Guerra e pace per l'integrità territoriale
La morte di Kabila e le prospettive del paese
Laurent Desiré Kabila è morto. Tra voci ufficiose e smentite ufficiali ci sono voluti tre giorni per riuscire a capire che cosa fosse realmente successo al presidente della Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), dopo la sparatoria avvenuta nella sua residenza di Kinshasa il 16 gennaio scorso. In un primo momento si era diffusa la voce che fosse stato solo ferito, ma il 19 gennaio le autorità congolesi hanno dovuto ammettere che il presidente era stato ucciso dall'attacco di una guardia del corpo, forse al servizio di un gruppo di militari congolesi vicini a un ex alleato di Kabila, Kisase Ngandu (scomparso nel 1997 in circostanze mai chiarite), che hanno poi rivendicato l'attentato. Ma i veri mandanti dell'omicidio resteranno forse per sempre nell'ombra, com'è avvenuto nel caso dei presidenti di Ruanda e Burundi, morti insieme nel 1994 in un misterioso incidente aereo che diede il via al tremendo genocidio nella regione dei Grandi laghi.
Meno di ventiquattr'ore, invece, sono state necessarie perché venisse designato il successore del presidente ucciso, nella persona del suo figlio più grande, il trentunenne general-maggiore Joseph, pressoché sconosciuto alle cronache internazionali e allo stesso popolo congolese. Il giovane Kabila (che si è formato nell'Africa orientale, ha soggiornato a lungo in Cina e mastica appena un po' di francese) era tornato in patria per affiancare il padre, che nel maggio del 1997 si era impadronito del potere con un colpo di mano militare, mettendo fine al trentennale regime dispotico e corrotto di Mobutu Sese Seko. Come in una monarchia ereditaria, dunque, il giovane Kabila si è trovato a prendere le redini della nazione, fra lo sconcerto e le cautele delle cancellerie occidentali e il rifiuto pregiudiziale della sua legittimità da parte dei gruppi ribelli che occupano il nord-est del paese, spalleggiati da Uganda e Ruanda.
Il successore
La situazione sul terreno al momento della designazione di Joseph Kabila è quella di un paese allo sbando, privato da due anni e mezzo della sua integrità territoriale e in preda a una militarizzazione spasmodica. Le province nord-orientali vedono affiancate nella lotta contro Kinshasa almeno tre diverse formazioni di ribelli, di cui due, il Rassemblement congolais pour la democratie (RCD-ML) e il Mouvement de liberation du Congo (MLC) hanno deciso a fine gennaio di unire le rispettive forze nel Front de liberation congolais (FLC) per una lotta più efficace contro il potere di Kinshasa. Dall'estate del 1998 i ribelli, forti di circa 25.000 uomini in armi, sono spalleggiati da truppe regolari di Ruanda, Uganda e, in misura minore, Burundi, paesi che, inizialmente alleati di Kabila padre, gli si sono poi rivoltati contro, accusandolo di avere accolto sul proprio territorio decine di migliaia di miliziani hutu responsabili dei massacri etnici del 1994. Sull'opposto fronte governativo, accanto ai 50.000 uomini delle Forze armate congolesi, circa 20.000 soldati inviati dagli stati amici (Angola, Zimbabwe e Namibia) presidiano diverse aree del paese, depredandone senza troppi scrupoli le enormi ricchezze minerarie (cosa che, d'altro canto, stanno facendo anche i ruandesi e gli ugandesi nei territori sotto il loro controllo).
Nella zona orientale del paese, inoltre, si registrano scontri sanguinosi tra diversi gruppi etnici (soprattutto gli hema e i lendu), che approfittano del conflitto in atto per schierarsi gli uni contro gli altri, in nome di antichi contenziosi che riecheggiano sinistramente le ataviche rivalità tra hutu e tutsi. Vi sono poi i gruppi locali di autodifesa di etnia maï- maï, che nella regione del Kivu contrastano le truppe d'occupazione ugandese, schierandosi di fatto a favore del governo di Kinshasa.
In questo aggrovigliato intreccio di rivalità e di alleanze a rimetterci è, come sempre, la popolazione civile. Dall'estate del 1998, secondo stime accreditate da autorevoli fonti giornalistiche e da organizzazioni internazionali non governative, come Human Rights Watch, sarebbero un milione e settecentomila i morti provocati, direttamente o indirettamente, dal conflitto congolese, mentre quasi due milioni sarebbero gli sfollati e i rifugiati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Cifre spaventose, davanti alle quali appare ancora più intollerabile che, a un anno e mezzo dalla firma degli accordi di Lusaka (agosto 1999), nulla sia ancora stato fatto per porre fine a questa ecatombe.
