Pace e guerra nel XXI secolo
Introduzione
Sono lieto di partecipare a questo momento di studio e
di riflessione promosso dal Forum di Relazioni internazionali, allo scopo di
individuare i contenuti che i concetti di pace e di guerra vanno assumendo oggi,
all’alba del XXI secolo.
Saluto e ringrazio tutte le autorità politiche,
militari ed ecclesiali qui presenti, come pure i rappresentanti delle
Organizzazioni internazionali, del mondo accademico e delle organizzazioni
umanitarie, i relatori e tutti i partecipanti a questo incontro.
La riflessione da voi promossa nasce dalla
consapevolezza che le gravi instabilità e ingiustizie del nostro tempo
provocano interventi militari, interventi tesi in teoria a garantire,
ristabilire o imporre il rispetto dei diritti fondamentali di persone e
collettività e che tuttavia suscitano gravi interrogativi di ordine morale,
politico e anche militare in chi ha la responsabilità della decisione e
dell’esecuzione di tali interventi.
Tale riflessione, inoltre, si impone all’alba del
nuovo millennio, dopo un secolo - il XX - che, per un verso, è stato uno dei
periodi più tragici dell’intera storia umana e, per un altro verso è stato
il secolo in cui si sono levati i più alti appelli alla pace.
L’ultimo secolo, infatti, "è stato un secolo
segnato da odio e da profondo disprezzo nei confronti dell’umanità, odio e
disprezzo che non rinunciavano a nessun mezzo e metodo per annientare e
sterminare l’altro". È stato un secolo di guerre, intervallate da
periodi più o meno lunghi, non di pace, ma di tregua: oltre alle due guerre
mondiali, molti altri, circa centottanta, sono stati i conflitti armati interni
a singoli Stati o a livello internazionale, i quali - secondo attendibili stime
internazionali - tra il 1950 e il 1990 hanno provocato circa quindici milioni di
morti nel mondo. Né si possono dimenticare le incalcolabili sofferenze che
queste innumerevoli guerre hanno inflitto all’umanità: hanno causato milioni
e milioni di morti e di feriti, distrutto famiglie, gettato nella miseria popoli
interi, creato maree di profughi, condannato al sottosviluppo interi continenti.
Lungo lo stesso secolo, si è pure instaurata una corsa agli armamenti più
distruttivi e più sofisticati che non ha nemmeno lontanissimi paragoni nei
secoli precedenti: se tutto questo non ha portato all’olocausto nucleare, pur
avendolo sfiorato varie volte, non è stato - come alcuni hanno giustamente
osservato - per rinsavimento o per saggezza, ma per timore, perché ci si è
resi conto che in una guerra atomico-nucleare, combattuta su tutto il pianeta
con l’uso di armi nucleari strategiche, non ci sarebbero stati né vinti né
vincitori, ma la fine della storia umana.
Il secolo XX, nel contempo, è stato il secolo nel
quale l’idea e l’azione per la pace hanno indubbiamente conosciuto una
significativa accelerazione. È stato, infatti, il secolo della proclamazione
dei Diritti dell’uomo, dell’affermazione della democrazia e della sconfitta
dei totalitarismi, della fine del colonialismo, delle creazione di grandi
organismi internazionali e, in particolare, dei primi tentativi - con la Società
delle Nazioni e con l’ONU - di realizzazione di una sorta di governo mondiale,
con lo scopo di mantenere la pace e di "preservare le nazioni future dal
flagello della guerra". È stato anche il secolo nel quale ha preso avvio
una cultura della pace, che si è espressa con personalità come Leone Tolstoj,
Gandhi e, in Italia, nel "Movimento nonviolento per la pace" di
Capitini. In campo cattolico, infine, oltre all’affermazione, specialmente
nella seconda metà del secolo, di un forte movimento pacifista, va
indubbiamente ricordato il ricchissimo magistero soprattutto pontificio da
Benedetto XV a oggi e la presa di posizione del Concilio Vaticano II.
