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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Giulia Ceccuti

I volti della pace impossibile

"Mosaico di pace" novembre 2004

Solidarietà con i più deboli. Riviste di informazione critica. Obiezione di coscienza. Azioni simboliche. Un mondo variegato e vitale si muove nella società civile israeliana. E comincia a far contare la sua voglia di pace.


“I palestinesi ci insegnano a ricominciare ogni giorno”. Con questa frase, l’equivalente di un sorriso, Rita, una piccola sorella che sta a Betlemme, ha risposto al nostro sgomento di fronte al muro di Sharon, a situazioni disperate, e a un sentimento della vita che, all’opposto, non può fare a meno di sgusciare fuori nonostante tutto… Le piccole sorelle sono uno dei tanti segni di speranza e di comunione che abitano questa terra. Tessono relazioni, legami d’amicizia, e, nello stile di una solidarietà silenziosa, con i più deboli condividono tutto.

Passaporti diversi
Insieme a loro sono in tanti a voler ricominciare ogni giorno nella pace. La speranza, infatti, in Israele ha volti e passaporti diversi. Palestinesi sono, ad esempio, le organizzazioni non governative di avvocati che si occupano di tutelare e monitorare i diritti umani di prigionieri, rifugiati e di coloro che vivono nei Territori occupati (es. Al-Haq; Addameer), le associazioni di medici e psicologi (es. Gaza Community Mental Health Program) che aiutano famiglie e comunità intere a rapportarsi con violenze sistematiche di ogni tipo – tra la popolazione palestinese, ci dicevano, è in forte aumento la percentuale di malati di cuore –, e ancora le associazioni che promuovono centri culturali e d’aggregazione per giovani. Ebrei, invece, sono gruppi e movimenti che sentono in primo luogo l’urgenza di cambiare l’opinione pubblica israeliana indicando concrete alternative di pace: New Profile si oppone alla leva obbligatoria; Yesh Gvul (There’s a Limit!), fondato nel 1982 in risposta all’invasione israeliana del Libano, aiuta e mette in contatto i refuseniks; B’Tselem (“a immagine di”, espressione tratta dalla Genesi e sinonimo della dignità umana), centro israeliano per i diritti umani nei Territori occupati, cerca di mostrare ai propri connazionali come si vive dall’altra parte del muro. L’informazione, si sa, è indispensabile per compiere delle scelte e agire di conseguenza, e coloro che leggono le pubblicazioni di B’Tselem “possono decidere di non fare nulla, ma non possono dire ‘Noi non sapevamo’”. Fondato nel 1989 da accademici, giornalisti, procuratori e membri della Knesset, B’Tselem è una realtà indipendente, finanziata da contributi israeliani, europei e nordamericani. Non opera distinzioni tra vittime palestinesi e israeliane, tra violazioni commesse dall’Autorità palestinese o israeliana. Tra le sue attività ci sono anche frequenti pressioni ai rappresentanti della Knesset sulle ingiustizie e le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati e azioni pubbliche di sensibilizzazione (stand, manifestazioni di protesta). Qualcosa di simile, con tratti più marcatamente “di base”, è portato avanti dall’ICAHD (Israeli Committee against House Demolitions), un comitato di azione diretta e nonviolenta i cui membri bloccano pacificamente i bulldozer mandati a demolire le case palestinesi e mobilitano centinaia di israeliani e palestinesi nella loro ricostruzione.

Crepe ma anche finestre
Crepe nel muro, dicevamo, e insieme finestre. Finestre per guardare fuori, all’altro. Finestre per conoscersi e cercare di capirsi. E Windows (“finestre”, appunto) è il nome di un magazine in arabo ed ebraico quasi interamente realizzato da bambini, palestinesi e ebrei, della zona di Jaffa e Tel Aviv. Un magazine bilingue, il primo, fatto da e per bambini. Nata e cresciuta – tra mille difficoltà – durante la seconda Intifada, questa iniziativa editoriale ha messo in contatto e fatto incontrare, negli anni, bambini di Gaza e del West Bank con bambini di Tel Aviv e di altre città. Li ha fatti studiare insieme giornalismo, ascoltare musica, disegnare. Tra i componenti di “Windows”, l’associazione che dà il nome al giornale, non tutti la pensano allo stesso modo. Ci sono sionisti e antisionisti, ci sono tante, diverse opinioni sul futuro: per tutti l’obiettivo non è quello di raggiungere un accordo, è piuttosto un atteggiamento di ascolto attivo e un sincero tentativo di comprendere le ragioni dell’altro. Mi tornano in mente altri bambini arabi e ebrei che studiano e giocano insieme. Tra i loro disegni può capitare di vedere la bandiera palestinese e quella israeliana una accanto all’altra sullo stesso foglio. Sono i bambini di Hand in Hand, una scuola elementare pubblica, bilingue, in cui le tre appartenenze storiche e religiose – ebraica, musulmana, cristiana – hanno pari dignità e importanza. Nelle classi di Hand in Hand (si contano già tre scuole su questo modello in Israele) di maestre ce ne sono sempre due: una ebrea e una araba, e non esiste traduzione. Nel comunicare ai bambini, infatti, le due maestre si integrano a vicenda, nella convinzione che se, nell’ascolto, si aspetta il turno della propria lingua, difficilmente si farà lo sforzo di afferrare la lingua dell’altro. Centrale, nella stessa ottica, è il lavoro sull’identità: “L’importante è che i bambini non perdano nulla di ciò che sono”, ci spiegava il vice-direttore, perché “solo se prima conosco me stesso potrò poi comprendere l’altro”.

Due parole chiave
Identità, memoria. Due parole-chiave da queste parti, dove città intere sorgono in meno di due anni e case e villaggi da un giorno all’altro scompaiono dalle cartine. Molte sono le iniziative, private e pubbliche, che si propongono di conservare e organizzare un patrimonio collettivo di informazioni, una storia e una geografia che hanno lo stesso valore di alberi e persone e che, come loro, stanno rischiando, pian piano, di non lasciare traccia. Ne cito soltanto due, facilmente consultabili su internet: Palestine-net e Palestine Remembered. Anche questi sono percorsi di giustizia. Tanti, infine, i modi al femminile di credere nel dialogo, in una pace giusta, (Coalition of Women for Peace; International Women’s Peace Service) e di lottare, da una parte all’altra del muro che ferisce la città Santa, per uguali diritti tra donne arabe e ebree all’interno della società israeliana (Batshalom).
Infine, un gesto simbolico di solidarietà in preparazione in questi mesi: da numerosi Paesi stanno arrivando in Palestina coloratissime bandiere di protesta che, cucite insieme, andranno a formare un’unica bandiera che sarà appesa a coprire il muro in costruzione. “Flag Project”, lanciato solo grazie al passaparola dall’associazione IPYL (International Palestinian Youth League), si concluderà così, all’inizio del 2005, con un evento mediatico di risonanza mondiale.

articolo tratto da Mosaico logo

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