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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Maria Elisabetta Gandolfi

La guerra nel silenzio

"Il Regno" n. 8 del 2003

Lo scontro nei Grandi laghi e l’accordo di pace, mentre l’attenzione internazionale è sull’Iraq


«Mentre a Baghdad e in altri centri dell’Iraq continuano gli scontri con distruzioni e morti, notizie non meno preoccupanti giungono dal continente africano, da cui, nei giorni scorsi, si sono avute informazioni circa massacri ed esecuzioni sommarie. Teatro di questi crimini è stata la tormentata regione dei Grandi laghi e in particolare una zona della Repubblica democratica del Congo». Così Giovanni Paolo II nell’udienza generale del 9 aprile scorso rivolgeva l’attenzione a questo grande conflitto dimenticato dai media che da ormai cinque lunghi anni insanguina la regione e ha provocato migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati.

Dimenticato, quindi, nonostante le cifre siano più che significative; e colpevolmente dimenticato a causa del selvaggio sfruttamento delle ricchezze minerarie del territorio a cui prendono parte molti degli stati occidentali, come Germania, Francia, Olanda, Italia, Canada ecc. Qui ormai si può dire che la guerra è diventata funzionale allo sfruttamento di tali risorse (cf. Regno-att. 16, 2002, 529ss).

L’appello del papa si riferiva in particolare al vero e proprio massacro avvenuto nella regione più nord-orientale della Repubblica democratica del Congo, l’Ituri. Qui, al confine con l’Uganda, il 3 aprile un migliaio di persone della tribù degli hema sarebbe stato assassinato dall’etnia rivale, i lendu, che accompagnavano l’esercito ugandese alla ricerca del leader nemico. La cifra, inizialmente confermata dalla Missione ONU in Congo (MONUC), sarebbe stata poi ridotta a non più di 350 persone. Il condizionale è d’obbligo, perché vi sono ben poche fonti in grado di dare una conferma precisa, dato che a causa dell’insicurezza le agenzie umanitarie non arrivano nella zona.

Il pretesto per questo nuovo terribile atto è, come per il passato, la volontà di ottenere il miglior posizionamento – in una geografia di alleanze a elevata variabilità – prima che tutte le fazioni sedessero, come previsto dagli accordi firmati negli stessi giorni a Sun City (Sudafrica), al tavolo della Commissione per la pacificazione dell’Ituri.

La rivalità tra hema e lendu nella provincia dell’Ituri risale indietro nel tempo ed è legata alla contrapposizione di due gruppi sociali diversi: i pastori e gli agricoltori e la loro diversa concezione della terra. Nell’effimero gioco delle alleanze pro o contro il governo centrale di Kinshasa e pro o contro il rivale Ruanda, i gruppi militari che si sono affrontati hanno sfruttato la belligeranza delle due etnie per i propri scopi e dagli inizi del conflitto congolese a oggi gli scontri nella regione, secondo le cifre fornite da un rapporto di Amnesty International, sono costati 50.000 morti e 500.000 profughi.

L’accordo di pace
Il silenzio denunciato dal papa sul più importante conflitto africano, aggravato dal fatto che tutta l’attenzione sia dei media sia degli attori politici internazionali si è concentrata sull’Iraq, è stato anche abilmente sfruttato per coprire un’azione militare ancor più massiccia da parte di Ruanda, Uganda e, in parte minore, Burundi in tutta la fascia orientale del Congo. Il 28 marzo un gruppo di organizzazioni non governative dichiarava che «mentre il mondo è impegnato a guardare l’Iraq, migliaia di soldati ruandesi, burundesi e ugandesi hanno oltrepassato diversi posti di frontiera e si sono posizionati nella zona orientale della Repubblica democratica del Congo… Almeno 5.000 soldati ruandesi sono entrati dal 14 marzo 2003 nel Nord e nel Sud del Kivu»; a essi si aggiungono altri 1.000 burundesi e gli ugandesi che sono entrati nell’Ituri ai primi di marzo. La notizia è stata confermata anche da fonti della Chiesa cattolica.

Il massiccio ritorno dei militari in particolare ruandesi, dopo il ritiro dichiarato ufficialmente nel settembre 2002, è avvenuto in contemporanea alle battute finali del «Dialogo intercongolese», che da qualche mese a Sun City (Sudafrica) stava elaborando un accordo per il cessate il fuoco e per il ritiro delle truppe straniere dal Congo. Il 3 aprile con una cerimonia ufficiale e solenne è stato infatti firmato l’accordo che dovrebbe mettere fine alla guerra. Esso comprende: la stesura di una nuova Costituzione; un’amministrazione ad interim con Joseph Kabila riconfermato presidente, assieme a quattro vicepresidenti (due provenienti dai principali gruppi in guerra che controllano l’est del paese e due dalle opposizioni politiche), che staranno in carica per due anni alla fine dei quali verranno indette le prime elezioni democratiche del Congo; l’istituzione della Commissione per la pacificazione dell’Ituri che dovrebbe portare alla costituzione di un governo regionale decentrato.

