Cooperazione in mimetica, che pace portano i militari?
In Iraq il comando Usa ha chiesto agli operatori umanitari di registrarsi presso i suoi uffici. L'equilibrio tra aiuti umanitari e civili, sperimentato a partire dalla Bosnia, si va sbilanciando. E le operazioni di pace sempre più si rivelano azioni di guerra. Un problema di politica estera.
Quando gli americani hanno chiesto a tutte le organizzazioni non governative di registrarsi presso i propri uffici militari per poter lavorare in Iraq, la maschera è del tutto caduta. La scelta statunitense andava ben al di là di una semplice offerta di protezione. Rivelava che la campagna militare aveva avuto come scopo principale il controllo di un paese e dei suoi affari.
Anche gli affari umanitari servono allo scopo politico. La discussione che è seguita a livello planetario ha diviso gli "umanitari ", ma non ha fatto recedere gli uomini del Pentagono, i quali in pratica hanno spiegato che si accettava, oppure l'unica cooperazione sarebbe stata quella militare. Ma l'attenzione dei media si è concentrata solo sulla cooperazione umanitaria veicolata all'intervento militare, quasi che ci fosse una strategia internazionale per escludere dagli schermi tv chi non accetta protezione e controllo degli eserciti. Anche la missione militare italiana, che costa circa 270 milioni di euro, ne prevede 61 in aiuti umanitari.
Peace keeping o azioni di guerra?
A cominciare dalla Bosnia, gli eserciti hanno inteso le missioni di peace keeping come un misto di imposizione di forza militare e di offerta di aiuti umanitari. I contingenti si sono attrezzati con uffici di cooperazione sociale militare sempre più efficienti. All'inizio gli "umanitari" hanno cercato di stabilire regole del gioco chiare e certe, ma negli ultimi tempi, forse anche a causa del vorticoso giro di missioni internazionali, sono state messi sempre più da parte e gli eserciti tendono a fare da soli. Gli "umanitari ", volontari o professionisti, danno fastidio, non rispettano le regole militari e rischiano di provocare incidenti diplomatici e politici.
Nei Balcani si è assistito a una buona collaborazione. A volte la presenza dei militari era indispensabile per questioni di sicurezza. Ma occorre appunto avere rapporti ben definiti. Invece a un certo punto le operazioni di peace keeping sono cambiate, fino a diventare vere e proprie operazioni di guerra. E’ assai difficile definire operazione di pace, per esempio, la missione in Afghanistan. Anche se questa è l'idea rilanciata dai media. In realtà nel paese asiatico i militari hanno lasciato soli gli operatori umanitari e non sono riusciti a ristabilire regole di convivenza minime, indispensabili all'attività delle ong.
Il fatto è che sempre meno gli eserciti si preoccupano di ciò che lasciano alla fine delle operazioni militari. In Iraq è evidente la difficoltà dei soldati alleati a rendere sicure città e strade. In Afghanistan il paese è fuori controllo; solo la capitale Kabul è percorsa dai mezzi delle truppe internazionali. Eppure oggi del ruolo della cooperazione civile allo sviluppo non si parla quasi più; anzi, si tende persino a utilizzare il denaro ad essa destinato per finanziare la cooperazione militare. Manca la volontà politica per ridefinire con esattezza ruoli e confini di intervento.
A ben vedere è però un problema di indirizzi di politica estera: paga di più, presso l'opinione pubblica, lo strumento militare o lo strumento civile e il lavoro delle ong? L'esperienza della Somalia, dove non c'erano interessi vitali da difendere, è significativa riguardo al fallimento della sola forza militare in contesti sociali complicati. Ora in Iraq e in Afghanistan si rischia di nuovo. E le cose non precipitano solo grazie alla tenacia di alcune ong. Proprio quelle che da anni invocano rapporti chiari con gli uomini in mimetica.