Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Vescovi del Sudan

Prestatemi ascolto

"Il Regno" n. 13 del 1993

«Noi tutti crediamo che Dio non sia venuto a rivelare se stesso o le sue leggi imponendo con la forza la sua rivelazione all’uomo. Egli lo ha fatto con molta gradualità e attenzione alla capacità dell’uomo di assimilare la verità divina» (n. 6c). In un momento di apparenti aperture del governo islamico di Khartoum, in seguito anche alla visita del papa (Regno-doc. 5,1993, 132), i vescovi cattolici escono con un’argomentata e precisa Lettera pastorale collettiva sul dialogo, datata 2 maggio 1993. «Guerra, conflitti religiosi e incomprensioni, lotte tribali e un’atmosfera generale di ostilità e di sospetto» (introduzione), rimangono comunque costanti. L’analisi dei vescovi si addentra però nelle cause profonde di tale situazione, senza limitarsi alle denunce. La modalità d’intendere il rapporto tra uomo e Dio, tra libertà e salvezza deve costituire l’orizzonte ultimo per il dialogo, ben sapendo che esso è anche l’ostacolo principale nella reciproca comprensione tra cristiani e musulmani: «Il Dio in cui crediamo non usa la forza o la violenza contro l’essere umano che non comprende o rifiuta di comprendere od obbedire alle sue leggi... Crediamo nella libertà di coscienza e infatti basiamo tutto il nostro operato sulla persuasione piuttosto che sulla costrizione. Perciò, noi siamo il genere di persone che addirittura rispetterebbe e sosterrebbe il diritto della gente di dissentire e di opporsi persino alle leggi di Dio, perché tale libertà è stata data loro da Dio stesso» (ib.).

(Lend Me Your Ears, opuscolo, Khartoum 1993. Nostra traduzione dall’inglese).


Vescovi del Sudan
Prestatemi ascolto


Dai vescovi cattolici del Sudan ai loro fedeli, e a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà del Sudan.

«La grazia di nostro Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi».


Fratelli e sorelle, poco dopo la visita del papa, noi, vescovi cattolici del Sudan, ci siamo riuniti per una consultazione, in cui abbiamo deciso di mantenere vivi in tutto il paese i messaggi del papa al popolo sudanese. Pertanto abbiamo progettato due lettere. La prima, «Credenti uniti per la pace» è stata pubblicata nell’ultima settimana di febbraio. Ora pubblichiamo la seconda: «Prestatemi ascolto». È un appello: «Per favore, ascoltatemi. Cercate di capirmi». È il grido della maggior parte dei sudanesi in questo momento. Pregiudizi, sospetti, paure, odio, divisioni, repressione, interessi di classe e una guerra distruttrice hanno chiuso le nostre orecchie e i nostri cuori verso gli altri. Eppure ognuno di noi vuole essere ascoltato e compreso. Probabilmente diciamo tutti la stessa cosa, ma poiché non ci ascoltiamo a vicenda, non ci prendiamo sul serio e forse non facciamo neppure lo sforzo di capire quello che gli altri dicono, i nostri problemi e le nostre differenze continuano a crescere di giorno in giorno. Il risultato è ciò che sperimentiamo ora: guerra, conflitti religiosi e incomprensioni, lotte tribali e un’atmosfera generale di ostilità e di sospetto.

Il papa era consapevole di tutto questo. Ecco perché ha dichiarato: «Uno scopo importante della mia visita è quello di fare un appello per un nuovo rapporto fra cristiani e musulmani in questo paese». Egli ha espresso più volte la speranza «che tutti i cittadini del Sudan, a prescindere dalle loro diversità, vivano nell’armonia e nella collaborazione reciproca per il bene comune»; «che la via della comprensione e del dialogo conduca presto a una pace giusta e onorevole per tutti gli abitanti di questo paese,»; «che si realizzi presto un migliore rapporto fra nord e sud e fra i seguaci di diverse tradizioni religiose, perché a questo aspirano i veri credenti»; «che la pace, dono di Dio, diventi una realtà fra di voi, che l’armonia e la collaborazione fra nord e sud, fra cristiani e musulmani, si sostituiscano al conflitto; che gli ostacoli alla libertà religiosa diventino cosa del passato...»; e «che tutti i sudanesi, liberi di scegliere, riescano a trovare una formula costituzionale che renda possibile il superamento delle contraddizioni e delle lotte nel dovuto rispetto delle caratteristiche peculiari di ciascuna comunità».