Né Kabila né Jean-Pierre Bemba – leader del Mouvement de libération congolaise – erano presenti alla firma, a cui ha partecipato invece il card. Fréderic Etsou, arcivescovo di Kinshasa.

Il 4 aprile Kabila ha promulgato la nuova Costituzione su cui il 7 ha prestato giuramento; è stata, poi, annunciata un’amnistia generale per i combattenti definiti ribelli, fatta eccezione per gravi crimini (come gli atti di cannibalismo o la sepoltura di persone vive), «per favorire l’instaurazione della riconciliazione e la concordia nazionale». Intanto però i nomi dei quattro vicepresidenti non sono stati decisi e soprattutto nessun rappresentante della cosiddetta ribellione si è presentato a Kinshasa per timore della propria sicurezza.

Il 9 il presidente sudafricano Thabo Mbeki, presidente di turno dell’Unione africana, ha convocato i capi delle nazioni della regione (Uganda, Ruanda, Congo e Tanzania). Al termine dell’incontro è stato chiesto alle truppe ugandesi di lasciare il Congo entro il 24 aprile: «Siamo ben felici di ritirarci», ha dichiarato il presidente ugandese Museveni, giustificando la presenza delle sue truppe con la tutela della sicurezza del proprio territorio.

Ma il lavoro diplomatico non ha scalfito in nulla la situazione della regione orientale congolese, anzi. Giorno dopo giorno, si è avuto un crescendo d’azioni militari che presentavano tutte lo stesso schema: in un primo tempo attacco alla popolazione, uccisioni, stupri, ruberie e incendio di villaggi interi da parte delle forze militari ruandesi o ugandesi; in un secondo tempo intervento delle milizie locali alleate all’uno o all’altro che uccidono, stuprano, rubano e incendiano quanto rimane e, soprattutto, prendono possesso del territorio.

Così è stato con la presa della città di Bunia da parte degli ugandesi ai primi di marzo, che hanno armato e addestrato alcune milizie locali; la presenza ugandese è malvista dal Ruanda e i rapporti tra i due paesi si sono ulteriormente deteriorati: i ruandesi hanno quindi ammassato truppe al confine, vicino alla città di Goma. Così è stato per i massacri nella zona di Walungu avvenuti tra l’8 e il 12 aprile, dove i ruandesi si sono alleati con il Rassemblément congolaise pour la démocratie – Goma e il gruppo chiamato Mudundu 40.

Ma tranne le divergenze militari, la politica seguita da entrambi è la medesima: allearsi tatticamente con questo o quel gruppo per fare terra bruciata di un territorio e far ritornare le proprie truppe. Perché si sa, il territorio congolese è realmente una miniera d’oro e se l’Uganda controlla l’Ituri, ricco di coltan e diamanti, il Ruanda vuole il controllo del Kivu, anch’esso ricco di coltan e diamanti. E proprio poco prima del massacro tra hema e lendu di cui parlavamo all’inizio, un consorzio canadese-sudafricano aveva annunciato che le indagini petrolifere effettuate alla frontiera tra Uganda e Congo (in territorio ugandese) avevano «rivelato l’esistenza di risorse petrolifere dell’ordine di parecchi miliardi di barili». Lo stesso consorzio ha firmato anche un contratto con il governo di Kinshasa per indagini nella zona di Bunia.

Un popolo stremato
Il disastro umanitario che si è abbattuto in particolare sull’est del Congo sembra non avere fine: i pochi aiuti umanitari che arrivano – la maggior parte infatti è indirizzata al Medio Oriente, così come ha dichiarato l’alto commissario ONU per i rifugiati, Ruud Lubbers – sono difficilmente trasportabili in questa zona, anche perché molti rifugiati si nascondono nella foresta; i raccolti vengono sistematicamente bruciati e il ritorno di malattie come la malaria, il colera e il virus Ebola colpiscono una popolazione stremata da guerra, fame e frequenti spostamenti: secondo le stime ONU i rifugiati da giugno 2002 a gennaio 2003 sarebbero passati da 500.000 a 2.706.993. Metà delle milizie locali è formata da bambini al di sotto dei 18 anni, che hanno come alternativa la strada, la miniera o la morte.

