al Qa’ida di Osama Bin Laden non è che il
vertice di una piramide. è un terrorismo invisibile, senza territorio e senza
volto, che recluta adepti tra quei molti diseredati dei Paesi musulmani, per i
quali - non avendo più nulla da perdere - la prospettiva di votarsi al martirio
contro gli «infedeli» occidentali assume anche il valore di riscatto da una
situazione disumana e invivibile. Questa dimensione di fanatismo religioso non
fa che rendere ancor più aggressivi i terroristi. Bin Laden lo sa e se ne serve
per il suo progetto di dare vita a un Islam «puro». Per questo, la sua non è
una battaglia sociale in favore degli emarginati e degli esclusi, ma contro i
regimi arabi «moderati» (definiti «apostati» e corrotti), contro gli
occidentali in genere (ritenuti nemici e corruttori dell’Islam), e soprattutto
contro gli usa, che con la presenza delle loro basi militari «profanano» la
terra «sacra» dell’Arabia, dove si trovano La Mecca e Medina, le città sante
dell’Islam, e sostengono la politica antipalestinese di Israele.
Si capiscono perciò le espressioni deliranti di Bin Laden alla
televisione: «Io ringrazio Dio, perché sono stati distrutti i simboli dell’America
[…]. Ogni musulmano deve alzarsi in piedi per difendere la propria religione e
sradicare gli infedeli dalla Palestina e dalla penisola arabica […]. Giuro su
Dio onnipotente che né America, né coloro che vivono in America avranno
sicurezza, prima che noi avremo sicurezza in Palestina e prima che tutte le
forze straniere vadano via dalla penisola di Maometto» (Corriere della Sera, 8
ottobre 2001).
Ebbene, se le radici del terrorismo islamico sono queste, chi può
ragionevolmente pensare che la auspicabile sconfitta di Bin Laden significhi lo
sradicamento del terrorismo? Sarebbe la medesima illusione di chi credesse che
l’arresto dell’uno e dell’altro boss mafioso equivalga alla eliminazione della
criminalità organizzata. La difficoltà, dunque, sta nel come estirpare la mala
pianta. Da una parte, bisogna intervenire con decisione, non solo per fare
giustizia, ma anche per una necessaria opera di dissuasione e di prevenzione. D’altra
parte, però, se si vuole raggiungere lo scopo, bisogna evitare di cedere ad
alcune pericolose tentazioni.
La prima tentazione da vincere è il ricorso alla ritorsione. Non
si otterrà mai giustizia attraverso la vendetta. Questa, infatti, è la
negazione stessa della giustizia, perché risponde all’odio con l’odio, respinge
la violenza con la violenza, aggiunge morti a morti. E poi contro chi si
eserciterà la rappresaglia, se il terrorismo internazionale non ha volto né
confini, ma si disperde in mille rigagnoli? Senza contare che la rappresaglia
coinvolge sempre popolazioni inermi e innocenti, e questo non si può mai
giustificare moralmente.
Un’altra tentazione è considerare l’atto terroristico dell’11
settembre un formale atto di guerra, al quale perciò non rimane che rispondere
con una vera e propria «guerra guerreggiata». In realtà, schiantandosi sulle
Torri gemelle e sul Pentagono, i kamikaze hanno compiuto un crimine contro l’umanità.
Perciò, la risposta più efficace non è la guerra, ma fare appello alla
coscienza morale dell’umanità. Oggi siamo divenuti coscienti che ogni
violazione dei diritti umani, anche se commessa nell’angolo più remoto della
Terra, colpisce e offende tutti; che i diritti umani sono imprescrittibili, non
sottostanno cioè a vincoli di spazio e di tempo, né geografici o politici, ma
ogni loro violazione può essere legittimamente perseguita dappertutto e in
qualsiasi momento. Ecco perché un gran numero di Paesi (compresi quasi tutti
gli Stati musulmani) si sono uniti agli usa nel condannare gli esecutori, i
mandanti e i fiancheggiatori del terrorismo internazionale, cooperando
attivamente affinché essi siano presi, giudicati e messi in condizione di non
nuocere.
La guerra, dunque, non è, in sé, lo strumento adatto per
ristabilire la giustizia offesa e sradicare il nuovo terrorismo. Conservano
tutta la loro attualità le parole pronunciate da Giovanni Paolo II il primo
giorno della guerra del Golfo contro l’Iraq (17 gennaio 1991): «In queste ore
di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un
mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni.
Non lo è mai stato e non lo sarà mai» (L’Osservatore Romano, 18 gennaio 1991).
è lo stesso monito che il Papa ripeté otto anni più tardi, all’inizio della
guerra del Kosovo, parlando all’Assemblea del Consiglio d’Europa: «Una violenza
che risponde a un’altra violenza non è mai una via per uscire da una crisi
guardando in avanti. Conviene dunque far tacere le armi e gli atti di vendetta,
per impegnarsi in negoziati che vincolino le parti a un accordo che rispetti i
diversi popoli e le diverse culture» (L’Osservatore Romano, 29-30 marzo 1999).