Siamo posti di fronte così a uno dei temi - quello
della guerra-pace - tra i più ardui e complessi della convivenza umana e della
morale sociale, che ha accompagnato la riflessione della coscienza umana e
cristiana lungo tutta la storia e che oggi, con lo straordinario mutamento
dovuto all’avvento delle armi atomiche e nucleari, si pone con caratteristiche
significativamente diverse dal passato. È per tutti questi motivi che anch’io
mi sento profondamente interpellato da questo tema, pur non avendo di esso
competenza specifica. Vi rifletto a voce alta di fronte a voi con la mia
coscienza di cristiano e di vescovo, alla ricerca di parametri etici e alla luce
del messaggio evangelico, pur consapevole della complessità dei problemi che
altri potranno approfondire in maniera più precisa e concreta. Le mie fonti di
ispirazione sono naturalmente anzitutto le Sacre Scritture e la dottrina sociale
della Chiesa. Risento dunque anzitutto in me la parola di Gesù "Beati gli
operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9), il suo
invito provocatorio "Ma io vi dico, amate i vostri nemici" (Mt 5,44) e
guardo al futuro con la speranza del profeta Isaia: "Forgeranno le loro
spade in vomeri, le loro lance in falci" (Is 2,4), tenendo conto nello
stesso tempo del lungo cammino storico dei popoli e delle coscienze per
interiorizzare e attuare un tale messaggio, in costante conflitto con le
infedeltà e gli egoismi umani.
In questo contesto intendo proporre alcuni spunti di
riflessione generale su quattro punti: La coscienza cristiana di fronte alla
guerra; l’edificazione della pace nella giustizia e nella solidarietà; in
questa luce, qualche riflessione sulla cosiddetta ingerenza umanitaria; principi
per una riconsiderazione dell’attuale assetto internazionale.
1. La coscienza cristiana di fronte alla guerra
Quella della Chiesa e dei cristiani verso la guerra è
una storia e una riflessione che ha accompagnato i due millenni di cristianesimo
fin qui trascorsi. Essa - come è stato giustamente notato - "sembra avere
subito numerosi mutamenti lungo i 20 secoli che stanno concludendosi. Infatti è
passata da un atteggiamento più o meno pacifista nei primi quattro secoli alla
formulazione della teoria della guerra giusta, poi al sostegno di politiche
destinate a costruire la pace".
In ogni caso, a partire dal dato storico e dalla
dottrina recepita, sembra affiori progressivamente entro la tradizione cristiana
una linea convergente nel tentativo di ridurre sempre di più dimensioni e
conseguenze di ogni intervento bellico.
In questo senso va letta anche la dottrina della
"guerra giusta", sostenuta per molti secoli dalla teologia, senza
essere mai sancita in modo "ufficiale" dal Magistero della Chiesa.
Tale dottrina, infatti, - nell’accezione condivisa dalla morale cattolica e
diversamente da quella deviazione interpretativa che se ne è data a partire dal
Rinascimento, allorché venne utilizzata per arrecare una parvenza di
legittimazione morale alle diverse ambizioni nazionali - "non è animata
dall’intenzione di "giustificare" nel senso di promuovere o
incoraggiare il ricorso alla guerra. Al contrario, essa mira a ridurre il più
possibile tale ricorso. "Il più possibile", in quanto non esclude a
priori che - in particolari situazioni - l’astensione da interventi militari
avrebbe effetti controproducenti proprio rispetto al fine che sempre deve essere
perseguito: quello di assicurare le condizioni per una convivenza umana
"pacifica", libera, cioè, dal dominio della violenza incontrollata e
del "potere" arbitrario". Il presupposto di tale teoria
consisteva nella convinzione che la guerra, che in ogni caso costituisce una
disgrazia e comporta mali grandi e orrendi, in alcune circostanze potrebbe
apparire come in qualche modo "inevitabile" o "necessaria".
In ogni caso l’intento di tale teoria, intento di stampo prettamente
pedagogico, era quello di fare appello alla coscienza perché rinunciasse alla
violenza - aiutandola a liberarsi dai condizionamenti della passione, del
desiderio di vendetta, e di ogni sorta di sopraffazione - e decidesse se, in
quel momento preciso e concreto, il ricorso alla violenza fosse in qualche
maniera ammissibile e giustificabile.
Per raggiungere tali scopi, questa teoria individuava
condizioni e regole molto precise e severe - anche se spesso concretamente
inattuabili, considerata la logica stessa della guerra, che mira a infliggere al
nemico danni gravissimi, assai superiori a quelli probabilmente indispensabili
per conseguire il pur giusto fine per cui si fa la guerra - perché una guerra
potesse dirsi "giusta".
La guerra - come appare anche dalla teoria appena
ricordata della "guerra giusta" - è sempre un male e, come tale, va
evitata o almeno - quando essa apparisse come inevitabile - va limitata il più
possibile nelle sue dimensioni e nelle sue conseguenze. Ciò è ancora più
evidente e urgente a mano a mano che si passa alla guerra moderna, a una guerra,
cioè, che per sua natura comporta armi e distruzione di massa, che sfuggono al
controllo dell’uomo e che, seppure in misura diversa, si qualifica pressoché
sempre come "guerra totale", anche quando non si usassero armi
chimiche o termonucleari, ma armi cosiddette convenzionali.