Se applicati, gli accordi sottoscritti ufficialmente dai governi delle sei nazioni coinvolte (Congo, Angola, Namibia, Zimbabwe da una parte, Ruanda, Uganda e gruppi ribelli dall'altra) avrebbero portato a un immediato cessate il fuoco presidiato dall'ONU, la quale avrebbe poi dispiegato una forza di 5.000 caschi blu (troppo pochi, in realtà, viste le dimensioni del Congo) per garantire il ritiro incondizionato di tutte le milizie straniere dal paese, il disarmo dei ribelli, la protezione dei vari gruppi etnici a rischio e l'apertura di un "dialogo intercongolese", che avrebbe dovuto coinvolgere il governo, l'opposizione politica e le diverse fazioni in armi delle regioni nord-orientali.
La denuncia dei vescovi
Nulla di tutto questo è avvenuto, e il calvario delle popolazioni civili si sta prolungando nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale. L'unica voce di resistenza in difesa del popolo resta quella della Chiesa cattolica (insieme alle altre denominazioni cristiane presenti nel paese) che, anche dopo l'improvvisa morte del compianto vescovo Kataliko (cf. Regno-att. 18,2000,632), continua a essere nel mirino delle autorità civili, sia nella parte del paese controllata dal governo centrale, sia, soprattutto, nelle regioni occupate dai ribelli.
La voce dell'arcivescovo di Kinshasa (nonché presidente della Conferenza episcopale congolese), card. Frédéric Etsou, si è levata in modo ufficiale lo scorso 9 gennaio, in seguito all'ennesimo affronto da parte delle autorità ai danni di un vescovo, in questo caso mons. Cyprien Mbuka (ausiliare di Boma), arrestato il 2 gennaio e liberato il 10, subito dopo il duro comunicato-stampa del card. Etsou, in cui si legge: "È con vivo rammarico che ho constato come negli ultimi tempi le autorità politiche e militari procedano con grande facilità all'arresto del personale religioso, e principalmente dei vescovi. C'è una sorta di accanimento da parte loro a disonorare i pastori e a screditare la Chiesa cattolica. I fatti sono lì a provarlo: l'arresto di s.e. mons. Théophile Kaboy, vescovo di Kasongo, con due suoi preti missionari arrestati nella loro diocesi, e poi deportati a Kinshasa; l'arresto di s.e. mons. Joseph Kesenge, vescovo emerito di Molegbe, con il reverendo padre Fridolin Ambongo, superiore provinciale dei frati cappuccini; l'arresto di s.e. mons. Nestor Ngoy Katahwa, all'epoca vescovo di Manono".
Per non parlare delle messe vietate, dei boicottaggi, delle intimidazioni. Ma a cosa si deve questo "accanimento"? Probabilmente al fatto che la Chiesa è ormai l'unica grande organizzazione non militare capillarmente diffusa nel paese, in grado di comunicare con autorevolezza il proprio messaggio di unità e di riconciliazione alla popolazione, ma anche di farsi portavoce presso le autorità dei bisogni concreti della gente, stremata e disillusa dopo le grandi aspettative di cambiamento innescate dall'avvento al potere del "rivoluzionario" Laurent Kabila (il cui comportamento, alla prova dei fatti, non è risultato molto diverso da quello dell'odiato predecessore Mobutu).
L'integrità territoriale
"L'integrità territoriale e la sovranità nazionale del paese non sono negoziabili", è la netta presa di posizione dell'episcopato congolese, anche se, per stessa ammissione di mons. Monsengwo, arcivescovo di Kisangani e presidente dei Simposio delle Conferenze episcopali d'Africa e Madagascar (SECAM), le posizioni non sempre sono coincidenti tra i vescovi delle diverse regioni del paese. "È vero – ha dichiarato mons. Monsengwo al mensile Mondo e missione – più una conferenza episcopale è unita e più dà un contributo alla pace. Ma su temi politici si possono avere opinioni diverse, come effettivamente accade oggi. Si tratta di dialogare, anche se non nego che la divisione viene percepita dalla base". I vescovi, comunque, sono unanimi nell'auspicare un ripristino dello stato di diritto e la fine della guerra di aggressione e di occupazione da parte degli eserciti stranieri, e mettono in guardia contro "qualsiasi tentativo di "balcanizzazione" del Congo e di nuova colonizzazione".
Secondo mons. Gaspard Mudiso, vescovo di Kenge, la posizione dei vescovi a favore dell'integrità politica e geografica del Congo post-coloniale è condivisa dalla popolazione civile nelle sue diverse componenti etniche e tribali. In una conversazione con la redazione de Il Regno, mons. Mudiso ha affermato che questo sentimento diffuso di appartenenza a un unico popolo (in uno stato i cui confini territoriali sono, come nel resto dell'Africa, frutto di strategie geo-politiche occidentali, e non certo un retaggio della tradizione) "è uno dei risultati del lavoro di Mobutu, una delle poche tracce positive del suo passaggio, perché fin dall'inizio lui ha insistito moltissimo sull'unità del paese. Ciò che Lumumba (eroe dell'indipendenza congolese e primo capo del governo nel 1960, ndr) non ebbe il tempo di fare lo ha realizzato Mobutu, stimolando nelle diverse tribù il sentimento di essere, pur nella diversità, un unico popolo. Solo così riesco a spiegarmi l'atteggiamento diffuso tra la gente".
