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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Barbara Schiavulli

Il voto è vuoto

"Mosaico di pace" gennaio 2005

Né libere, né democratiche. Elezioni in un Iraq, senza elettricità, senza cibo, senza scuole. E diviso in due parti. Anzi molte di più. Sciiti e sunniti con le loro mille frazioni. Con una sola cosa in comune. La voglia di vendetta.


Se ci saranno elezioni in Iraq, non saranno né libere né democratiche. Una responsabilità importante quella che si prende il governo provvisorio iracheno capeggiato dal primo ministro Iyad Allawi, uno sciita sponsorizzato dagli

americani che non vuole rimandare per nessuna ragione il voto alle urne previsto per il 30 gennaio prossimo. Anche il suo partito tentenna per quanto riguarda le elezioni, così come quasi tutti i partiti più importanti sunniti. L’Iraq, come se non bastasse, anche qui si spacca in due.

Due e più parti
L’appello all’unità nazionale, del governo, è finito tra le macerie di una delle tante case distrutte durante i raid della coalizione. Il Paese si divide essenzialmente in due parti, per quanto in realtà siano molte di più; due sono le grandi fazioni, gli sciiti con il 60% e i sunniti con il loro 20. Gli sciiti vogliono votare e vogliono farlo subito, i sunniti, chiedono di rimandare le elezioni di sei mesi. “Un posticipo è inaccettabile”, ha tuonato Muhammad Husain Al Hakim, il portavoce dei leader religiosi sciiti di Najaf. Lo dice Bush, che non vuole ammettere che le truppe americane resteranno ancora a lungo, e lo ripete l’ambasciatore Usa in Iraq Negroponte, barricato nella Zona Verde: “Noi pensiamo che vi sarà sicurezza adeguata perché le elezioni si tengano il 30 gennaio”. Sei delle 18 province irachene sono sunnite. E in ognuna di queste sono in corso pesanti operazioni militari. Gli insorti si annidano in quelle zone, ed è in quelle aree che gli americani e le forze di sicurezza irachene ogni giorno lavorano. Ed è lì che ci sono la maggioranza degli attentati, la totale mancanza di sicurezza e soprattutto, la grande probabilità che in poche settimane non si riuscirà a stabilizzare tutta una fetta del Paese che dovrebbe uscire di casa, se l’ha ancora, andare a votare senza sapere bene chi, perché senza elettricità, cibo e cure mediche, non è facile seguire la campagna elettorale. Entrare in quei seggi, che per magia, spunteranno non si sa bene dove, visto che in città come Falluja neanche le scuole sono rimaste in piedi.

Dove non entrano nemmeno gli aiuti
E tutto questo, non pensando che ci sono precise minacce contro chi mette solo un piede in strada per andare a votare. E soprattutto non ci sono abbastanza

poliziotti, quotidiani obiettivi della guerriglia, per proteggere i più volenterosi. Chi controllerà i seggi? Chi verificherà che non ci saranno brogli? Chi proteggerà le persone, che ormai hanno paura di andare a fare la spesa? Secondo i sondaggi che ogni giorno spuntano sui giornali iracheni, il 70 % della popolazione vuole andare a votare. Ma in questi sondaggi, non si sa mai chi viene intervistato, né quanti. In Iraq, dove non riescono a entrare gli aiuti umanitari nella provincia di Anbar (di cui fanno parte Falluja e Ramadi, roccaforti della resistenza sunnita), è lecito dubitare che le interviste riguardino settori della popolazione tranquilla, come i quartieri benestanti di Baghdad, di sicuro non lo specchio della società. La scorsa estate, quando a fatica un giornalista, poteva ancora mettere piede a Falluja senza essere embedded con gli americani, si sentiva nell’aria che quella città avrebbe dato filo da torcere. Bastava passeggiare, lo feci con un fruttivendolo che era scappato con la sua famiglia, ma che era voluto tornare nel suo quartiere, ora raso al suolo, per controllare la casa. Era il primo fornitore di cibo, lo conoscevano e rispettavano tutti, andare con lui
garantiva un minimo di sicurezza. Per le strade giravano uomini con i caratteristici cappelli pakool dell’Afghanistan, iraniani, arabi. Non serviva un’accurata perquisizione per capire che la città era diventata il rifugio, la base dei militanti stranieri, in qualche modo tollerati dalla resistenza locale, che invece era fatta di persone normali, per lo più contadini amareggiati, che combattevano contro l’occupazione.