Come sottolinea, infatti, anche Giovanni Paolo II,
oggi "non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di
distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più
stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai
arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto".
Alla luce di questi radicali cambiamenti intervenuti
nel modo di fare la guerra e nel concetto stesso di guerra, si comprende come,
nel secolo XX, con gli interventi del magistero, da Benedetto XV a Giovanni
Paolo II, si sia passati dalla considerazione delle condizioni classiche per
l’affermazione di una "guerra giusta" all’affermazione della
impossibilità di dichiarare "giusta" una guerra totale, o condotta
con armamenti strategici ultimamente incontrollabili, fino all’affermazione
della necessità di evitare, fin dove possibile, ogni guerra, in un contesto
come l’attuale, nel quale un conflitto appare non facilmente delimitabile una
volta avviato, nel quale, civili vengono di solito ad essere molto più
coinvolti dei militari stessi e dove le conseguenze creano facilmente effetti
negativi destinati a perdurare ben oltre la durata delle operazioni belliche.
Come, infatti, già si esprimeva Giovanni XXIII nella Pacem in terris,
superando così il concetto di "guerra giusta", "Nell’era
atomica è irrazionale [alienum est a ratione] pensare che la guerra
possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati".
E il Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatemi, su questo
punto ha avuto una parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che
indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e
dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con
fermezza e senza esitazione deve essere condannato".
Secondo questi interventi, si deve, quindi, concludere
che la guerra moderna è di fatto quasi sempre immorale. Essa, inoltre, è anche
inutile, dannosa e irrazionale, perché non solo non risolve, se non
apparentemente e momentaneamente, i problemi che l’hanno scatenata, ma li
aggrava e ne crea di nuovi ancora più gravi. Come ha scritto Giovanni Paolo II,
"il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono
spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni
di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in
genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto,
oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra,
è l’umanità a perdere". Ne segue l’accorato appello risuonato già
sulle labbra di Paolo VI prima, nel suo intervento all’ONU , e poi ripreso
solennemente anche da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus:
“"Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che distrugge la
vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge ugualmente la vita
degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi,
rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l’hanno
provocata!”.
In questo quadro, che concorre ad affermare che oggi
non esistono "guerre giuste" e non esiste un “diritto di
"fare" la guerra”, l’unico spiraglio che rimane praticamente
aperto in ordine alla "legittimità" - e non tanto e ancora alla
"doverosità" - di un intervento bellico è quello che riguarda la
cosiddetta guerra difensiva, in presenza di un’aggressione ingiusta in atto.
È, per altro, uno spiraglio molto piccolo, se si considera soprattutto il tema
della "proporzionalità" tra il bene che ci si aspetta di conseguire e
i danni da infliggere e i costi da sostenere. Come dice, infatti, il Concilio,
"fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà
un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta
esaurite tutte le possibilità d’un pacifico accomodamento, non si potrà
negare ai governi il diritto d’una legittima difesa". È un diritto,
questo, ribadito anche recentemente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che
precisa anche gli attuali rigorosi criteri di legittimità morale, la cui
"valutazione morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la
responsabilità del bene comune".
In forza di tali criteri, "occorre
contemporaneamente:
- che il danno
causato dall’aggressione alla nazione o alla comunità delle nazioni sia
durevole, grave e certo;
- che tutti gli
altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;
- che ci siano
fondate condizioni di successo;
- che il ricorso
alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella
valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni
mezzi di distruzione".
Ne segue che, anche in questo caso, - come ho
ricordato fin dall’inizio - la logica e l’intento di fondo è di ridurre
sempre più dimensioni e conseguenze dell’intervento bellico e, positivamente,
di sollecitare un’azione articolata e convergente che porti a superare le
cause di un possibile conflitto. Si tratta, tra l’altro, di proseguire non
soltanto nella linea di una delimitazione degli effetti negativi degli
armamenti, ma in quella della accurata reinterpretazione del concetto stesso di
"difesa". Per un verso, superata la prospettiva tradizionale della
"difesa del territorio nazionale e della popolazione ad esso
inerente", si potrebbe accedere a sempre nuove identificazioni dei
"mali sociali" o "strutture di peccato" cui una o più
nazioni, anche solidalmente, sono chiamate a rispondere, con la conseguente
predispo-sizione di tattiche e mezzi idonei allo scopo. Per un altro verso, si
tratterebbe di dare spazio a diversificate e convergenti azioni di difesa, non
esclusa anche la difesa nonviolenta. Occorre, infatti, - come ricordavo in
occasione della Giornata Mondiale della Pace del 1984 - "avere il coraggio
di esigere che i responsabili programmino forme di difesa militari e civili non
offensive, che non sono la rassegnazione totale, ma non sono neppure la
deterrenza e la dissuasione offensiva che è al centro del dibattito morale
oggi. Bisogna osare la via realistica della dissuasione puramente difensiva, che
è poi la versione moderna della "legittima difesa", la quale ultima
è troppo spesso confusa con la legittima offesa. Gli scienziati e i tecnici
vanno mobilitati non per scoprire armi più vulneranti (anche se si dice che
rimarranno solo a scopo di minaccia e di monito), ma modi di neutralizzare
l’offesa così da scoraggiarla perché priva di risultati adeguati. È così
che gli Stati moderni intendono la legittima difesa all’interno delle loro
strutture civiche. Perché non deve essere lo stesso anche tra gli Stati, in
attesa di un’autorità definitiva che regoli i conflitti con i soli mezzi del
dialogo?".
