Insabbiati in Iraq: trattativa, sola via d’uscita
L’Italia ha pagato un prezzo elevato, ma ha ottenuto poco dalla spedizione a Nassiriya. Era una missione di pace o di guerra? Le ambiguità non le hanno giovato. E adesso serve un Piano Marshall a guida Onu.
Tre anni dopo, la “coalizione dei volonterosi” non esiste più. Tre anni dopo, quella che gli inquilini di molte cancellerie dell’Occidente consideravano una valida alternativa alle Nazioni Unite è svanita nelle sabbie del deserto e in Iraq resta una coalizione tripartita: Usa, Gran Bretagna e Italia. Ma chi decide sono inglesi e americani. L’Italia non ha mai contato nulla e a tutti i colloqui politici sul futuro dell’Iraq Roma non è mai stata nemmeno invitata. Né la coalizione militare ha mai avuto un comando a rotazione, come avviene per tutti gli altri luoghi del mondo dove, sotto varie ombrelli (Nato, Onu, Unione Europea), le truppe italiane si trovano a operare.
Eppure la nostra presenza militare tra le sabbie di Nassiriya ci è costata molto cara in termini di vittime, feriti e costi per il contribuente.
Dal punto di vista militare, la missione italiana è risultata decisiva. Abbiamo protetto il fianco sud agli americani e il fianco nord agli inglesi, altrimenti la loro missione sarebbe stata più problematica e sanguinosa.
Tuttavia, dal punto di vista politico non abbiamo “incassato” nulla, né chi ha governato il paese negli scorsi cinque anni è riuscito a formulare un’idea per l’Iraq, che non fosse quella di porsi come fedeli scudieri dei cavalieri di una coalizione sempre più sfilacciata. Gli spagnoli se ne sono andati, l’Ucraina, fedelissima della Casa Bianca, ha richiamato i suoi: oggi per essere amici degli Usa non conta combattere tra le sabbie irachene.
Generale scontento
Proprio qui sta il punto. Gli Stati Uniti vanno aiutati a trovare una soluzione. E l’unica accettabile dal resto della comunità internazionale è darsi da fare perché la missione in Iraq cambi natura e fini, non più sotto comando americano e inglese. L’unica parola che può aiutare a cambiare le cose nel teatro iracheno è “trattativa”. Bisogna trattare con gli insorti, distinguendo tra terrorismo e resistenza, proprio per battere il terrorismo. E per comporre un quadro istituzionale e di governo a Bagdad. Gli americani, dopo tre anni di fallimenti e una lunghissima fila di morti, se ne stanno rendendo conto. Per primi militari, generali, esperti di strategia, cioè quelli che restano a ogni cambio di amministrazione, per assicurare continuità nell’applicazione delle decisioni politiche.
Anche tra i nostri generali lo scontento è elevato. La missione italiana è stata lasciata in una sorta di limbo: missione di pace o di guerra?
La discussione non è da poco e le ambiguità di questi anni a volte ci si sono ritorte contro. Se la missione era di guerra i soldati andavano protetti meglio, sia con strumenti di protezione passiva, sia con una migliore tattica strategica. Andava per esempio presidiata la strada che usciva dalla base e dove un blindato dei carabinieri è saltato in aria a fine aprile. Il generale Fabio Mini, il più autorevole, lucido e preparato tra i nostri generali, esperto di guerra e analisi geopolitiche, lo ha detto con chiarezza, non solo dopo l’attentato.
Il fastidio delle forze armate, usate dai politici solo per le esibizioni televisive e poi messe da parte, indica, in modo netto, il fallimento politico della missione in Iraq. Di cui ora va cambiata la natura: non più soldati, ma cooperazione civile. Eppure se l’Italia farà da sola, senza cercare il consenso politico e diplomatico a una sorta di grande Piano Marshall per l’Iraq, guidato dalle Nazioni Unite e contemporaneamente tenuto al riparo dai pasticci americani, la missione sarà buona solo per un altro set mediatico, sul quale cambieranno gli attori: da destra a sinistra.