Riconciliare Gesù e Allah
Una teologia islamo-cristiana della liberazione è possibile. Per invocare il Dio della vita e della pace, del perdono e della riconciliazione. Perché senza l’orizzonte dei diritti umani le religioni si rovesciano sempre nel loro contrario. In strumento di discriminazione.
Dal Dio della guerra al Dio della pace
L’immagine di Dio che ha predominato nel Cristianesimo e nell’Islam è un Dio violento, vendicativo. Si richiama la tradizione del “Dio degli eserciti” per dichiarare la guerra ai non credenti e ad altri idolatri. Tante altre immagini e tradizioni, però, presentano Dio con un linguaggio pacifista e con uno spirito pacificatore e tollerante.
La Bibbia, per esempio, descrive Dio come “lento all’ira e ricco in misericordia”. Nelle Beatitudini Gesù dichiara beati coloro che lavorano nella Pace perché “essi saranno chiamati figli di Dio” (Mt. 5,9). Allah è invocato nel Corano come il più misericordioso, il più generoso, compassionevole, clemente, colui che perdona, prudente, indulgente, comprensivo. Il Corano chiede di avere pazienza e di rispondere al male con il bene (Corano 13,22; 23,96; 38,54), fino al punto che la persona nemica si converta in vero “amico” (Corano 41,34). C’è perfetta sintonia con le raccomandazioni di Gesù e quelle di Paolo. Il primo invita ad amare i nemici e a pregare per coloro che ci perseguitano (Mt. 5,38 ss.). Paolo chiede ai cristiani di Roma di non lasciarsi dominare dal male, di vincere il male con il bene (Rm. 12,21). Anche nel Corano è presente il perdono dei nemici e la rinuncia alla vendetta (42,40).
I credenti delle diverse religioni hanno condannato gli attentati terroristici dell’11 settembre contro le torri gemelle e dell’11 marzo contro i cittadini madrileni; abbiamo celebrato azioni interreligiose per la pace e contro la violenza e in tanti ci siamo opposti all’ultima aggressione contro i popoli dell’Afghanistan e dell’Iraq richiamando il precetto divino del “non uccidere” che costituisce l’imperativo categorico per eccellenza e afferma la vita come il principio di tutti i valori.
L’appello al Dio della Pace e il rifiuto delle guerra nel suo nome possono essere un importante punto di partenza per passare definitivamente dall’anatema religioso e dallo scontro di civiltà al dialogo tra le religioni, le culture e le civiltà. Le differenze religiose non dovrebbero essere motivo di divisione ma la miglior garanzia per il rispetto di tutte le fedi e la costruzione di alternative comunitarie di vita.
Prassi di liberazione nel Cristianesimo e nell’Islam
Messaggio etico e prassi di liberazione guidano la vita di Gesù di Nazareth e dovrebbero guidare anche la vita della comunità cristiana in ogni contesto storico. La grande rivoluzione del Nazareno consistette nell’aver cancellato l’idea – così escludente – del popolo eletto e nella proposta di una comunità fraterna senza frontiere né discriminazioni. Verso quest’etica liberatrice è orientata la teologia della liberazione, nata in America Latina alla fine degli anni ’60 ed estesa oggi in tutto il Sud del pianeta. Una teologia che, con differenti accezioni in funzione dei contesti nei quali si sviluppa, cerca di dare risposte alle sfide che sorgono dalle alterità negate (culture, donne, razze, etnie, ecc.), dalla povertà strutturale del mondo e dalla pluralità delle religioni. L’Islam condivide con il Cristianesimo lo stesso orizzonte morale. L’opzione per i poveri costituisce il principio fondamentale del discorso dell’ayatollah Jomeini (1902-1989) in sintonia con la teologia della liberazione cristiana elaborata in America latina. Anche l’Islam è approdato a una teologia della liberazione. Il punto di partenza dei movimenti di liberazione nati nell’Islam è l’esperienza di oppressione vissuta dai popoli musulmani e la perdita della propria identità culturale e del proprio potere sociale nel corso delle tappe coloniali e post coloniali.
Ermeneutica femminista della liberazione
Vari decenni fa si svilupparono nell’Islam importanti correnti riformiste e femministe per denunciare il monopolio tradizionale degli uomini, e più in concreto “dei chierici”, nell’esegesi del Corano, così come la sua interpretazione patriarcale contraria allo spirito originario e alla sua difesa dell’uguaglianza tra uomini e donne. Queste reclamano il diritto ad accedere direttamente ai testi sacri e interpretarli nella prospettiva di
Le letture patriarcali
Nonostante tutto ci sono testi chiaramente patriarcali, che difendono la superiorità maschile e la dipendenza della donna, nei quali la virtù delle donne è legata essenzialmente alla devozione, all’obbedienza e alla sottomissione ai mariti. La ribellione si considera una mancanza di rispetto nei loro confronti che deve essere castigata.
Alcuni riconducono la misoginia e la struttura patriarcale di molte delle società musulmane – soprattutto in quelle arabe preislamiche –, all’influenza che nell’Islam esercitò la misoginia del mondo mediterraneo.
Le correnti islamiche riformiste e femministe convengono sull’interpretazione del Corano alla luce dei diritti umani e in questa linea va la dichiarazione islamica universale dei diritti umani proclamata il 19 settembre 1981 nella sede dell’UNESCO dal Segretario Generale del Consiglio Islamico per l’Europa che difende “un ordine islamico nel quale tutti gli esseri umani siano uguali e nessuno goda di alcun privilegio né soffra uno svantaggio o una discriminazione, per il solo motivo della razza, del sesso, della propria origine o della propria lingua”.
È arrivato il momento di stabilire un’alleanza, sia nel campo delle ricerca che in quello della strategia, per porre le basi di una teologia islamo-cristiana femminista, che recuperi le tradizioni bibliche e coraniche che credono nell’emancipazione delle donne e degli esclusi, restituisca loro la propria dignità umana e li riconosca soggetti politici nella società e nelle rispettive comunità di fede, con pienezza di diritti, senza discriminazioni per motivi di genere, etnia, classe o cultura.
Juan José Tamayo, Direttore cattedra Teologia e Scienze religiose - Università di Madrid