Con la condanna del ricorso alla guerra, infine, la
coscienza cristiana è andata progressivamente condannando la corsa agli
armamenti e superando la logica della deterrenza, intesa come accumulo di armi -
a livello quantitativo e, oggi soprattutto, a livello qualitativo e di
tecnologie avanzate - allo scopo di dissuadere qualsiasi avversario dal compiere
atti di guerra. "Riguardo a tale mezzo di dissuasione - come si legge nel
Catechismo della Chiesa Cattolica - vanno fatte severe riserve morali".
Esso infatti - come afferma il Concilio e gli fa eco lo stesso Catechismo -
"non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto
equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause
di guerre, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di
aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi
sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle
miserie così grandi del mondo presente". In altri termini - come ha detto
il Papa il 23 agosto 1982 - "la logica della deterrenza nucleare non può
essere considerata come uno scopo finale o un mezzo appropriato e sicuro per
salvaguardare la pace internazionale". Ancora più precisamente - come ha
affermato lo stesso Giovanni Paolo II nel suo Messaggio all’ONU dell’11
giugno 1982 - "Nelle condizioni attuali, una "deterrenza" fondata
sull’equilibrio, non certo come un fine in se stesso ma come una tappa sulla
via di un disarmo progressivo, può ancora essere giudicata moralmente
accettabile. Tuttavia, per assicurare la pace, è indispensabile non essere
soddisfatti di questo minimun che è sempre esposto al reale pericolo dello
scoppio di una guerra".
A dire, cioè, che la politica della deterrenza può
essere moralmente accettabile solo se, nello stesso tempo, si fa sinceramente e
concretamente ogni sforzo per imboccare la via del negoziato, allo scopo di
giungere al disarmo e se si lavora per mutare il clima di sfiducia e di paura
nei rapporti internazionali. Ne segue che essa non è, invece, moralmente
accettabile quando non fosse controbilanciata da una politica di riduzione o
limitazione degli armamenti e di disarmo progressivo e multilaterale. Ne segue
pure che, tale politica va tanto più superata quanto più crescono il
negoziato, il disarmo, la fiducia tra gli Stati. Come sottolineavo nella già
citata mia omelia per la Giornata Mondiale della Pace del 1984, "la
sicurezza non deve essere intesa solo come sicurezza militare, ma deve
consolidarsi attraverso un potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici,
degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione deve farsi
forte non solo di quell’atteggiamento così disumano che è la forza violenta,
ma anche e soprattutto di quelle risorse più degne dell’uomo che sono la
solidarietà internazionale, le sanzioni giuridiche, l’isolamento di chi usa
prepotenza, ecc.". E aggiungevo: "Occorre anche sviluppare tecniche e
addestramenti di difesa civile non violenta, e investire per questo in programmi
adeguati. L’insieme di questi mezzi costituirebbe una reale alternativa alla
deterrenza offensiva. Sarebbe una efficace dissuasione difensiva che ci
permetterebbe di affrontare tutti con cuore più disponibile il tema del
disarmo, in parte anche di un disarmo unilaterale. […] Non ci vengano dunque a
dire che non c’è alternativa realistica alla deterrenza offensiva. C’è, e
bisogna trovarla con tutte le forze, se non si vuole che la dissuasione
aggressiva che è poi la garanzia del mutuo annientamento, tollerata ora come
male minore e come ripiego provvisorio e solo alla condizione di trovare vie di
uscita più umane e pacifiche, diventi un’abitudine, una pratica accettazione
della spirale degli armamenti, e infine una trappola di morte per l’umanità".
