La chiesa non vuole morire
Sono venuto come un fratello per ascoltarvi e per capire meglio e assicurarvi tutta la mia collaborazione e il mio aiuto per i vostri lavori, perché, al di là della legittima angoscia, la chiesa dei paesi dei Grandi laghi non vuole morire. Sono le parole del card. J. Tomko, prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, in apertura dell'Assemblea dell'Associazione delle conferenze episcopali dell'Africa centrale (ACEAC) che si è tenuta a Nairobi dal 12 al 15 novembre scorso. Un'assemblea "che è in se stessa un evento", ha detto il card. Tomko (Fides, 26.11.1999) per il fatto che i 56 vescovi, appartenenti alle conferenze episcopali di Burundi, Repubblica democratica del Congo (ex Zaire) e Ruanda si sono riuniti per la prima volta dopo tre anni (il precedente incontro, il primo dopo la carneficina del 1994, avvenne su iniziativa del Pontificio consiglio della giustizia e della pace nel dicembre 1996; cf. Regno-att. 2,1997,10).
"Voglio ringraziarmi per avere fatto grandi sacrifici per venire qui", ha detto Tomko, riferendosi a quei vescovi che per raggiungere Nairobi – l'unica sede possibile vista la condizione di guerra che coinvolge tutti e tre i paesi – hanno camminato a piedi nella foresta per due settimane o che hanno viaggiato in moto per giorni o che hanno dovuto chiedere il visto per muoversi all'interno del proprio paese. Tuttavia la richiesta di questo incontro era venuta dagli stessi vescovi che avevano da poco completato le visite ad limina. L'Assemblea poi dovrebbe dare un impulso alla celebrazione prossima del sinodo della Chiesa ruandese nel 150o di evangelizzazione, che avrà come tema la questione etnica.
Partire dai martiri
La chiesa dei Grandi laghi deve "riconoscere l'eroismo di tutti quei martiri che hanno fatto della loro sofferenza e di quella del loro popolo un'occasione di santificazione. Questa sofferenza assunta fino al sacrificio del sangue fa crescere una nuova generazione di santi africani (…) vescovi, preti, religiosi e religiose, fedeli laici che resistono all'odio attraverso la testimonianza coraggiosa dell'amore fraterno, spesso nel silenzio. Beati sono questi artefici di pace che rischiano la propria vita nel nome di Cristo. Sono motivo di fierezza per la chiesa, per i vostri paesi e per il vostro continente". Ed è proprio a partire dall'"essenzialità" cui portano questa sofferenza e il sacrificio estremo dei martiri, che "occorre interrogarsi sulla nostra identità di uomini, di cristiani e di pastori", ha affermato il cardinale.
Un vero e proprio esame di coscienza delle chiese e dei pastori, specialmente sul loro ruolo nella società. "Come vescovi non potete rimanere né indietro né al di fuori della vostra storia, ancor meno lontani dal vostro popolo. Non lasciate soli i fedeli delle vostre diocesi, perché il popolo cristiano ha bisogno di voi, della vostra presenza per farsi coraggio e affrontare le avversità. (…) Se il vescovo non svolge la sua funzione (…) le pecore rimarranno disorientate e smarrite. E le sette sono là, malauguratamente, pronte per arruolare numerosi fedeli".
Occorre essere testimoni credibili, puntare a un annuncio vissuto concretamente che scalzi "quegli atteggiamenti e comportamenti che suscitano perplessità" nelle comunità ecclesiali e porsi, come vescovi, alcuni interrogativi. "Come ci comportiamo nei confronti del popolo che ci è affidato a nome di Cristo? Come ci comportiamo con i nostri fratelli che non sono della nostra etnia o del nostro paese? Che cosa facciamo per la riconciliazione e per la pace? (…) La chiesa deve porsi tra i capofila di coloro che sono gli artefici della pace. (…) È qui che tutti i vescovi di una stessa conferenza episcopale devono mettere a frutto le energie e le strutture della chiesa a livello nazionale, regionale e continentale". Il rafforzamento quindi delle strutture della collegialità episcopale sarà il mezzo necessario per creare quella "comunione", di cui le chiese dei Grandi laghi al momento mancano maggiormente.
"Al di là di tutte le disposizioni giuridiche, la conferenza episcopale deve essere, secondo lo spirito del concilio Vaticano II, "il crogiuolo della collegialità e un'espressione peculiare della comunione affettiva ed effettiva dell'episcopato"" (Ecclesia in Africa, n. 2; EV 14/3004).
