Rwanda-Burundi: Una storia due destini
I due piccoli paesi del Rwanda e Burundi sono accomunati dalla appartenenza etnica della popolazione, suddivisa tra le etnie hutu e tutsi e twa - pigmei - (appena l’1%). La forte rivalità etnica che ha caratterizzato la storia dei due paesi (gli scontri hanno provocato almeno 405.000 morti dagli anni ‘60 a oggi in Burundi e più di 1.500 in Rwanda dal 1990 e un numero imprecisato di esecuzioni extragiudiziali in entrambi i paesi) ha radici nel sistema di tipo feudale-monarchico in uso nella regione negli anni precedenti la colonizzazione belga e da essa sanzionato: i tutsi, minoranza, allevatori di bestiame (che rappresenta un valore da tutti rispettato), hanno sempre cercato di mantenere il predominio sugli hutu, maggioranza, contadini. Dopo l’indipendenza del Rwanda dal Belgio nel 1962, data che ha coinciso con la separazione dal Burundi (indipendente nel 1966), i destini dei due paesi hanno preso vie separate anche se parallele. L’etnia tutsi, (10% in Rwanda e 15% in Burundi), in Rwanda viene estromessa dal potere, preso in mano dalla maggioranza hutu; in Burundi, viceversa.
I due paesi sono inoltre accomunati anche dalla posizione geografica che li vede racchiusi nella regione dei Grandi Laghi, senza sbocco sul mare - il che acuisce i problemi legati all’industria e al commercio -, con un clima equatoriale temperato; dalla principale risorsa economica che è costituita dalla coltivazione del caffè, il cui prezzo in caduta ha trascinato verso il basso le economie; e infine dalla forte pressione demografica: il Rwanda, con sette milioni di abitanti in 26.338kmq, ha una densità abitativa seconda solo al Bangladesh, mentre il Burundi distribuisce i cinque milioni di abitanti in 27.834kmq (estensioni pari alla Sicilia). Con tassi di crescita tra il 2,8 e il 3,8%, la popolazione raddoppierà entro il 2025 in Burundi e triplicherà in Rwanda.
Il 1o giugno 1993 il Burundi ha partecipato alle prime elezioni presidenziali multipartitiche della propria storia e, contrariamente a tutti i pronostici, la vittoria è andata al candidato dell’opposizione Melchior Ndadaye, leader del Front pour la démocratie au Burundi (FRODEBU), di etnia hutu. Dopo trent’anni di potere del partito unico Union pour le progrès nationale (UPRONA) il capo dello stato, il maggiore Pierre Buyoya, arrivato al potere con un colpo di stato «morbido» nel 1987 (cf. Regno-att. 4,1988,73), conosciuto per la sua politica di pacificazione a tappeto tra le due etnie, perde le elezioni. I timori di vendette si propagano, ma le assicurazioni di Buyoya - «accetto solennemente il verdetto popolare e invito la popolazione a fare lo stesso» -, del neo-eletto - occorre «guarire i barundi dalla loro malattia etnica» e dell’esercito - «l’esercito rispetta la democrazia basata sul multipartitismo», hanno rassicurato la popolazione e alle legislative del 27 giugno il Frodebu ha riportato la sua seconda vittoria in un clima disteso. Come il suo predecessore, Ndadaye ha nominato un primo ministro tutsi, così come tutsi dovrà essere il 40% dei membri del governo. Il punto più importante per il nuovo governo sarà il rimpatrio dei 300.000 rifugiati tra Rwanda, Zaire e Tanzania.
Tutti gli osservatori hanno fatto notare come la campagna elettorale e le prime azioni del nuovo governo siano di fatto improntate a un «prudente dosaggio etnico» più che a una vera riconciliazione nazionale. Questa è stata la strada che anche Buyoya aveva perseguito: una politica che mirava a una sostanziale conciliazione tra i due gruppi, concedendo alla maggioranza discriminata occasioni e possibilità concrete di emergere, senza innescare vendette nei tutsi (nomina di un primo ministro hutu, formazione di un governo «paritario», introduzione del multipartitismo, referendum per una Carta di unità nazionale e per una nuova costituzione). Se la società fosse stata pronta per una vera e propria riconciliazione, probabilmente Buyoya sarebbe stato rieletto, anche se rimaneva pur sempre il sospetto legato a un militare e a un partito unico al potere da troppo tempo. D’altra parte Buyoya stesso aveva pochi margini di manovra per contenere non solo l’opposizione del FRODEBU, ma anche gli estremisti del partito armato del PALIPHETU, formazione armata che usa toni razzisti e che ha una base d’appoggio nell’esercito rwandese.
