Quella sedia vuota a Betlemme
Da qualche anno la poltrona riservata al Presidente Yasser Arafat nella Basilica della Natività durante la Messa di mezzanotte del 24 dicembre restava puntualmente vuota. È questa l’immagine che più di altre mi resta vivida nella mente circa la parabola della vita di quest’uomo sorridente e fiero. Quella poltrona dice tutto. Era come se quell’assenza dovuta non a una sua mancanza o a una sua distrazione ma ad un impedimento ben più stringente e impetuoso, rivelassero la gravità e insieme l’importanza della personalità che si nascondeva in tutta un’esperienza di vita.
Altri racconteranno oggi della biografia e delle lotte, dell’ascesa e delle sortite diplomatiche, delle sconfitte e delle accorte alleanze, del difficile rapporto con lo stesso mondo arabo e delle relazioni con politici insospettabilmente filo-arabi catturati dalla sua personalità…
Lasciate che io vi dica di quella poltrona vuota. Arafat era un islamico osservante, fedele alla religione del suo popolo, attento e scrupoloso nell’evitare di offendere la sensibilità delle donne e degli uomini palestinesi riguardo alla religione. Ciononostante era un osservante libero e aperto. Quella che da noi si direbbe fede vissuta in modo laico, ovvero disponibile al confronto, pronta a riconoscere e accogliere il contributo dell’altro.
Per queste ragioni da sempre si era mostrato assolutamente disponibile a comprendere la fede dei cristiani che riconoscevano in quella terra la Terra Santa, quella in cui la vicenda del Cristo viene vissuta in tutta la sua interezza.
Non mancava al rito che faceva memoria della nascita del Messia (del profeta Gesù per gli islamici) in Betlemme, città che cade sotto l’autorità palestinese. Ma dal 2000, anno dell’inizio della seconda intifada, quella poltrona a lui riservata rimaneva vuota.
E quel vuoto diventava una provocazione e una denuncia, perché il mondo sapesse che in questo confronto impari tra la potenza israeliana e il popolo palestinese, anche la partecipazione del leader indiscusso alla messa era visto come presenza eccessiva, pericolosa, provocatoria: una sfida. Se mi soffermo su questo dato è per dire che il segreto di una leadership forte come quella di Arafat non si è manifestata soltanto nel suo acume politico e nella sua capacità di condottiero, ma ha anche qualità umane, capacità di relazioni, rispetto per l’avversario e per… l’altro.
Quando, insieme a tre vescovi italiani e ad altri amici, nel maggio 2002 andammo ad incontrarlo nella sua residenza di Ramallah ormai trasformata in rifugio, i segni delle fatiche e delle sofferenze c’erano tutti.
Non parlo soltanto della distruzione causata dai raid aerei e dei sacchi alla finestra, delle scorte armate e della circospezione con cui venimmo introdotti in una sala senza finestre. Mi riferisco al pallore del viso del Presidente e al suo labbro tremolante, al fatto che finalmente il giorno prima gli era stato concesso di andare a visitare alcune città distrutte e aveva dovuto subire la prima contestazione quasi violenta del suo popolo a Nablus.
Ci parlò con franchezza, con la passione di chi crede ancora che è possibile affrancarsi da tanta violenza e restituire dignità a donne e uomini che si sentono popolo. Ci parlò della sacralità della terra e di quanto fossero subdole certe politiche israeliane.
Ma non mancò alla battuta di spirito riferendoci del suo primo incontro col Papa in Vaticano allorquando si permise di far notare al Pontefice che non era il primo, ma il secondo palestinese che metteva piede in San Pietro, dopo il primo Papa. Questo è stato Arafat.
Una vita che si è identificata col destino del suo stesso popolo e ne ha vissuto successi e sconfitte, incomprensioni e impopolarità. Persino questa sua uscita di scena sembra somigliare tanto ad una delle sue sortite negoziali o politiche e pare comprendere per tempo che forse oggi quella poltrona vuota fa più bene alla causa palestinese della stessa poltrona occupata dalla sua personalità divenuta ingombrante.
È vero, ci sono rischi gravi nella sua successione e più di un attento commentatore avverte che può nascondere insidie in percentuali pari ai vantaggi. Ma è un rischio che vale la pena correre. La situazione sembra essersi impantanata nelle sabbie mobili della violenza e fa fatica ad emergere, è ostaggia degli odi contrapposti e non sembra offrire segni di speranza, stenta a indicare un qualche futuro…
Questo farsi più in là di Arafat offre qualche chances in più alla pace o per lo meno le dà uno strattone. Come succede ad una nave incagliata tra il fondale e gli scogli, una scossa potrebbe allargare la falla e affondarla definitivamente, ma potrebbe anche servire a liberarla dall’empasse e farle finalmente prendere il largo. Le ferite si cureranno col tempo.
Nei prossimi giorni, in coincidenza con il quindicesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, la sezione italiana di Pax Christi dà avvio ad una campagna denominata Ponti e non muri per chiedere di fermare la costruzione del muro in Cisgiordania.
Che quella poltrona vuota, questo abbandono imprevisto, possa trasformarsi nel sacrificio (ricorrente delle culture mediorientali) offerto per invocare una pace giusta e duratura di cui gli abitanti di quel lembo di terra hanno bisogno più che dell’acqua che pure scarseggia. Ed è questa considerazione a farmi propendere realisticamente per la soluzione più ottimistica.
La gente di Israele e di Palestina potrà cogliere così l’occasione per trovare il coraggio della pace spinta dall’orlo della disperazione in cui sta precipitando e dal sacrificio di Arafat, un uomo che ha dato sempre se stesso per la liberazione del suo popolo.