Non c’è mai il momento giusto
Ma la guerra si sa, può sfuggire di mano e oggi Falluja, è una montagna di macerie, con uomini feriti che nessuno va a prendere, con intere famiglie fuggite, con una rabbia che respira sotto le mura abbattute. Dunque i sunniti chiedono sei mesi e gli sciiti rispondono no. Tanto per qualcuno non cambierà niente tra sei mesi. Il rischio forte è che più tempo passa, più le zone per ora assopite del sud potrebbero risollevarsi, come è successo l’estate scorsa con il focoso Moqtada Al Sadr, il giovane religioso sciita, che con tanta pazienza i leader sciiti sono riusciti a placare, ma se elezioni si fossero tenute il giugno scorso, in pieno assedio delle città sante (Kufa, Karbala, Najaf), un pezzo importante della politica religiosa dell’Iraq, sarebbe rimasto fuori. Il problema è che non ci sarà mai il momento giusto. L’Iraq è un Paese in guerra e così come non si può pensare che la democrazia la si esporta a suon di cannonate e la si impianti in una Paese dopo trent’anni di dittatura, così non si può credere che le elezioni in Iraq saranno libere e democratiche. Perché non c’è nulla di tutto questo. All’appello dei 15 partiti sunniti, capeggiati da Adnan Pachachi, ex candidato presidenziale (spalleggiato dalle Nazioni Unite), il cui posto venne soffiato da Yawar sostenuto dagli americani, si sono uniti i due partiti principali curdi.

Comprensibile la scelta dei sunniti, meno ovvia quella dei curdi, politicamente ben organizzati e di cui si prevede una massiccia presenza alle urne.

La rivincita degli sciiti
Ma loro vogliono la promessa autonomia, che gli sciiti non approvano, e gli uomini del nord hanno da mesi attivato proficui negoziati con le Nazioni Unite perché riconoscano una costituzione ad interim, che dia loro il potere di veto sulla futura costituzione permanente. Ma le cose non sono semplici neanche all’interno della maggioranza sciita. Ben consci che per loro si presenta una svolta, considerati storicamente un po’ i “perdenti” dell’Islam, hanno l’occasione di porre fine a secoli di oppressione in ostaggio dei sunniti che hanno avuto sempre la meglio, durante l’impero ottomano, la colonizzazione britannica, e il regime di Saddam Hussein. Da una parte ci sono i seguaci del Grand Ayatollah al Sistani, una delle massime autorità sciite, moderato, venerato, rispettato che vuole elezioni e che intorno a sé ha concentrato decine di partiti, riuscendo anche a controllare, anche se non si sa mai per quanto, il burrascoso Al Sadr, seguito almeno da due milioni di persone a Baghdad. Mentre non riesce ad attirare a sé il partito del premier Allawi, sciita sì, ma laico, intenzionato a crearsi un’immagine di “uomo per tutti”, e poi in un Paese, dove vale ancora “l’occhio per occhio”, al premier non va per nulla di ritrovarsi a fianco di Ahmed Chalabi, capo dell’Iraqi National Congress, ex uomo degli americani, caduto in disgrazia. Lista separata anche per il presidente Ghazi al Yawer, sunnita, ma capo di una serie di tribù talmente grandi che sconfinano in molte sciite e quindi

appetibile candidato per l’anziano al Sistani, che però non riesce a convincerlo. Gli elettori dovranno scegliere i futuri 275 membri dell’Assemblea (su ognuno di loro già è stata espressa la minaccia di morte dei gruppi radicali, come quello di Zarqawi, l’inafferrabile capo della cellula locale di Al Qaeda), che produrrà anche i formulatori della Costituzione Permanente. Che se approvata dal successivo referendum, rappresenterà la base di lavoro per successive elezioni generali che si terranno nel dicembre 2005. Se ci saranno elezioni, sarà un momento difficile, soprattutto se i sunniti decideranno di ufficializzare il boicottaggio come chiede il Consiglio degli Ulema, la massima autorità spirituale dei sunniti. Ma in Iraq i momenti difficili si susseguono, quotidianamente, questo non è che uno dei tanti, le elezioni forse sono più rilevanti per il resto del mondo che per gli iracheni comuni, la cui unica speranza è di sopravvivere solo un altro giorno.

Barbara Schiavulli, giornalista di guerra

articolo tratto da Mosaico logo

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