Nonostante i muri
La nonviolenza si pratica coltivando piccoli gesti ma nel cuore dei conflitti. Come quello tra Israele e Palestina. L’esperienza di un gruppo religioso americano che sfida le guerre.
Poi hai lasciato Hebron?
Nel settembre scorso sono andata a At-Tuwani, più a sud, un piccolo villaggio di 150 abitanti. Qui i membri del CPT lavorano insieme ai volontari dell’“Operazione Colomba”, dell’Ong israeliana Ta’ayush, l’associazione israeliana “Rabbini per i diritti umani”, le donne in nero e altri. Accompagniamo gli abitanti, vittime di quotidiane violenze da parte dei coloni che si sono insediati vicino al villaggio nel 1992. La nostra presenza serve a monitorare il rispetto dei diritti umani, a far conoscere con rapporti sistematici quanto avviene e ad accompagnare le persone agli ambulatori, agli uffici pubblici e soprattutto alle scuole.
Raccontaci la vita quotidiana nel villaggio…
Il villaggio è costituito da cinque famiglie patriarcali che vivono lì da tempo immemorabile. Vivono della pastorizia e della coltivazione degli ulivi. Avevano due pozzi per l’acqua da bere e gliene hanno avvelenato uno. I coloni spaventano con grossi cani le pecore. Sradicano gli alberi di ulivo. Nella regione ci sono altri sei villaggi analoghi. I coloni si scatenano con particolare violenza in questi ultimi mesi per eliminare gli ostacoli al muro che annetterebbe le terre definitivamente a Israele. Già due di questi villaggi sono stati abbandonati.
Ad At-Tuwani hanno deciso di resistere in modo nonviolento. Hanno chiamato i volontari internazionali per scoraggiare intimidazioni e violenze dei coloni. Hanno capito che, se ci sono le infrastrutture, non li possono cacciar via. Due anni fa si sono costruiti una scuola senza il consenso dell’autorità israeliana. Poi quando è arrivato l’ordine di abbatterla sono ricorsi al tribunale con successo. Da tutta la regione un centinaio di bambini palestinesi vanno a questa scuola, nonostante continue minacce. Dopo vane richieste hanno cominciato a costruirsi anche un ambulatorio. Una fondazione europea ha fornito loro i mezzi e la disponibilità di personale medico.
Da settembre avevo l’incarico di accompagnare a scuola di At-Tuwani i bambini di un piccolo villaggio, Tuba. Erano cinque bambini dai sette agli undici anni e noi due volontari. Da Tuba dovevamo percorrere otto chilometri; per passare lontano dai coloni seguivamo sentieri periferici, mettendoci due ore per andare e due per tornare. Il 21 settembre, al terzo giorno di scuola, poco dopo avviato il cammino, un gruppo di coloni vestiti di nero, con il volto mascherato da fazzoletti neri e catene in mano, ci ha aggrediti. I bambini terrorizzati sono scappati verso casa. I coloni hanno inseguito me e l’altro volontario, Chris. Ci hanno raggiunti e gettati per terra. Ci hanno percosso con le catene. Ci hanno preso a calci. Mi hanno rotto un braccio,
Secondo te, in episodi come questo, l’opinione pubblica e le azioni di pace della gente in altre parti del mondo influenzano, in qualche modo positivamente, la situazione drammatica in cui versano i Palestinesi?
La cosa buona di tutto questo è che c’è stata tanta attenzione della stampa sul mio caso negli Stati Uniti, in Canada e in Inghilterra e così la gente di At-Tuwani ha ottenuto tutto ciò che voleva. Ora possono costruire le case senza ostacoli dell’esercito. L’autorità israeliana ha promesso che porterà l’acqua e l’elettricità. I bambini vanno a scuola con una scorta militare. È ridicolo: ci sono cinque bambini e tre jeep di soldati. I coloni continuano comunque a farsi vivi con insulti e minacce. Il progetto del muro resta comunque incombente perché con le sue arbitrarie deviazioni toglie agli abitanti di questi villaggi la terra da coltivare e prepara l’annessione definitiva a Israele. È vitale per i Palestinesi che sia interrotto questo sciagurato progetto di costruzione del muro tanto caro ai coloni ma pure al governo Sharon e al ministero della Difesa che lo sta imponendo con le armi.