2. L’edificazione della pace nella giustizia e nella solidarietà
Da quanto detto fin qui risulta che non bastano la
ribellione morale alla guerra e alla corsa agli armamenti e il rifiuto della
politica della deterrenza. Occorre, insieme e positivamente, impegnarsi per
costruire la pace, la quale - come insegna la Pacem in terris - è fondata sulla
verità, sulla giustizia, sull’amore, sulla libertà. Ne seguono - quale sfida
urgente e improcrastinabile anche per il XXI secolo - la necessità e il dovere
di impegnarsi per eliminare dal nostro mondo le disuguaglianze sociali e gli
squilibri economici tra i popoli, le condizioni di oppressione e lesione dei
diritti umani più essenziali, le minacce per l’umanità connesse con ogni
tipo di totalitarismo politico o ideologico.
"Il mobilissimo e impegnativo compito della pace,
insito nella vocazione dell’umanità ad essere e a riconoscersi come
famiglia" - ha scritto Giovanni Paolo II nell’ultimo Messaggio per la
Giornata Mondiale della Pace introducendo la questione della solidarietà come
condizione ineliminabile per la pace - "ha un suo punto di forza nel
principio della destinazione universale dei beni della terra". E
aggiungeva: "Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così
auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c’è pace vera se ad essa non
si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al
fallimento qualsiasi progetto che ritenga separati due diritti indivisibili e
interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno sviluppo integrale e
solidale".
A questo proposito, l’edificazione della pace,
soprattutto in un contesto di globalizzazione come l’attuale, richiede che si
abbia a far maturare un’autentica cultura della solidarietà. Nel fare ciò va
superata ogni concezione "assistenzialistico-sentimentale" della
solidarietà stessa, vedendola piuttosto come responsabilità per il bene
comune. Si deve pure riconoscere il nesso che intercorre tra efficienza e
solidarietà, convinti che quest’ultima, proprio in quanto risponde a un
principio etico superiore di fraternità verso chi si trova in condizioni di
bisogno, può essere considerata anche una "convenienza" per lo stesso
funzionamento complessivo della società. Essa, inoltre, può essere realizzata
mediante una pluralità di "reti di sostegno", capaci di attuarsi in
ordine a una molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto
i "poveri". Infine, va attuata riconoscendo anche il
"vincolo" e il "debito" che ci lega a tutto il patrimonio
ambientale, economico, culturale, sociale lasciatoci in dono dalle generazioni
che ci hanno preceduto: ciò esige - proprio in nome della solidarietà - che ci
si assuma la responsabilità di consegnarlo "migliorato" alle
generazioni future. In altre parole, la sfida che ci attende è quella di
assicurare "una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione
senza marginalizzazione".
Va pure sottolineato, in particolare, - come ha
sottolineato Giovanni Paolo II nell’enciclica Sollicitudo rei socialis - che
"il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente
raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche
con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a
vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un
mondo migliore". Il riferimento a queste "virtù" mi suggerisce
una parola di richiamo al ruolo fondamentale e irrinunciabile dell’educazione
per l’edificazione della pace. Si tratta, infatti, di far crescere le persone
nella libertà, purificandola da ogni falsificazione o riduzione e rispettandola
e promovendola con saggezza e prudenza. Si tratta di condurre un’opera
paziente e coraggiosa di responsa-bilizzazione che aiuti ogni persona a crescere
in quella solidarietà che - per riprendere ancora alcune espressioni del Papa -
è "la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene
comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente
responsabili di tutti". Si tratta, in ogni ambito educativo e nella
concretezza dell’esperienza quotidiana, di comunicare alcuni valori
fondamentali - quali il rispetto dell’altro, il senso della giustizia, la
sincerità, l’onestà, l’accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità
disinteressata, il servizio generoso - che soli possono concorrere a far
crescere uomini veri, giusti, generosi, forti e buoni, quegli uomini cioè che
possono contribuire positivamente all’edificazione di una convivenza umana più
pacifica. Tutto questo nasce dalla convinzione che - come si legge in un
documento della Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza
episcopale italiana - la pace chiama certamente in causa le istituzioni,
"ma è sempre il cuore dell’uomo che è chiamato a scegliere tra la forza
e il dialogo, la competizione e la solidarietà". Ne segue che il pur
necessario cambiamento delle istituzioni resta impresa vana e impossibile se non
cambia il cuore dell’uomo e se, quindi, attraverso l’opera educativa,
l’uomo non viene aiutato ad essere pienamente se stesso, nel riconoscimento
dell’altro e in un rapporto di prossimità e di fratellanza con tutti.