Il papa non era solo in questo. Qualche tempo prima della visita del papa, durante la sua visita e in vari incontri con i capi della chiesa, il nostro governo ha apertamente dichiarato l’inizio di una nuova era: «un nuovo inizio». È il nuovo inizio a cui ha fatto riferimento il papa durante la sua omelia nella Green Square: «è stata annunciata l’introduzione di un nuovo sistema politico, in cui tutti i cittadini sono uguali, senza alcuna discriminazione a causa di razza, religione o sesso. É stato detto che tutte le legittime diversità sarebbero state rispettate in un paese multi-etnico, multi-culturale e multi-religioso; che tutte le religioni sarebbero state libere di svolgere le proprie attività religiose» (Regno-doc. 5,1993, 136).

In seguito alla visita del papa, sembra esserci un più serio impegno verso il dialogo per la pace. Ci auguriamo che tale impegno diventi inarrestabile.

1. Abbiamo bisogno di dialogare
L’appello del papa al dialogo, alla comprensione e alla collaborazione reciproca fra il popolo sudanese può sembrare superfluo perché, come molti dicono, i sudanesi sono tolleranti e dialogano.

È vero che esiste il dialogo della vita. È il genere di dialogo con cui le persone si sforzano di vivere in spirito aperto e socievole, condividendo le gioie e i dolori, i problemi e le preoccupazioni umane, prestandosi e ricevendo ogni genere di sostegno. La gente cerca di evitare tutto ciò che potrebbe turbare la pace e si dà da fare per risolvere i conflitti. Vediamo questo genere di dialogo nelle nostre famiglie e nel vicinato, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, al mercato... Questo è il dialogo per la sopravvivenza. Se esso mancasse, la vita diventerebbe impossibile per tutti.

Purtroppo, spesso è ristretto ai membri del «gruppo» e di solito esclude o viene negato allo «straniero» o a coloro che non sono «dei nostri».

Poi c’è il dialogo d’azione, in cui la nostra gente, incurante delle differenze religiose, etniche o sociali, si associa e collabora per realizzare progetti comuni, specialmente quando gli obiettivi di tali progetti sono ben compresi e accettati da tutti.

Entrambi i tipi di dialogo, tuttavia, tendono a creare blocchi contrapposti e a fomentare rivalità e conflitti fra famiglie, clan, tribù, classi e religioni: un gruppo è sempre unito contro un altro.

Poiché questi tipi di dialogo esistono e vengono praticati nella società sudanese, alcuni di noi cercano di soddisfare l’opinione pubblica con affermazioni del tipo: «La società sudanese è una società di tolleranza e di comprensione. Vedete come quelli del nord e quelli del sud, i cristiani e i musulmani vivono e lavorano insieme.» Poi s’affrettano a concludere: «Perciò, nel Sudan non ci sono problemi né conflitti razziali o religiosi. Tutti i conflitti esistenti sono dovuti all’interferenza straniera negli affari interni del Sudan, o sono fomentati da agenti di potenze straniere...». Tali affermazioni semplicistiche non spiegano perché i sudanesi siano in guerra fra loro da ventisette dei trentasette anni d’indipendenza; o perché ci siano milioni di profughi sudanesi nel nord e nel sud; o perché migliaia di sudanesi si siano rifugiati nei paesi vicini o abbiano scelto di andare in esilio volontario; o perché i ripetuti tentativi di fare trattative e di dare una risoluzione pacifica all’attuale conflitto siano sempre falliti; o perché ci sia una continua mobilitazione di truppe per la guerra, la guerra civile.

