Una guerra europea?
Dal 6 aprile scorso la guerra nell’ex Iugoslavia ha subito un sorpasso quanto a tasso di violenza e crudeltà. In un’area di poco più di 26.000 km2, in Ruanda si sta consumando una tragedia che è costata la vita finora a 300.000, forse 500.000 persone e che ha costretto 1,5 milioni di ruandesi (7 milioni in totale) alla fuga.
Il 6 aprile l’aereo che trasportava i presidenti del Ruanda e del Burundi e alcuni loro collaboratori è stato abbattuto; il Ruanda da quel giorno non ha cessato una folle corsa verso la morte; il Burundi, per ora, ha assorbito il colpo limitando la violenza (solo 300 i morti tra marzo e aprile).
Lo scontro, che generalmente dai media è interpretato su base etnica, è in realtà sociale e politico in entrambi i paesi (cf. Regno-att. 16,1993,491). Di stessa lingua e cultura, hutu e tutsi si distinguono principalmente per consistenza numerica e per ruolo socio-politico che dai tempi precedenti la colonizzazione hanno rivestito: gli hutu, rappresentano la maggioranza e i tutsi la minoranza; la colonizzazione belga ha assunto la minoranza come classe dirigente che mediasse tra potere dominatore e popolazione.
1959, 1963 e 1972: in 15 anni di guerriglia, in Ruanda gli hutu hanno conquistato il potere al prezzo di violente ritorsioni sui tutsi, che hanno sempre mantenuto appoggi dall’ex potenza coloniale belga.
1972 e 1988 segnano in Burundi le stragi che viceversa i tutsi hanno compiuto sugli hutu, mantenuti sempre fuori dal potere. Tuttavia, aperture democratiche e tentativi di cooptazione di hutu al governo erano stati attuati. Solo con l’elezione nel luglio del 1993 di Melchior Ndadaye, hutu, il rapporto dominatori-dominati era stato rovesciato. Ndadaye è stato ucciso il 21 ottobre dello stesso anno da parte dell’esercito, formato al 100% da tutsi. Il suo successore, che ha trovato la morte assieme all’omologo ruandese il 6 aprile, era stato designato nel gennaio scorso, sotto la «protezione» dell’esercito.
Chi ha ucciso i presidenti? Le voci più accreditate indicano gli stessi hutu, l’ala estremista, che raccoglie nell’esercito ruandese la stragrande maggioranza. Il principale obiettivo era Habyarimana, colpevole della firma degli accordi di Arusha, Tanzania (agosto 1993), che avrebbero sancito una sostanziale parificazione all’interno delle forze armate tra hutu e i tutsi, specialmente quelli del Front Patriotique Ruandaise (FPR). Nonostante i significativi tentennamenti del presidente nel mettere in atto il previsto governo misto di transizione, nell’indire elezioni e nel provvedere all’integrazione dei tutsi nell’esercito, il dado era tratto. Da almeno due anni gli hutu erano in allarme. L’attacco del FPR del 1990 a partire dall’Uganda aveva rovesciato ogni possibilità di riconciliazione; la forzata firma di Arusha sotto la spinta del Belgio (cf. ANB-BIA 258, 15.5.1994, 6) e l’appoggio militare francese agli hutu (cf. Corriere della sera 23.5.1994, 5 e 24.5.1994, 6; ANB-BIA 258, 15.5.1994, 4) aspettavano solo un segnale per poter esplodere nella «soluzione finale»: lo sterminio degli odiati tutsi e di tutti gli hutu che avevano con loro collaborato alla riconciliazione. I francesi, alleati interessati degli hutu, hanno puntato gli occhi alle risorse minerarie dello Zaire occidentale, facilmente controllabili dal Ruanda; non manca, inoltre, l’appoggio di Mobutu, alleato di lunga data degli hutu e di Habyarimana in particolare.
Infine, il ruolo dei media: una radio, guidata da un italiano di nazionalità belga che incita alla guerra, paventando un attacco tutsi, e provoca fenomeni di isteria collettiva con massacri, torture e infierimenti sui cadaveri da parte degli squadroni della morte, le milizie civili armate di lance e machete, i cosiddetti interahwe hutu.
La distinzione tra hutu e tutsi è anche intersecata da quella tra hutu del sud, più vicini all’opposizione e hutu del nord; ma anche dalla forte personalizzazione a sfondo etnico che i dirigenti dei partiti hanno impresso alla propria politica: analizzando le regioni di provenzienza dei leaders politici, si possono identificare le regioni che hanno conosciuto il maggior numero di scontri (ANB-BIA 256,15.4.1994, 6; 258,15.5.1994, 4).
Rimane il problema della chiesa. Rwanda e Burundi, sono tra i paesi maggiormente cristianizzati dell’Africa. Un gruppo di missionari belgi di ritorno in patria è stato ricevuto dal card. G. Danneels agli inizi di maggio (The Tablet 14.5.1994, 606). Essi hanno riferito che l’uccisione indiscriminata di sacerdoti, religiosi e laici impegnati nella chiesa è anche dovuta alla predominanza di tutsi tra i vescovi e preti locali. Occorre domandarsi se la chiesa ha posto sufficiente attenzione alla pacificazione etnico-sociale e al fatto che «la fede sembra aver un impatto relativamente piccolo sul comportamento nella vita quotidiana» (cf. ANB-BIA 257, 1.5.1994, 4, sull’appoggio del vescovo ugandese di Kabale al FPR).
Il disinteresse internazionale fa sì che le risoluzioni ONU cadano nel vuoto: nella notte tra il 17 e il 18 maggio il Consiglio di sicurezza dell’ONU approva una risoluzione per l’invio di 5.500 caschi blu, annullando così la precedente decisione di ritirare parzialmente il contingente già presente in Ruanda. L’ostruzionismo degli USA, che non sono disposti a ripetere l’esperienza della Somalia, ha fatto sì che si decidesse per una risoluzione a metà: invio di caschi blu senza l’uso di armi proprie, con l’unico scopo di proteggere gli aiuti umanitari. La risoluzione comprende anche un embargo (sic!) sulle armi.
Rimangono gli appelli degli organismi internazionali (in particolare della Commissione ONU per i diritti umani) e della chiesa cattolica. Il sinodo per l’Africa (Regno-att. 10,1994,317) ha richiamato con un appello la responsabilità dei cristiani coinvolti in prima persona nelle uccisioni; i vescovi ruandesi, infatti, non hanno potuto partecipare al sinodo. Il papa stesso, dall’ospedale ha richiamato l’attenzione al «vero e proprio genocidio, di cui purtroppo sono responsabili anche dei cattolici» (L’Osservatore romano, 16-17.5.1994, 1).