Primo e Tonino
Don Primo Mazzolari. Don Tonino Bello. Figure di profonda bellezza.
Cuori inquieti. Sguardi lunghi. Figli del Concilio. Innamorati del Vangelo.
Primo Mazzolari e Antonio Bello, cioè don Primo e don Tonino. Due esperienze diverse in due realtà geografiche distinte. Un prete del Nord, attivo nella pianura lombarda e un prete del Sud (poi vescovo) in terra di Puglia. Due epoche storiche: la prima e la seconda metà del Novecento con al centro (un centro storico, culturale e teologico) la sintesi dinamica del Concilio Ecumenico Vaticano II, punto di arrivo e di partenza di un lungo travaglio. Con loro, attraverso loro, scorre tutto il XX secolo (regimi totalitari, guerre mondiali, era atomica, guerra fredda, decolonizzazione, coesistenza pacifica, anni Sessanta, Concilio e post-Concilio, Vietnam e Medio Oriente, decennio degli euromissili, crollo dell’impero sovietico, migrazioni dei popoli, nuove guerre, terrorismi di vario segno, vecchie e nuove strategie imperiali). In Mazzolari si avverte, dopo il dramma delle due guerre mondiali, tutto il peso della guerra fredda. In Bello si respira la difficile speranza dell’epoca conciliare attraversata da illusioni e delusioni, slanci e ripiegamenti.
Tra beatitudine e tormento
Sono due figure di profonda bellezza. Il loro fascino sta nell’essere contemporaneamente lucidi e spietati nell’analisi, attenti alla complessità dei fatti, radicali nella proposta operativa. Credenti credibili e uomini di pace. Don Primo e don Tonino sono stati e sono uomini di lunga durata. Cuori inquieti e menti fervide. Contemplativi e attivi. Profeti della pace come beatitudine e tormento. Persone votate alla denuncia del male (ingiustizia, povertà, incultura, guerra) e all’annuncio del bene (pace, giustizia, solidarietà, nonviolenza). Concreti e sognatori. Pronti alla mobilitazione civile ed ecclesiale a partire da piccoli gesti e dalla scelta degli “ultimi”. I due vivono in luoghi di “provincia” lontani dai centri del potere politico ed ecclesiastico (Cicognara-Bozzolo per il lombardo, Tricase-Molfetta per il pugliese). Sono preti di “periferia”, legati alla loro terra, vicini alla loro gente ma si sentono operanti nella Chiesa cattolica, cioè universale e accogliente.
Sono quotidiani e planetari, locali e globali, radicati in una identità aperta. Pensano e vedono il mondo partendo dai problemi piccoli e vicini, in particolare dai contadini, dagli operai, dagli analfabeti, dagli immigrati (dal luogo teologico e storico degli “ultimi”) indicando progetti e percorsi di grande respiro. Non li accomuna tanto il fatto di essere preti, anche perché molti preti e vescovi li hanno emarginati o denigrati. Li unisce il loro modo di essere credenti.
Laicamente cristiani e cristianamente laici. Li collegano alcuni fili intrecciati: la dimensione ecclesiale e la passione credente (non sempre le due cose vanno assieme, perché c’è un modo grigio e triste di essere Chiesa così come ci può essere un modo privatistico o esibizionistico di credere); la fede come profezia incarnata e problematica, laica e mistica a un tempo, avventura e rischio; la scelta evangelica dei poveri come opzione primaria, beatitudine e sfida; la maturazione della nonviolenza come essenza del Vangelo cristiano e come necessità storica dopo l’avvento dell’era atomica e delle guerre moderne; l’idea di pace come tema generatore globale, bene messianico e pienezza biblica (shalom), dono e conquista, cammino sempre aperto, tormento straziante e sereno.
Entrambi odiano la passività, il grigiore, il cinismo o l’indifferenza. Il loro modo di esprimersi e di predicare presenta molti punti in comune. È animato dalla logica simbolica. Abbonda di metafore. Contiene parabole, ironie e paradossi.
