Il voto è vuoto
Né libere, né democratiche. Elezioni in un Iraq, senza elettricità, senza cibo, senza scuole. E diviso in due parti. Anzi molte di più. Sciiti e sunniti con le loro mille frazioni. Con una sola cosa in comune. La voglia di vendetta.
Se ci saranno elezioni in Iraq, non saranno né libere né democratiche. Una responsabilità importante quella che si prende il governo provvisorio iracheno capeggiato dal primo ministro Iyad Allawi, uno sciita sponsorizzato dagli
Due e più parti
L’appello all’unità nazionale, del governo, è finito tra le macerie di una delle tante case distrutte durante i raid della coalizione. Il Paese si divide essenzialmente in due parti, per quanto in realtà siano molte di più; due sono le grandi fazioni, gli sciiti con il 60% e i sunniti con il loro 20. Gli sciiti vogliono votare e vogliono farlo subito, i sunniti, chiedono di rimandare le elezioni di sei mesi. “Un posticipo è inaccettabile”, ha tuonato Muhammad Husain Al Hakim, il portavoce dei leader religiosi sciiti di Najaf. Lo dice Bush, che non vuole ammettere che le truppe americane resteranno ancora a lungo, e lo ripete l’ambasciatore Usa in Iraq Negroponte, barricato nella Zona Verde: “Noi pensiamo che vi sarà sicurezza adeguata perché le elezioni si tengano il 30 gennaio”. Sei delle 18 province irachene sono sunnite. E in ognuna di queste sono in corso pesanti operazioni militari. Gli insorti si annidano in quelle zone, ed è in quelle aree che gli americani e le forze di sicurezza irachene ogni giorno lavorano. Ed è lì che ci sono la maggioranza degli attentati, la totale mancanza di sicurezza e soprattutto, la grande probabilità che in poche settimane non si riuscirà a stabilizzare tutta una fetta del Paese che dovrebbe uscire di casa, se l’ha ancora, andare a votare senza sapere bene chi, perché senza elettricità, cibo e cure mediche, non è facile seguire la campagna elettorale. Entrare in quei seggi, che per magia, spunteranno non si sa bene dove, visto che in città come Falluja neanche le scuole sono rimaste in piedi.
Dove non entrano nemmeno gli aiuti
E tutto questo, non pensando che ci sono precise minacce contro chi mette solo un piede in strada per andare a votare. E soprattutto non ci sono abbastanza
Non c’è mai il momento giusto
Ma la guerra si sa, può sfuggire di mano e oggi Falluja, è una montagna di macerie, con uomini feriti che nessuno va a prendere, con intere famiglie fuggite, con una rabbia che respira sotto le mura abbattute. Dunque i sunniti chiedono sei mesi e gli sciiti rispondono no. Tanto per qualcuno non cambierà niente tra sei mesi. Il rischio forte è che più tempo passa, più le zone per ora assopite del sud potrebbero risollevarsi, come è successo l’estate scorsa con il focoso Moqtada Al Sadr, il giovane religioso sciita, che con tanta pazienza i leader sciiti sono riusciti a placare, ma se elezioni si fossero tenute il giugno scorso, in pieno assedio delle città sante (Kufa, Karbala, Najaf), un pezzo importante della politica religiosa dell’Iraq, sarebbe rimasto fuori. Il problema è che non ci sarà mai il momento giusto. L’Iraq è un Paese in guerra e così come non si può pensare che la democrazia la si esporta a suon di cannonate e la si impianti in una Paese dopo trent’anni di dittatura, così non si può credere che le elezioni in Iraq saranno libere e democratiche. Perché non c’è nulla di tutto questo. All’appello dei 15 partiti sunniti, capeggiati da Adnan Pachachi, ex candidato presidenziale (spalleggiato dalle Nazioni Unite), il cui posto venne soffiato da Yawar sostenuto dagli americani, si sono uniti i due partiti principali curdi.
La rivincita degli sciiti
Ma loro vogliono la promessa autonomia, che gli sciiti non approvano, e gli uomini del nord hanno da mesi attivato proficui negoziati con le Nazioni Unite perché riconoscano una costituzione ad interim, che dia loro il potere di veto sulla futura costituzione permanente. Ma le cose non sono semplici neanche all’interno della maggioranza sciita. Ben consci che per loro si presenta una svolta, considerati storicamente un po’ i “perdenti” dell’Islam, hanno l’occasione di porre fine a secoli di oppressione in ostaggio dei sunniti che hanno avuto sempre la meglio, durante l’impero ottomano, la colonizzazione britannica, e il regime di Saddam Hussein. Da una parte ci sono i seguaci del Grand Ayatollah al Sistani, una delle massime autorità sciite, moderato, venerato, rispettato che vuole elezioni e che intorno a sé ha concentrato decine di partiti, riuscendo anche a controllare, anche se non si sa mai per quanto, il burrascoso Al Sadr, seguito almeno da due milioni di persone a Baghdad. Mentre non riesce ad attirare a sé il partito del premier Allawi, sciita sì, ma laico, intenzionato a crearsi un’immagine di “uomo per tutti”, e poi in un Paese, dove vale ancora “l’occhio per occhio”, al premier non va per nulla di ritrovarsi a fianco di Ahmed Chalabi, capo dell’Iraqi National Congress, ex uomo degli americani, caduto in disgrazia. Lista separata anche per il presidente Ghazi al Yawer, sunnita, ma capo di una serie di tribù talmente grandi che sconfinano in molte sciite e quindi
Barbara Schiavulli, giornalista di guerra