Prove di guerra
È bastato un ammutinamento all’interno del neonato esercito congolese per mettere a serio repentaglio l’intero processo di pace nella Repubblica democratica del Congo (cf. Regno-att. 2,2004,55). Il 26 maggio un gruppo di militari apre un’offensiva militare verso la città di Bukavu, il capoluogo della regione del Kivu meridionale. Sono gli ex componenti del Rassemblement congolaise pour la démocratie-Goma (RCD-Goma) che, guidati da Jules Mutebusi, dicono di voler difendere il gruppo dei banyamulenge – i tutsi di origine ruandese che da decenni vivono nella parte orientale del territorio congolese – da un nuovo genocidio.
Il gruppo RCD-Goma, legato per ragioni etnico-culturali al Ruanda, è stato uno dei principali gruppi di «ribelli» che ha combattuto contro l’esercito congolese, che fa riferimento all’attuale presidente Joseph Kabila. In base agli accordi di Sun City, firmati in Sudafrica nell’aprile 2003, tutti i gruppi in armi dovevano integrarsi nell’esercito nazionale. Ma Mutebusi, in segno di rottura con la nomina del locale comandante militare regionale, Mbuza Mabe, decide di condurre una prova di forza contro il governo, accusando Mabe di persecuzione verso i banyamulenge (una successiva missione dell’ONU ha poi totalmente smentito l’esistenza di minacce verso questo gruppo).
Raggiunto poi anche da un altro leader del RCD, Joseph Nkunda, il 2 giugno Mutebusi prende possesso di Bukavu, nonostante la presenza dell’esercito regolare e dei militari della missione ONU (MONUC). Alcune fonti affermano comunque che l’esercito, di fronte alle truppe ben organizzate ed equipaggiate del RCD (si parla sempre del sostegno del Ruanda, anche se non vi sono dati precisi) o si è dato alla fuga o si è rifugiato nella sede della MONUC. Quest’ultima in un primo tempo apre il fuoco contro le truppe RCD, poi si trincera dietro al proprio mandato di «mantenimento della pace» e si limita a osservare.
Alla notizia della presa della città di Bukavu scoppiano violente manifestazioni di protesta contro la MONUC in tutto il paese. Rispondendo alle domande dei giornalisti, il segretario generale aggiunto alle operazioni di mantenimento della pace, Jean Marie Guehenno, dichiara: «La gente si lamenta che a Bukavu avremmo potuto fare di più. Ho studiato la situazione con il comandante della brigata, che non ha un’interpretazione minimalista del suo mandato ma che conosce le conseguenze di una battaglia condotta contro un settore organizzato e con una forza ben equipaggiata, ben addestrata e ben coordinata… Ci sono state delle perdite di civili… ma la presenza delle nostre forze a Bukavu ha salvato un numero significativo di vite. Non ha potuto dare sicurezza alla città, non ha potuto impedire saccheggi e altri crimini che sono stati commessi. Ma mantenere la sicurezza di una città di mezzo milione di abitanti con mezzi limitati non è facile».
La debole pace
Saccheggi, uccisioni, stupri: nuovamente la popolazione ha dovuto rivivere l’incubo di una guerra che sembrava conclusa. Religiosi, medici e operatori delle ONG lo hanno testimoniato: la popolazione in parte è fuggita verso il Burundi e chi è rimasto ha dovuto subire. I morti accertati in questa ulteriore tornata di violenze sarebbero 88. Molti i feriti e migliaia gli sfollati.
Il 4 giugno Nkunda e Mutebusi dichiarano di aver ritirato dalla città i circa 5.000 militari, lasciando entrare le truppe regolari e dell’ONU: la MONUC afferma di poter controllare con il proprio contingente di 800 unità la «sicurezza della città ma non la città stessa se non arriveranno le truppe regolari». I saccheggi, però, continuano.
Alla notizia della nomina di un nuovo comandante militare per la regione, Nkunda dichiara fedeltà al processo di transizione e al presidente Kabila, e afferma che ritirerà le truppe. Ma sull’effettività di tale ritiro, giornalisti ed esponenti della società civile in città hanno più di un dubbio: molti di essi si nascondono, perché temono per la propria vita. Le radio locali sono chiuse e le informazioni che circolano sono contraddittorie. Kabila accusa il Ruanda di avere armato e guidato l’attacco delle truppe ribelli a Bukavu. Il ministro degli esteri ruandese nega.
La situazione rimane confusa in tutta la regione; infatti, alcuni giorni dopo (6 giugno) due membri della MONUC vengono uccisi a nord di Goma da un gruppo armato non identificato (un altro era stato ucciso il 29 maggio da uomini armati non identificati, nei dintorni di Kalehe, 60 km a nord di Bukavu); il 10 viene sventato un tentativo di colpo di stato a Kinshasa; e, mentre è in corso una trattativa con l’Unione Europea per l’invio di una missione militare che affianchi la MONUC, il 20 Kabila decide d’inviare 20.000 soldati nelle città di Beni, Kindu e Kalemie e sul confine col Ruanda.
Gli avvenimenti di Bukavu dimostrano la debolezza del governo di unità nazionale e del processo di unificazione dell’esercito e costituiscono un pericoloso precedente per la stabilità del paese. I gruppi armati che in futuro si opponessero all’integrazione nell’esercito potrebbero contare sull’incapacità del governo nel fermarli e sull’ambigua partecipazione dei leader della guerriglia – segnatamente del RCD – al processo di pace. Nessuno di essi ha apertamente condannato l’azione di Mutebusi e di Nkunda, né pare preoccupato del fatto che la mancanza di unità nell’esercito possa rimettere in discussione gli accordi di Sun City.
Infine, il ruolo della MONUC. Nonostante l’allargamento del mandato, sancito nel settembre 2003, e l’aumento del contingente presente a Bukavu, il mandato di «protezione dei civili» è basato sull’accordo di pace – ha affermato il portavoce ONU Fred Eckhard –, «non sul fare la guerra». «Quando scoppia la guerra il ruolo dei peacekeepers finisce».
Questa visione legalistica della missione stride però con un ulteriore dramma, su cui si sta tentando di aprire un’inchiesta: i soldati della MONUC sono accusati di violenze sessuali sulle minorenni del campo dove 15.000 profughi si sono rifugiati in cerca di sicurezza, proprio a ridosso del loro quartier generale a Bunia. Un affare però difficile da sbrogliare perché le giovani – già madri a seguito delle violenze subite dalle truppe regolari e rifiutate dalle proprie famiglie perché non sposate – si offrono volontariamente ai soldati in cambio di qualcosa da mangiare per sé e i propri figli. Ma nessuna vuole denunciare i soldati, perché ne va della loro sopravvivenza.