Si richiama ai problemi concreti di persone concrete. Esprime critiche sofferte e veraci ad ogni forma di clericalismo. Li espone al rischio dell’incomprensione o alla polemica dei “benpensanti” di ogni colore. In ogni caso, nel loro meditare prevale la capacità di sperare che trasforma la denuncia in stimolo alla conversione e il disagio in possibilità di cambiamento.
A unificarli idealmente è il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Mazzolari lo anticipa e lo prepara con immensa fatica e tra mille ostacoli (subisce condanne ecclesiastiche, almeno 11 proibizioni di predicare o di scrivere) ma prima di morire viene ricevuto da Giovanni XXIII che lo riconosce come “la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”. Da molti è stato definito “padre conciliare” anticipatore del Concilio. Sul suo famoso quindicinale “Adesso”, scrive qualche articolo anche don Lorenzo Milani che, tra i nostri, sembra costituire un ponte a proposito del valore dell’obiezione di coscienza al servizio militare e dell’importanza della nonviolenza come strumento di difesa e di azione (quando nel 1955 esce anonimo Tu non uccidere, don Milani è già da un anno Priore di Barbiana; due anni dopo Tonino verrà ordinato sacerdote).
Tonino Bello, a sua volta, cerca di realizzare il messaggio conciliare della pace sviluppandone le potenzialità verso l’idea-pratica della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta. Pace e disarmo, pace e giustizia, pace e solidarietà sono per lui i tre aspetti che confluiscono nel concetto pregnante di “convivialità delle differenze”, l’espressione più adatta per rendere bene, cioè positivamente, in italiano l’idea della nonviolenza o, meglio, della nonviolenza dei volti.
Pace, nostra ostinazione e responsabilità
Per Mazzolari e per Bello la guerra moderna è sempre immane crudeltà o, per dirla con Giovanni XXIII, un atto insensato, irrazionale, assurdo (alienum a ratione). È evidente il cammino che porta alla Pacem in terris (1963), alla Gaudium et spes (1965), al magistero di Giovanni Paolo II, all’ecumenismo contemporaneo, all’impegno di molti credenti nella pace, all’elaborazione dei nostri tempi. Per i due, è significativa la figura di Giovanni XXIII con la sua carica di rinnovamento, con la sua critica ai “profeti di sventura”, con l’idea della parrocchia come “fontana del villaggio”, con la sua visione di una comunità cristiana “ministra” di pace col semplice “grembiule”.
Pace “nostra ostinazione”, scrive a volte Mazzolari. Pace “nostra responsabilità”, ribadisce spesso Tonino Bello. Per don Primo, “il cristiano è un uomo di pace, non un uomo in pace: fare la pace è la sua vocazione”. Il credente, infatti, patisce una contraddizione permanente col Vangelo di pace che “ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi” (Tu non uccidere, La Locusta, Vicenza 1969, pp. 14 e 17). Per don Tonino, è necessario cambiare il modo di pensare e di parlare.
Bisognerebbe dire, ad esempio, non “quell’uomo sta o riposa in pace” ma “si affatica in pace”, “lotta in pace”. I pacifici o i miti del Discorso della Montagna sono beati perché attivi, “in piedi”, costruttori della pace che è sempre un cammino (Alla finestra la speranza, San Paolo, Milano 1996, pp. 64-65 e Le mie notti insonni, San Paolo, Milano 1999, pp. 91-100).
Don Primo e don Tonino pensano e operano nell’ottica di un movimento ampio oltre muri e steccati. La pace si fa “strada facendo”. È movimento da costruire mobilitando le coscienze. È azione da “organizzare”. E ognuno può agire in ogni luogo. L’etica della responsabilità è, per loro, essenzialmente “etica del volto”. Scrive Mazzolari: “Il vero senso della pace è il riconoscimento che c’è un prossimo”. La prima lettera di Giovanni ribadisce un’idea decisiva ed eversiva: “chi ama nasce da Dio e conosce Dio [...]. Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede?” (Tu non uccidere, pp. 107, 109-111). Analogamente, per don Tonino la pace è “riconciliazione con i volti”, è “scoperta del volto”. Il salmista grida il suo desiderio di vedere il volto di Dio. Se ci animasse una forza simile rivolta al volto del fratello, commenta don Tonino, la pace sarebbe vicina o realizzata (Alla finestra la speranza, pp. 68-69).