Per comprendere quello che sta avvenendo riferiamo dell’ultimo, in ordine di tempo, attacco al territorio di Walungu, dove, per mano delle forze armate ruandesi e del loro alleato RDC-Goma, 14 villaggi sono stati saccheggiati e rasi al suolo, centinaia di donne sono state stuprate; undici persone sono state ufficialmente uccise, ma testimoni parlano di file di morti lungo la strada. I camion hanno caricato tutti i beni e si sono diretti a Bukavu; gli uomini e le donne sono stati separati: quelli al di sopra dei cinque anni sono stati ammassati in due case cui poi è stato dato fuoco; le donne e le bambine, in altri due luoghi sono state ripetutamente violentate. Parrocchia, missione, centro nutrizionale, scuola: tutto è stato saccheggiato e devastato e quel che rimaneva bruciato. Secondo le testimonianze di chi è sopravvissuto «si ha come l’impressione di assistere alla volontà di sterminare la popolazione».

A fianco della popolazione c’è anche la voce costante, se pur inascoltata, della Chiesa cattolica. La Conferenza episcopale congolese era intervenuta a più riprese per chiedere che venisse attuato il diritto alla pace del popolo congolese. In particolare, nel testo più recente, datato 22 marzo, anche i vescovi riferivano di «informazioni provenienti dall’est del paese che parlano di un ritorno massiccio di truppe ruandesi e burundesi nella Repubblica democratica del Congo».

Il resto della lettera usa però alcuni toni che sorprendono se lo scopo complessivo del testo deve essere un invito alla pace. A proposito delle truppe ruandesi si dice infatti: «fatto strano, questo movimento di truppe è autorizzato e avallato dal Parlamento non eletto democraticamente del Ruanda, sotto il fallace pretesto tante volte ribadito della sicurezza», dimenticando la precaria situazione democratica interna al Congo stesso. Condivisibile è invece il passaggio successivo che afferma che queste «manovre militari, che violano il diritto internazionale, corrono il rischio di far affondare il processo di pace che è stato iniziato da qui a qualche anno». I vescovi poi «disapprovano questo gesto di estrema gravità e denunciano i congolesi che favoriscono questa concorrenza sulla sovranità del nostro paese» ed esigono «il ritiro immediato delle truppe… e mettono in guardia contro le alleanze effimere che rischiano di perpetuare la crisi e di accrescere la miseria della popolazione congolese». Molto sottolineata la questione della «integrità territoriale del paese»: i vescovi s’impegnano a sostenere «tutti gli sforzi in favore della pace e della riunificazione del paese, in vista dell’instaurazione di uno stato di diritto nella Repubblica democratica del Congo». E, sottovalutando in qualche misura quanto i congolesi stessi siano coinvolti nel conflitto sia nei diversi gruppi armati sia nelle compagnie estrattive locali e non che commerciano con tutte le nazioni confinanti, oltre che con l’Europa e gli Stati Uniti, affermano di trovare «inammissibile che il Congo serva da campo di battaglia o da terreno per il regolamento di conti tra eserciti stranieri».

Con maggiore consapevolezza della situazione che fa dell’area una zona di complessa – per quanto violenta – interazione tra più soggetti, scrive il vicario generale della diocesi di Bukavu, mons. Francois X. Maroy, all’indomani dell’attacco (6 aprile): «invitiamo tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà a non cadere in questa trappola [regolare le questioni tramite la violenza]. Chiediamo al RCD-Goma, a Mudundu 40 e agli altri gruppi armati di rispettare la vita dei propri compatrioti e d’impegnarsi per il bene di tutta la nazione, così come sancito nella Costituzione di transizione che è già stata promulgata. Chiamiamo a testimone la comunità internazionale e chiediamo delle misure concrete in grado di reprimere ogni velleità di ripresa delle ostilità nel nostro paese».

La presenza della comunità internazionale è simboleggiata dalla missione dell’ONU, la MONUC, la quale, con poco più di 5.500 uomini, tra osservatori e militari (caschi blu) distribuiti in cinque settori del paese (cf. qui sopra), svolge un ruolo abbastanza marginale quanto a controllo del conflitto. Essa ha un margine più ampio nelle azioni di denuncia, potendo avere accesso ai canali dell’informazione occidentale – la quale è però impermeabile a questo genere di notizie –, e, soprattutto, nelle commissioni d’inchiesta: attualmente ve ne sono tre, che stanno accertando i fatti relativi ad altrettanti massacri. Ma per quanto accurato sia il loro lavoro, le commissioni possono solo prendere atto del numero dei morti.

articolo tratto da Il Regno logo


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