Il rafforzamento della collegialità episcopale potrà rendere "la presenza della chiesa e del suo operato evidente e senza equivoci. Il discorso in favore della riconciliazione, della pace e della giustizia vi riguarda in modo particolare. Non si riesce a capire perché di fronte a certe angherie o di fronte all'inquietudine dei vostri paesi la chiesa rimanga in silenzio. A volte ci si domanda dove sia la voce della chiesa che parla, che denuncia, che incoraggia, che riconcilia dove regna la confusione del rumore dei cannoni e delle menzogne. Come potrà avere un impatto reale la parola del papa che vi sostiene, se la chiesa locale diventa la chiesa del silenzio? E se i vescovi non parlano a una sola voce?".
È un richiamo fermo che va nella stessa direzione delle preoccupazioni già espresse da voci deboli e minoritarie all'interno della chiesa; ricordiamo in particolar modo A. Sibomana, prete e giornalista, scomparso nel marzo del 1998 (Regno-att. 10,1998,311).
"La collaborazione tra voi nei vostri paesi e all'interno della Conferenza regionale non deve mancare di "solidarietà pastorale organica e apostolica". Sono tante le iniziative comuni da attuare, per manifestare la natura cristiana e la vitalità delle vostre chiese per far fronte al disagio dei rifugiati, all'angoscia dei preti minacciati. È necessaria ovunque una presenza ecclesiale che conforti gli afflitti, preparando contemporaneamente i cuori alla riconciliazione. Le vostre chiese locali sono chiamate a essere dei luoghi di dialogo, dei segni di una vera fraternità lontana dalle divisioni".
Una geografia selettiva
La situazione della Chiesa cattolica è d'altra parte inserita in un panorama internazionale contrassegnato da un sentimento di "indifferenza" verso i gravi conflitti dell'Africa e dei Grandi laghi in particolare. È comprensibile quindi il diffuso "sentimento di dolorosa impotenza che voi provate tanto più di fronte a una mobilitazione umanitaria e a quella di un diritto internazionale che sembra seguire le logiche di una geografia selettiva. Vi sono in queste guerre delle cose che ci superano e che sono spesso il risultato del complesso intreccio di interessi politici, strategici ed economici o semplicemente di un complotto contro la chiesa. In effetti il posto che la chiesa occupa nelle vostre società disturba qualcuno che approfitta per fare di ogni erba un fascio per esacerbare le differenze etniche, creare confusione e compromettere coloro che non hanno altre armi che il Vangelo". Il riferimento è al processo attualmente in corso contro mons. Misago, vescovo di Gikongoro (cf. Regno-att. 14,1999,488 e Regno-doc. 19,1999,640), e in generale al clima di sospetto che vige contro la Chiesa cattolica in Ruanda, ma anche, con alcune differenze, in Burundi e nella Repubblica del Congo.
Il comunicato finale dell'assemblea ribadisce che gli attuali conflitti della regione hanno radici lontane, che vanno indietro almeno di quarant'anni nella storia ma trovano oggi un terreno particolarmente fertile nella violenta contrapposizione etnica. L'idea di una chiesa-famiglia, principale acquisizione derivante dal sinodo per l'Africa, "va al di là della famiglia biologica e clanica, poiché Cristo ha distrutto le barriere che separavano i popoli, annullando nella sua carne l'odio e creando in se stesso dei due un solo uomo nuovo (cf. Ef 2,14-15)".
Ma occorre anche agire sul piano del negoziato politico a livello locale adoperandosi per una pace attraverso il dialogo a partire da "un ordine costituzionale consensuale", dall'"instaurazione di uno stato di diritto" da realizzare attraverso lo sviluppo di "una cultura democratica". A livello regionale, il dialogo è possibile se verranno fatte salve alcune condizioni: "il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di ciascun paese, il rispetto dei diritti umani individuali, il rispetto dei diritti dei gruppi". Contemporaneamente alla comunità internazionale l'assemblea chiede "una cooperazione bilaterale e multilaterale rispettosa della sovranità di ciascun popolo e del suo diritto all'autodeterminazione. Le nostre popolazioni non hanno bisogno di carri armati e di altre armi da guerra, ma di strumenti per lo sviluppo".
La proposta concreta fatta dall'assemblea per una soluzione negoziale del conflitto della regione è individuata in una "Conferenza internazionale sui paesi dei Grandi laghi", in cui la chiesa, "esperta in umanità, è pronta ad apportare il suo contributo". Una richiesta appropriata purché, come ha detto il card. Tomko, la politica "sia lasciata ai laici ben preparati", dal momento che "la politica non è compito dei vescovi (…). Voi sarete più liberi e più credibili al servizio della verità e dell'amore, come dei principi etici fondamentali della libertà religiosa e dei diritti dell'uomo".