Frutto della giustizia
In entrambi torna spesso il grido di Isaia (32,17): “la pace è frutto della giustizia”. Per don Tonino “non ci potrà essere pace finché i beni della terra sono così ingiustamente distribuiti”.
La guerra, infatti, “non è solo il tuono dei cannoni o l’esplosione delle atomiche, ma la semplice esistenza (anche se subita in rassegnato silenzio) di questo violento sistema economico”. È urgente convertirsi “perché i subappalti di queste colossali imprese di ingiustizia planetaria sono collocati anche nel nostro povero cuore.
E forse ciascuno di noi, con le mille violenze pubbliche e private che consuma ogni giorno, è titolare di una di quelle piccole agenzie periferiche, la cui sede centrale tiene perennemente desti nel mondo i focolai della guerra” (Alla finestra la speranza, p. 71). Per Mazzolari è l’ingiustizia sociale la causa delle guerre: “esigiamo subito, e precipuamente dai cristiani e dai governanti che si dicono cristiani, di ‘mettere veramente in pratica le norme della giustizia onde giungere a una più equa ripartizione delle ricchezze’ (Pio XII), senza riguardi a particolari interessi e senza lasciarsi inceppare dagli inconsistenti servizievoli accomodamenti giuridici.
Di fronte alla criminale resistenza di molti benpensanti, non è facile persuadere la povera gente che la giustizia possa arrivare senza violenza [...]. La pace non sarà mai sicura e tranquilla fino a quando i poveri, per fare un passo avanti in difesa del loro pane e della loro dignità, saranno lasciati nella diabolica tentazione di dover rigare di sangue la loro strada. Senza giustizia non c’è pace. ‘Opus justitiae pax’” (Tu non uccidere, pp. 121-122).
Questa solenne conclusione di Tu non uccidere (1955) è sintonizzata sulle accorate domande di don Tonino Bello dopo il viaggio a Sarajevo (dicembre 1992), dove alcuni abitanti avevano implorato di mandare armi: “Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia del domani? È possibile cambiare il mondo con i gesti semplici dei disarmati? È davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco di chi gestisce il potere?
Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? [...]. Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza. Le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono” (La speranza a caro prezzo, San Paolo, Milano 1999, p. 134).
Perplessità episcopali
Gli operatori di pace sono tra essi. La nonviolenza è, contemporaneamente, frutto di un dono-grazia e di una scelta-conquista. I due ne sono sempre consapevoli. Per Mazzolari, “non basta essere i custodi del verbo di pace, e neanche uomini di pace nel nostro intimo, se lasciamo che altri – a loro modo e fosse pure solo a parole – ne siano i soli testimoni davanti alla povera gente, la quale ha fame di pace come ha fame di giustizia [...]. Qui non si tratta di accorgimenti o di concorrenza – parole che non dovrebbero aver credito in terra cristiana – ma del dovere di dire e fare, a tempo giusto e nel modo giusto, ciò che un cristiano deve dire e fare per rendere visibile la verità” (Tu non uccidere, p. 7) Anche don Tonino è netto: “Purtroppo non c’è ancora in Italia un’apprezzabile teologia della pace [...]. È doloroso dirlo: ma io penso che buona parte delle perplessità anche dei nostri episcopati sul tema della pace derivi dalla mancanza di una seria fondazione teologica”.
Per lui mancano riflessioni sulla pace come tema cristologico e trinitario. Come unico annuncio di Gesù Cristo “nostra pace”. Come premessa e sostanza della “convivialità delle differenze” (Le mie notti insonni, pp. 30, 51-55).
A mio avviso, i due costituiscono il nucleo di una cultura universale all’altezza delle sfide del nuovo millennio. Radicati nella loro identità cristiana, sono portatori dell’etica universale dei volti. Annunciano il futuro magistero di pace della Chiesa cattolica, delle Chiese cristiane e delle altre religioni che sta maturando a fatica. Indicano una teologia e una prassi di nonviolenza come messaggio profondo del Vangelo di Cristo, sostanza profonda della civiltà umana e impegno primario per tutti.