Tutto ciò può soltanto significare che non abbiamo ancora scoperto il genere di dialogo capace di portare alla riconciliazione, alla comprensione e all’armonia, oppure che i dialoghi che noi conduciamo su questi argomenti sono in realtà perfetti monologhi alternati.

Ci rendiamo anche conto che diversi gravi problemi vengono ignorati o volutamente eliminati dalla lista degli argomenti negoziabili. Infatti, molti cittadini sostengono con insistenza di essere vittime di discriminazioni religiose, etniche e sociali; di essere perseguitati, privati della loro giusta parte nella vita politica, sociale ed economica del paese, oppure di essere trattati come cittadini di seconda classe, privati di alcuni dei loro diritti fondamentali di esseri umani e di cittadini. Il fatto che queste proteste continuino nonostante le misure repressive talvolta molto dure, è segno evidente che alcuni cittadini non sono presi sul serio e che non vengono ascoltati. Questo è mancanza di dialogo.

Stiamo pagando un prezzo terribile per questa mancanza di dialogo o per quel tipo di dialogo che è soltanto illusoria vetrina politica o sociale. Il papa era consapevole di ciò e anche il nostro governo. Funzionari di alto rango hanno dichiarato senza riserve che tutti dovremmo dimenticare il passato, il passato in cui tutti, in un modo o in un altro, abbiamo commesso degli errori; e che dovremmo aprire una «pagina nuova» e inaugurare «una nuova era di dialogo e di collaborazione vera e costruttiva».

2. Il nostro appello
Questa lettera pastorale è un appello a tutti i sudanesi di buona volontà perché ascoltino l’esortazione al dialogo lanciata dal nostro governo e la richiesta insistente da parte di molti nostri concittadini di maggior giustizia, maggior rispetto della loro dignità e diritti umani e di una pace duratura nel paese. Abbiamo ogni ragione di credere che l’esortazione del governo non sia vana propaganda: è stata seguita da iniziative concrete: la ripresa dei colloqui con il Sudan People’s Liberation Army (SPLA) che ci auguriamo giungano a una felice conclusione ad Abuja II; gli sforzi per raggiungere quelli che erano prima considerati la «quinta colonna»; e l’appello ai capi religiosi affinché lascino che il passato sia passato e sostengano il nuovo processo di dialogo che conduce alla pace, alla comprensione e all’armonia fra il popolo sudanese.

Ora noi lanciamo questa esortazione a tutti: un’esortazione al dialogo fra i sudanesi del nord, del sud, dell’est e dell’ovest, fra cristiani e musulmani e fra le diverse tribù e gruppi etnici. Esortiamo anche alla creazione d’un clima politico che favorisca il dialogo, un clima libero dalla discriminazione e dalla repressione, che accolga e rispetti ogni contributo costruttivo da parte dei cittadini prescindendo dalla loro religione, dal colore politico, dallo status sociale, dalla tribù e dalla razza. Intraprendiamo tutti la via del dialogo, della comprensione reciproca, della collaborazione, del rispetto vicendevole e della riconciliazione per creare la pace e l’armonia che tanto desideriamo.

3. Il dialogo: un dovere per tutti
Tutti noi aspiriamo alla pace. Vogliamo soluzioni pacifiche per i nostri conflitti. Riconosciamo la necessità di eliminare non solo la guerra, ma tutto ciò che conduce ad essa. Tutti noi desideriamo un’atmosfera di pace che favorisca la nostra ricerca di benessere, specialmente adesso che ci troviamo di fronte a una crisi economica che minaccia la vita stessa della nazione.

Per far sì che i nostri desideri di pace e di benessere diventino realtà, dobbiamo impadronirci degli strumenti giusti. Il mezzo più efficace è quello di assumere un atteggiamento di dialogo, «cioè di introdurre pazientemente i meccanismi e le fasi del dialogo dovunque la pace sia minacciata o già compromessa, nelle famiglie, nella società...» fra le tribù, le religioni e i gruppi etnici. Questo significa anche che ciascuno dovrebbe cogliere le molteplici opportunità di cui dispone per abbattere le barriere dell’egoismo, dell’aggressione e dell’incomprensione, continuando il dialogo, ogni giorno, nella famiglia, nel villaggio, nel suo vicinato...