In altre parole, per quanto sofisticate e micidiali siano le armi
di cui gli Stati Uniti e la nato dispongono, la guerra è di natura sua
inadeguata a estirpare il nuovo terrorismo internazionale, le cui radici sono
sociali, culturali e religiose.
Pertanto, se l’intervento militare si è reso necessario (come
extrema ratio) per stanare e disarmare i terroristi, la guerra però - qualora
dovesse continuare ed estendersi -, anziché estirpare il terrorismo islamico,
finirebbe col ravvivarlo anche nei Paesi musulmani moderati. Per estirpare la
mala pianta, ci vogliono altri strumenti. Occorre congelare le fonti
finanziarie che alimentano le reti terroristiche, potenziare e coordinare a
livello internazionale i servizi di intelligence, spegnere i focolai esistenti,
a cominciare dal Medio Oriente, dove bisogna giungere al più presto a
riconoscere lo Stato palestinese. Infine, un piano di aiuti umanitari (una
sorta di «Piano Marshall») in favore specialmente dei palestinesi e degli
afghani, aiuterebbe a far comprendere al mondo islamico che l’intervento
militare non è contro l’Islam e la sua civiltà, ma esclusivamente contro i
terroristi.
In quest’ottica dunque va interpretata la Risoluzione 1373 del
Consiglio di Sicurezza dell’onu (28 settembre 2001), quando riafferma «la
necessità di combattere con tutti i mezzi, secondo la Carta delle Nazioni
Unite, le minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, causate da atti
terroristici».
2. Non «superiorità», ma complementarità culturale
Tuttavia, un errore ancora più grave sarebbe identificare il
terrorismo con il contesto culturale e sociale da cui provengono esecutori e
mandanti. Ciò porterebbe allo scontro tra civiltà e alla guerra di religione,
proprio come vorrebbero alcuni fondamentalisti. «Questa - ha detto Abu Ghaith,
portavoce di al Qa’ida - è la guerra decisiva tra la fede e l’ateismo. Voi
dovete scegliere il vostro campo. Lo stendardo che annuncia la Jihâd contro
ebrei e cristiani è stato innalzato» (Corriere della Sera, 8 ottobre 2001). Ma
una guerra tra civiltà non ha senso. Infatti, ogni cultura ha sempre elementi
di verità, è sempre portatrice di valori particolari e universali, perché l’uomo,
nonostante tutti i suoi limiti, è fatto per la verità e per il bene. è
possibile perciò l’incontro tra culture diverse, a partire da quanto di vero e
di buono si trova in ciascuna di esse.
Non esiste una cultura superiore, perché «ogni cultura è uno
sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un
modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il
cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri,
il mistero di Dio» (Giovanni Paolo II, Discorso all’onu nel 50° della
fondazione, 5 ottobre 1995, in L’Osservatore Romano, 6 ottobre 1995).
Per questo, il Concilio Vaticano II esorta i cristiani affinché,
nel dialogo con le altre culture, si pongano in atteggiamento non solo di chi
dà, ma anche di ascolta e riceve; infatti - dice la Gaudium et spes - «parecchi
elementi di verità» si trovano non solo presso le altre religioni, ma
addirittura presso quei non credenti «che hanno il culto di alti valori umani,
benché non ne riconoscano ancora la sorgente» (n. 92). Non si deve dunque
parlare di «superiorità», ma semmai di «complementarità» tra culture diverse,
il cui incontro è sempre fecondo.
Lo stesso criterio vale per il dialogo interreligioso, soprattutto
tra le religioni monoteistiche. La Chiesa - dice il Concilio - guarda con stima
ai musulmani, che «cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di
Dio anche nascosti, come a Dio si sottomise anche Abramo, a cui la fede
islamica volentieri si riferisce» (Nostra aetate, n. 3). Pertanto, rifiutato il
fondamentalismo (che è una deviazione della coscienza religiosa), il dialogo con
i musulmani può aiutare gli stessi cristiani a superare, tra l’altro, l’ostracismo
del senso religioso dalla vita pubblica, praticato dal laicismo occidentale che
considera la fede un fatto privato della coscienza individuale. Dal canto loro,
i musulmani - come auspica il card. Martini - attraverso il dialogo potrebbero
essere stimolati a cogliere il significato e il valore della distinzione tra
religione e società, tra fede e civiltà, tra Islam politico e fede musulmana;
potrebbero comprendere che è possibile vivere le esigenze di una religiosità
personale e comunitaria in una società democratica e laica, dove il pluralismo
religioso viene rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo rispetto, di
accoglienza e di dialogo (cfr C. M. Martini, Noi e l’Islam, Centro Ambrosiano,
Milano 1990, 27 s.).