È, infine, un’azione, quella dell’edificazione
della pace, che invita l’intera umanità a impegnarsi su vie nuove e a
sviluppare la collaborazione fattiva di tutte le forze ideali che, riconoscendo
il valore superiore dell’ideale della pace, partecipano alla sua costruzione.
Ne segue la necessità di un dialogo, non ingenuo e cieco, ma lucido, tra le
parti sociali delle diverse civiltà: un dialogo che orienti e induca a guardare
alla pace non soltanto come a un’assenza di guerra, imposta con la forza, ma
come a un’opera di giustizia inscritta nella realtà. In altri termini, oggi
si chiede a tutti di costruire la pace, guardando agli interessi globali
dell’intera umanità e adoperandosi per uno sviluppo solidale nel rispetto dei
diritti di tutti e di ciascuno. E proprio in riferimento a queste esigenze di
solidarietà e di difesa dei diritti possono essere ripresi e reinterpretati i
criteri individuati nel passato per la problematica della "guerra
giusta". Ciò significa che autorità competente, giusta causa, retta
intenzione, preoccupazione per le popolazioni civili, considerazione e rispetto
delle proporzioni possono essere aspetti di una "griglia di lettura"
che permette ai popoli di giudicare se l’agire quotidiano dei loro governi
rafforzi o metta in pericolo la pace. E tale "griglia di lettura" può
costituire il nucleo di una "teologia della pace", che teologi,
politici e militari devono elaborare insieme.
3. Qualche riflessione sulla cosiddetta ingerenza umanitaria
Un’altra questione - da distinguere opportunamente
da quelli fin qui affrontati della guerra e dell’intervento armato a scopo
difensivo - è quella che riguarda un intervento armato, o comunque supportato
dall’uso di armi, orientato a finalità di carattere umanitario, attuato sia
nel tentativo di comporre i rapporti tra differenti Paesi o di prevenire un
conflitto, sia per ristabilire livelli accettabili di convivenza all’interno
di un singolo Stato, i cui poteri pubblici non sono o non sarebbero più in
grado di provvedervi in modo autonomo.
Il presupposto che fonda e spiega la possibilità di
questa cosiddetta "ingerenza umanitaria" è dato dalla convinzione,
che i diritti umani, da un lato, in quanto strettamente connessi con la dignità
della persona umana, sono anteriori e preminenti a qualsiasi differen-ziazione o
specificazione e, dall’altro lato, proprio per questo non hanno frontiere,
perché sono universali e indivisibili. Ne segue - come ha scritto il Papa nel
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno - sia che
"chi offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale,
offende l’umanità stessa", sia che "il dovere di tutelare tali
diritti trascende i confini geografici e politici entro cui essi sono
conculcati", per cui "i crimini contro l’umanità non si possono
considerare affari interni di una nazione". Ne segue che, soprattutto in un
tempo di interdipendenza come il nostro, il principio di non-ingerenza tra gli
Stati, se inteso in modo assoluto, si rivela anacronistico e antistorico, oltre
che non rispettoso della posta in gioco allorquando vengono conculcati i diritti
degli uomini e dei popoli.
A partire da tutto ciò, contro ogni presunta
"ragione" della guerra, va anzitutto affermato "il valore
preminente del diritto umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto
all’assistenza umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati"
e, nello stesso tempo, "il dovere di individuare tutti quei modi,
istituzionali e non, che possono concretizzare al meglio le finalità
umanitarie". Si apre qui un capitolo molto vasto e interessante, che non è
possibile ora sviluppare, circa il senso, le condizioni e i limiti degli
interventi delle diverse organizzazioni umanitarie e, in particolare, di quelle
di ispirazione cristiana.
Dalle medesime considerazioni e quando i soli
interventi umanitari non fossero sufficienti, deriva anche la legittimità-doverosità
della più diretta "ingerenza umanitaria" che preveda anche
l’eventuale uso delle armi. Così si esprime il proposito il Papa nel più
volte citato Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno:
"Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto
i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica
e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso
impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore". Una
legittimità-doverosità che deve rispondere a precise e rigorose condizioni,
così espresse: "Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e
precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto
internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello
soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".
Si tratta di un principio di carattere etico-giuridico
prima che politico e militare, che sancisce il diritto-dovere della comunità
internazionale di intervenire anche con la forza, se necessario, negli affari
interni di uno Stato, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei cittadini.
Come tale esso sembrerebbe da considerare - più che nella linea della difesa da
un male - nella logica degli interventi di ristabilimento dell’ordine
pubblico. Si tratta, quindi, di interventi che possono anche arrivare a
prevedere l’uso delle armi, ma come "extrema ratio" e dopo avere
utilizzato tutta una serie di altri mezzi, oltre a quelli dovuti alla
prevenzione e alla diplomazia. Siamo di fronte, in altre parole, a un intervento
armato di tipo sussidiario, sia come "affiancamento" o
"protezione" di operazioni umanitarie in corso, sia come modalità di
"ristabilimento" dell’ordine pubblico.