Il 4 agosto 1993, dopo una serie di negoziati che da un anno (luglio 1992) sono stati attivati e interrotti, il governo del Rwanda ha firmato ad Arusha (Tanzania) alla presenza dei capi di stato di Burundi, Tanzania e Uganda, del segretario dell’Organizzazione per l’unità africana (OUA) e di rappresentanti di Belgio, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, un accordo con il movimento d’opposizione Front patriotique rwandais (FPR), rappresentato dal presidente Alexis Kanyarengwe. Grazie a esso è prevista una condivisione del potere tramite un parlamento provvisorio e un governo di 22 ministri di cui 5 del FPR entro 37 giorni; la presidenza del governo è stata data a un membro del Mouvement démocratique républicain (MDR), partito d’opposizione non armata. Inoltre l’esercito francese che ha affiancato da tre anni le truppe governative dovrà ripartire, mentre sarà sostituito da una forza internazionale (c’è un accordo di massima tra ONU e OUA). Le truppe del FPR entreranno nella proporzione del 50% a livello di comando e del 40% a livello di truppa nell’esercito regolare; dovranno essere rimpatriati più di 900.000 rifugiati nei paesi vicini.
Di elezioni ancora non si parla: il problema etnico qui è stato condotto con la repressione e si è ulteriormente aggravato con la mancanza di democrazia; pertanto la pacificazione sarà lenta. Gli hutu, e tra essi il generale Juvenal Habyarumana, capo dello stato, hanno aperto alla democrazia con alcune concessioni: multipartitismo, nuova Costituzione, elezione di un primo ministro tutsi. Tuttavia la repressione delle opposizioni interne ed esterne del FPR, il mantenimento della menzione dell’etnia sui documenti di riconoscimento, la poca chiarezza nel condurre i negoziati di pace hanno portato alla firma dell’accordo un paese lacerato.
Dal 1o ottobre del 1990, giorno dell’attacco più decisivo del FPR a partire dalla frontiera ugandese, Habyarimana ha cercato di spostare il conflitto interno ed etnico in un problema di rapporti internazionali con l’Uganda: dopo un coinvolgimento diretto dell’esercito nella rappresaglia contro chiunque potesse essere sospettato di connivenza con il FPR, il generale si è rivolto alla Francia per un aiuto militare (la Francia non era l’ex colonizzatrice) e all’ONU perché il Consiglio di sicurezza prendesse in considerazione il caso.
Se la conduzione del conflitto etnico ha fatto divergere il Burundi dal Rwanda, essi hanno un’altra caratteristica comune: la prevalenza della religione cristiana (60-67%) e in essa di cattolici (40%). In entrambi i casi la chiesa è molto impegnata nella cura dei rifugiati e dei profughi, dei malati e dei sopravvissuti ai massacri; dopo alcuni anni di silenzio i vescovi hanno denunciato i massacri e le violenze; esiste anche una forte collaborazione ecumenica con le chiese protestanti.
La situazione di conflitto in Rwanda ha segnato anche la chiesa, divisa al suo interno pro o contro il FPR. Tuttavia, proprio all’interno della chiesa rwandese - nonostante le accuse all’arcivescovo di Kigali, mons. Vincent Nsengiyumva, di frequentare troppo gli ambienti governativi - un gruppo di cristiani e protestanti, chiamato Contact, e il cui presidente è il vescovo di Kabgay, mons. Thaddée Nsengiyumva, è riuscito a mantenere contatti con le diverse parti per arrivare all’accordo. In Burundi la chiesa è più compatta e ha mantenuto un certo consenso a Buyoya, se non altro perché con la sua venuta al potere ha eliminato la persecuzione contro la chiesa (cf. Regno-att. 4,1988,73; 16,1988,425). Insieme le due conferenze episcopali hanno deciso, durante una riunione congiunta a Kigali il 27 e 28 maggio scorsi, d’istituire una commissione ecclesiale per attuare iniziative comuni di riconciliazione tra la popolazione.