Uno dei problemi più sentiti dai vescovi, sempre secondo Mudiso, è quello della disinformazione (o della cattiva informazione) sulla situazione interna del paese, soprattutto in Occidente. Per questo si è deciso di inviare all'estero alcuni prelati per informare e sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale sulla tragica situazione del Congo. Con questo stesso obiettivo, il 10 gennaio scorso nella chiesa cattedrale di Kinshasa-Gombe, Notre-Dame du Congo, l'arcivescovo Etsou, ha presieduto una cerimonia, boicottata da tutti i mass-media nazionali per volontà del governo, durante la quale è stata lanciata un'iniziativa di carattere artistico, intitolata "Le cri du Congo" (il grido del Congo), volta a rompere il muro di silenzio che avvolge la crisi congolese e a favorire il dialogo e la riconciliazione delle fazioni in lotta.
Allo scopo di sensibilizzare le opinioni pubbliche occidentali (e quella italiana in particolare) è stata anche lanciata un'iniziativa internazionale nonviolenta di pace per l'Africa, intitolata "Anch'io a Bukavu", promossa su richiesta della Chiesa cattolica locale e di quella protestante da tre associazioni: Beati i costruttori di pace, Chiama l'Africa e Papa Giovanni XXIII – Operazione Colomba.1 La tensione nell'area è altissima, come si evince da quanto hanno scritto un gruppo di comunità cristiane del nord Kivu: "Anche qui da noi, tra qualche mese, sarà sufficiente mettere tra le mani della gente semplice del villaggio un fucile o un machete perché "si difenda"…e il gioco sarà fatto! (…) Noi non vogliamo fucili per difenderci, e non vogliamo neppure delle collette internazionali quando il disastro sarà già stato compiuto. Noi vogliamo che la gente di buona volontà, le piccole e le grandi comunità cristiane che si trovano ovunque nel mondo gridino insieme a noi, mentre c'è ancora tempo, contro questi silenzi e non-interventi, che generano i genocidi. Contro queste manipolazioni sulla gente innocente, contro questi piani diabolici".
Ripartire da Lusaka
L'uccisione di Kabila e l'avvento al potere di suo figlio hanno riportato, almeno per qualche giorno, le notizie dal Congo sulle pagine degli esteri dei nostri giornali. Dopo i primi momenti di disorientamento, le cancellerie di Francia, Belgio, Stati Uniti e l'Unione Europea (nella persona dell'italiano Aldo Ajello) si sono rimesse in movimento, dopo i mesi di stagnazione seguiti all'insabbiamento degli accordi di Lusaka; insabbiamento imputabile soprattutto alle inadempienze del defunto presidente Kabila. Suo figlio Joseph, pur avendo dichiarato, in un comunicato ufficiale alla nazione teletrasmesso lo scorso 26 gennaio, che la guerra sarebbe continuata fino al completo ritiro degli invasori dalle province dell'Est, sembra più propenso del padre a mantenere gli impegni presi e a "rinegoziare" con le controparti "i vari modi per dare il calcio d'inizio agli accordi di Lusaka".
In quella stessa occasione, il giovane neo-presidente, dopo essersi espresso a favore di una liberalizzazione economica che preveda anche il riassetto del settore minerario e diamantifero, si era detto disponibile a collaborare in tutto con le Nazioni Unite e a normalizzare i rapporti con gli Stati Uniti. E alle parole sono subito seguiti i fatti: nei primi giorni di febbraio, Joseph Kabila ha compiuto un tour diplomatico che lo ha portato in Francia, Belgio e Stati Uniti. Qui, oltre al segretario di stato Colin Powell, ha incontrato a sorpresa anche il presidente del Rwanda Paul Kagame, che ha espresso cauto ottimismo sulla persona e le intenzioni del nuovo presidente di Kinshasa. In attesa del 21 e 22 febbraio, date in cui il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha convocato un incontro straordinario tra tutti i firmatari degli accordi di Lusaka, la speranza della società civile è che il giovane e promettente Kabila tenga fede agli impegni che suo padre ha lasciato inevasi, democratizzando la vita politica interna e garantendo libertà d'espressione alle associazioni di cittadini e ai mezzi di comunicazione. Perché la pace, come predicano da tempo i vescovi congolesi, passa anche per un'informazione libera e corretta.
1 Bukavu, nella regione del Kivu, è una città congolese al confine con il Ruanda, che insieme a Goma e a Kisangani è stata tra le più martoriate durante i trenta mesi di conflitto. Proprio lì, nel cuore della tragedia, dal 24 febbraio al 2 marzo prossimi, dovrebbero recarsi (il condizionale, data la situazione, è d'obbligo) 300 persone "provenienti dalla società civile italiana ed europea (…) per appoggiare la resistenza non violenta che la popolazione da tempo sta attuando, per denunciare le responsabilità del mondo occidentale rispetto non solo alla situazione del Congo – dove i diamanti e le altre risorse sono salvaguardati più delle persone – ma di tutto il continente africano".