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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Alberto Bobbio

Sempre gli stessi errori, il Medio Oriente alla deriva

"Italia Caritas" luglio-agosto 2004

I fatti sono sotto gli occhi di tutti e dicono una cosa assai semplice. Ariel Sharon, malgrado le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, malgrado - purtroppo - anche la costruzione del Muro dell’apartheid (per gli israeliani, Barriera di sicurezza) non ha alcuna intenzione di assistere alla nascita della Palestina indipendente. È questa la “madre di tutte le crisi mediorientali”, come ha detto recentemente il vescovo Tauran, ex ministro degli esteri della Santa Sede, e nessuna soluzione che sia solo transitoria la potrà risolvere. Dagli anni della Dichiarazione di Balfour (1917), che pose le basi del confronto tra ebrei e arabi per il governo della Palestina, ogni successo parziale si è rivelato in realtà solo apparente. E alla prova dei fatti non ha mai retto.

Per il Medio Oriente si ripropongono sempre le stesse soluzioni, gli stessi piani, gli stessi errori. Con una differenza: le grandi potenze oggi non hanno più alcun mandato imperiale su quell’area. E quindi non possono imporre divisioni di territorio per il bene di tutti.

Un paradosso inquietante
Lo scenario che si è prospettato in questi mesi è una versione corretta e riveduta del Piano Allon del 1967: ai palestinesi vanno tre riserve indiane più Gaza. Si può decentemente battezzare Palestina un territorio di questo genere? Verrà avvallato dagli americani, dagli europei e dai paesi arabi? Considerate la divisione tra tali soggetti, l’impotenza diplomatica di un’America senza rotta e di un’Europa senza strategia, la situazione di stati arabi perennemente in bilico tra modernità e fondamentalismo, la crisi mediorientale resta appunto la “madre di tutte le crisi”. E tra i diversi attori tira più aria di regolamento di conti che di nuova cooperazione per una soluzione definita.

Intanto lo scenario postbellico iracheno sta moltiplicando gli effetti di disordine geopolitico. Per un verso fa sorridere gli israeliani, poiché in mezzo alla nazione araba e davanti agli sciiti iraniani si è istallato un potere amico. D’altro canto, però, fa riprendere vigore al “petroislam”, intreccio pericoloso tra rivendicazioni panarabe e fondamentaliste e spregiudicate politiche energetiche, che mai ha promosso nulla di buono in vista della soluzione dei problemi in Medio Oriente. Dopo la seconda guerra del Golfo stanno venendo al pettine tutti i nodi irrisolti, mentre ogni attore sul terreno cerca di giocare la sua partita senza curarsi degli altri: curdi, sciiti, sunniti, hezbollah libanesi, teorici della jihad, Sharon, Arafat…
Sono invece falliti tutti i tentativi di cooperazione regionale e anche l’ultima idea, quella delle Regione Euromediterranea, rischia di andare a fondo prima ancora di vedere la luce. C’è un paradosso che schianta ogni prospettiva ed è appunto quello del “petroislam”, che produce ricchezza e povertà, alimenta il mito della “nazione araba comune” e insieme produce nuovi nazionalismi, fondamentalismi, divide le contrade e giustifica le guerre per il petrolio (a cui gli occidentali di solito non si sottraggono).

Non molto tempo fa i paesi del Golfo e del Maghreb avevano cercato di mettere in piedi un accordo per un’unione comune, il Gafta (Great arab free trade area), che prevedeva addirittura una moneta comune entro il 2010. L’esempio era quello dell’Unione Europea, nella vecchia versione della Cee. La guerra in Iraq e la politica dei “bantustan” di Ariel Sharon ha spaccato di nuovo lo scenario, che oggi si divide tra panamericanismo di alcuni, fondamentalismo islamico di altri, panarabismo clanico tradizionale di altri ancora. In un intreccio asimmetrico e suicida.

articolo tratto da IC logo

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