È evidente che tale principio richiede una vera
riconsiderazione dell’attuale assetto internazionale, in cui la sovranità dei
singoli Stati è piena ed indiscussa, così da mettere in atto e portare a
ulteriore sviluppo processi virtuosi di autolimitazione di essa da parte di ogni
singolo Paese e da creare effettivamente spazi e condizioni per un’azione
efficace, accolta e riconosciuta di organismi internazionali, come l’ONU, a
loro volta riformati almeno quanto a poteri e a capacità rappresentativa. Si
apre qui, tra l’altro, anche il grosso capitolo della giustizia internazionale
e del suo ristabilimento: un ambito vastissimo e comprendente tutto quanto
attiene al problema dello sviluppo e che va ben oltre il campo degli interventi
estremi di carattere armato. Questi ultimi, comunque, andranno presi in
considerazione là dove non ci fosse altra possibilità realistica, sempre però
secondo quella logica sussidiaria a cui ho già accennato e che, come tale, è
complementare ad altri interventi, anche di carattere punitivo o restrittivo
della "libertà statuale", se così si può dire, in linea con la
logica della "giustizia penale" che si applica all’interno degli
Stati.
4. Principi per una riconsiderazione dell’attuale assetto internazionale
Da tutto quanto siamo venuti dicendo fin qui, appare
con sufficiente chiarezza la sempre più urgente necessità di dare vita ed
efficienza ad istituzioni sovrastatali per il trattamento dei diversi conflitti.
Lo richiedono sia la crescente interdipendenza a livello mondiale, sia il potere
incredibilmente devastante degli armamenti, sia il già richiamato principio
dell’ingerenza umanitaria. Tutto ciò rende, infatti, impensabile che si possa
provvedere a un giusto "ordine internazionale" - e, forse, alla stessa
sopravvivenza dell’umanità - senza mettere in discussione il consueto modo
d’intendere la "sovranità statale". La pace, in questo senso,
richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell’arginare le
possibili sopraffazioni. Era già questo l’auspicio di Paolo VI nel suo
discorso alle Nazioni Unite: egli, infatti, - partendo dalla convinzione che il
bene comune universale pone oggi problemi a dimensioni mondiali che non possono
essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi
ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè,
che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale - così si
esprimeva: "Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a
instaurare un’autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano
giuridico e politico?".
"Si apre qui" - come ha sottolineato
Giovanni Paolo II anche nell’ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della
Pace - "un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la
politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con
passione e con saggezza". E aggiungeva: "È necessario e non più
procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni
internazionali che abbia nella preminenza del bene dell’umanità e della
persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale
di organizzazione".
Nel cercare di assolvere a questo compito importante e
sempre più urgente, è necessario ripensare l’idea stessa di nazione. È
necessario, infatti, superare ogni forma di nazionalismo e aprirsi ad una
convivenza più accogliente e solidale. Si tratta di distinguere adeguatamente
tra nazionalismo e patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi
e negativi; di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la
tendenza all’uniformità; di rispettare e promuovere il diritto di ogni
nazione di preservare la propria sovranità nazionale; di ricercare formule che,
superando l’immediata identificazione tra "Stato" e
"nazione", consentano a popoli diversi di vivere in un’unica entità
statale vedendo ampiamente salvaguardati i propri diritti e la propria identità.
L’ottica per realizzare questo necessario e urgente ripensamento dovrebbe
essere quella della "cultura della nazione", vista come luogo nel
quale si manifesta la sovranità fondamentale della società, quella sovranità
per la quale l’uomo è supremamente sovrano: è proprio mediante tale cultura
che la nazione esiste ed è in forza del diritto a tale cultura che la nazione
ha diritto ad esistere. E, tuttavia, tutto ciò non si può né si deve
identificare con nessuna sorta di nazionalismo. Le differenze nazionali non
devono scomparire, ma piuttosto devono essere mantenute e coltivate come
fondamento di solidarietà. Nello stesso tempo, però, non si può dimenticare
che la stessa identità nazionale non si realizza se non nell’apertura verso
gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi. Ne segue che la stessa
nozione e realtà della nazione va mantenuta e interpretata entro la tensione
vitale tra universalità e particolarità che caratterizza la condizione umana.