In conclusione, la difesa dei diritti umani, della libertà e dei
nostri valori non si ottiene discriminando i musulmani in nome di una presunta
«superiorità» della cultura occidentale, ma attraverso una vigorosa ripresa sia
della vita cristiana, sia della vita democratica, fondate sulla tolleranza e
sul rispetto dell’altro, senza nessuna guerra di religione né scontro di
civiltà.
3. Guardando in avanti
Ciò significa che mentre i terroristi con i loro mandanti e
fiancheggiatori vengono condannati e severamente puniti, nello stesso tempo
anche noi occidentali (a cominciare dagli Stati Uniti) ci dobbiamo interrogare
sulle nostre responsabilità in questa esplosione irrazionale di violenza. Il
nostro egoismo, il nostro razzismo, la nostra chiusura all’altro sono
altrettante radici che alimentano l’odio.
Come negare che l’Occidente si sia preoccupato più del proprio
progresso economico e di uno sfruttamento egoistico delle risorse comuni, che
di un’equa ridistribuzione delle ricchezze? Con quale faccia noi oggi chiediamo
la solidarietà nella lotta contro il terrorismo anche a quei Paesi impoveriti e
gravati di debiti, che abbiamo soffocato con la logica del profitto fine a se
stesso? Non si costruisce la pace, se si propugna il primato della efficienza e
del profitto a scapito della equità e della solidarietà.
Occorre, dunque, guardare in avanti. La soluzione dei problemi che
ostacolano la pace non può essere lasciata alla logica delle armi. La pace è
possibile, se si riparte dalla dignità della persona umana e si mette in
discussione quell’aspetto della sovranità, che consente allo Stato di decidere
autonomamente la guerra.
Perciò, urge ridare forza e autorità alle Nazioni Unite,
attraverso l’aggiornamento del diritto internazionale: ratificando finalmente
lo Statuto del Tribunale Penale Internazionale, includendo formalmente il
terrorismo tra i crimini contro l’umanità, con norme che consentano la
sollecita consegna dei colpevoli alla giustizia, senza più la lunga trafila
burocratica della estradizione. Purtroppo, l’atto terroristico dell’11
settembre è solo l’ultimo in ordine di tempo dei casi drammatici, che
maggiormente hanno fatto sentire la mancanza di una adeguata strumentazione del
diritto umanitario. Abbiamo toccato con mano, per l’ennesima volta, che le
Nazioni Unite mancano di fatto dell’autorità e della forza necessarie per fare
osservare le norme internazionali. A che serve che la Carta delle Nazioni Unite
determini (cap. VII, artt. 39-51) che sia il Consiglio di Sicurezza a prendere
le misure necessarie per mantenere la pace e tutelare il diritto tra i popoli,
se poi - come nel nostro caso - il Paese colpito da un atto terroristico
scatena autonomamente la guerra e si sceglie gli alleati? Anche le tre Risoluzioni
del Consiglio di Sicurezza (adottate il 12, il 18 e il 28 settembre 2001), con
cui si dà via libera all’intervento armato, di fatto sono venute dopo che gli
Stati Uniti avevano già deciso di farsi giustizia da soli. Cosicché si è avuta
la netta sensazione che sia stata l’onu ad allinearsi sulle posizioni degli
usa, più che gli Stati Uniti ad adeguarsi alle decisioni del Consiglio di
Sicurezza.
S’impone dunque una riforma dell’onu, se si vuole che in futuro l’ordine
leso venga ristabilito con strumenti adeguati e secondo regole certe di
giustizia internazionale, e non secondo la «logica» imposta dalle Potenze più
forti. La «forza del diritto» deve prevalere sul «diritto della forza». Poiché
una cosa è certa: nessuna vendetta ammantata di giustizia e nessuna guerra
gestita in proprio potranno mai generare un mondo riconciliato.
Infine dobbiamo prendere coscienza che la giustizia, da sola, non
basta: il male si vince con il bene, l’odio con l’amore. Certo, l’umanità ha
bisogno di giustizia, perché la pace duratura si fonda sulla legalità e sul
rispetto dei diritti umani. Tuttavia, oltre che di giustizia, c’è bisogno di
riconciliazione, di amore e di perdono. Infatti - spiega Giovanni Paolo II nell’enciclica
Dives in misericordia - la giustizia si limita a garantire l’equità nell’ambito
dei beni e dei diritti oggettivi, invece «l’amore e la misericordia fanno sì
che gli uomini s’incontrino tra di loro in quel valore che è l’uomo stesso, con
la dignità che gli è propria» (n. 14).
E' necessario, dunque, imparare la lezione di questa drammatica
svolta nella storia del mondo. Occorre tornare a incontrarsi sull’uomo e
costruire insieme la civiltà dell’amore.