In questa ottica, l’autonomia nazionale è sì un valore importante, ma non
assoluto: prima degli interessi nazionali, infatti, ci sono gli uomini con la
loro inalienabile dignità e, al di sopra delle tradizioni particolari dei
singoli gruppi umani, si pone la comunità universale, da costruire nella
giustizia, nella solidarietà e nella pace. In ogni caso, la nazione non si
identifica a priori e necessariamente con lo Stato. Si danno e si devono dare,
quindi, diverse possibili forme di configurazione giuridica della singole
nazioni e di aggregazione tra di esse e ciò dovrebbe sempre avvenire, oltre che
nel rispetto dei diritti delle minoranze, in un clima di vera libertà,
garantito dall’esercizio dell’autodeterminazione dei popoli.
C’è pure bisogno - oggi più che mai in un contesto
segnato da interdipendenza, globalizzazione, mondializzazione dei fenomeni
economici, sociali e politici - di dare vita a un nuovo diritto internazionale.
Le diverse iniziative politiche interne dei diversi Paesi non bastano più;
occorrono la concertazione fra i Paesi e il consolidamento di un ordine
democratico internazionale, tendenzialmente planetario, con istituzioni nelle
quali siano equamente rappresentati gli interessi legittimi di tutti i popoli.
Si tratta, quindi di mirare a un "governo mondiale", di cui quelli
"regionali", compreso quello europeo, sono da vedere come tappa e, in
qualche modo, prefigurazione.
Perché ciò possa avvenire occorre puntare al
superamento della sovranità assoluta degli Stati. Questa è la Strada maestra
per dare al mondo un ordine più giusto e una sicurezza stabile, arrivando ad
una forma democratica e partecipata di governo mondiale, ossia a quella
"autorità pubblica universale [...] dotata di efficace potere per
garantire a tutti i popoli la sicurezza, l’osservanza della giustizia e il
rispetto dei diritti", come si esprime il Concilio Vaticano II. Si deve,
quindi, pervenire a una sempre più reale e corretta limitazione del principio
di sovranità degli Stati. Questa idea mette in discussione le forme
tradizionali della collaborazione internazionale, che si fonda ancora su
relazioni pattizie tra gli Stati ed è diretta a contemperare i loro interessi
particolari. È una strada da percorrere con saggezza e con decisione, nella
certezza che, se la sovranità degli Stati - così come storicamente si è
andata realizzando - ha rappresentato uno strumento di gestione
parti-colaristica ed egoistica degli interessi nazionali, la sua limitazione non
può che significare l’avvio concreto di un processo istituzionale capace di
sfociare in un assetto di governo che serva un’autentica cultura di solidarietà
internazionale. Si tratta, in altri termini, di porre in atto quei mutamenti
anche istituzionali capaci di "elevare i rapporti tra le nazioni dal
livello "organizzativo" a quello, per così dire,
"organico", dalla semplice "esistenza con" alla
"esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso
innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere
per tutti. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle
"guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non
solo l’eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva
partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto
delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come
ricchezza comune del patrimonio culturale dell’umanità".
Da un punto di vista più propriamente etico-culturale,
occorre lasciarsi ispirare e guidare da quel concetto di "famiglia delle
nazioni", lanciato nello stesso discorso tenuto dal Papa all’ONU.
Giovanni Paolo II sottolineava allora che "il concetto di
"famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici
rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per
sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno
vicendevole, sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non c’è il
dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro
debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello
della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere,
prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli".
Conclusione
Concludendo questo mio intervento, vorrei partire da
una considerazione di ordine pratico, che ci dice come, ancora oggi, purtroppo,
in qualche caso, la guerra appare come inevitabile: quando non vi è un diverso
modo di difendere un popolo che appare destinato all’annientamento, non c’è
altra scelta.
A tale "inevitabilità", però, non ci si può
arrendere. Dobbiamo continuamente porci la domanda circa quale possa essere
l’alternativa all’uso delle armi. Tale alternativa va pensata, cercata,
anche quando sembra impossibile. In questo senso, dobbiamo augurarci che la
coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi
ulteriori.
Nel frattempo, occorre che la mobilitazione contro il
male sia accompagnata da un’opera progettuale, che dia nuova consistenza alla
pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. Non ci si può rassegnare alla
logica della guerra o della dissuasione armata: vorrebbe dire finire in una
trappola mortale per l’umanità.
Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni, si tratta di "disarmare gli animi, armando la ragione". È un invito e un appello che tutti ci coinvolge e che mi auspico possa essere accolto, così da dare un volto più bello e più umano - perché più pacifico - al secolo XXI.
intervento
pronunciato in occasione del convegno del Forum di relazioni internazionali,
svoltosi il 12 luglio 2000 a Roma