Se il dialogo è un dovere per tutti, allora nessuno deve essere escluso. Tale esclusione esiste, anche se non dichiarata, quando la libertà di parola e di espressione viene ridotta o totalmente negata; quando richieste legittime vengono sistematicamente schernite o ignorate; quando non si lascia spazio alle diversità e al dissenso; quando il clima di sospetto, paura e ostilità pervade la società a tal punto che i normali rapporti e la comunicazione fra le persone diventano impossibili; e quando la gente sente di non essere accettata o rispettata.

Il dialogo è dovere di tutti anche perché riguarda il bene comune e la pace. Nessuno può costruire il bene comune o la pace senza l’aiuto degli altri.

4. Dialogo: condizioni favorevoli e sfavorevoli
Il dialogo ha luogo fra due o più persone, gruppi o partiti. Le persone ricorrono al dialogo quando sentono la necessità di creare una maggiore unità, comprensione reciproca, pace e collaborazione fra di loro, oppure quando vogliono scongiurare situazioni di tensione e di conflitto. Essi aprono e istituiscono canali di comunicazione adatti, discussione e scambio di idee, al fine di individuare i punti che provocano conflitto e disaccordo e anche le loro cause di fondo; essi ricercano gli elementi di interesse comune per tutte le parti in causa e il tipo d’azione comune da intraprendere per ridurre la tensione e ristabilire una buona comprensione.

Il dialogo, però, non si limita ai discorsi e alle discussioni. A volte i protagonisti del dialogo possono raggiungere gli stessi scopi assumendo atteggiamenti e comportamenti che esprimano rispetto e accoglienza reciproci, consapevolezza, sensibilità e attenzione verso le necessità dell’altra parte e anche collaborazione negli sforzi comuni.

Un dialogo autentico e fruttuoso è comunque possibile soltanto se:

a) Le parti interessate si ascoltano a vicenda. Lo scopo dell’ascolto è che le parti arrivino a conoscersi e a comprendersi reciprocamente. Essi prestano ascolto non soltanto alle parole che vengono dette, ma anche alle persone che le dicono. Infatti le persone impegnate nel dialogo portano con sé il loro ambiente, i loro problemi, le loro esperienze, i loro sentimenti, la loro storia. Il vero ascolto richiede che le parti si mettano una nei panni dell’altra e cerchino di capire non solo ciò che si dice, ma anche il perché lo si dice e perché lo si dice in quel modo.

b) I protagonisti del dialogo ascoltano per imparare al punto da invitare la loro controparte a dire apertamente ciò che li disturba e provoca la loro diffidenza. Un vero dialogo, quindi, si può realizzare solo se tutte le parti desiderano sinceramente e onestamente imparare insieme e cercare seriamente la verità e l’unità. Il dialogo fallirà se una qualsiasi delle parti pretenderà di conoscere tutta la verità e comincerà a imporsi sugli altri. Nel dialogo tutti i partecipanti sono partners. Essi s’incontrano sullo stesso piano, nessuno è superiore. Analogamente, il dialogo fallirà se uno qualsiasi dei partecipanti partirà con l’idea prestabilita di non concedere nulla e di comandare o d’imporre le proprie opinioni. Una simile situazione si instaura anche laddove i partecipanti si rifiutano di dialogare per la pretesa di essere - loro e loro soltanto - la misura della verità, della giustizia e del diritto.

c) La volontà d’imparare comporta l’essere pronti a disimparare. Attraverso la comune ricerca della verità e d’una verità più completa, arriviamo a capire che ci rapportiamo con gli altri partendo da molte generalizzazioni e supposizioni sbagliate e infondate. Spesso scopriamo l’onestà, la gentilezza, la saggezza nascosta negli altri. Scopriamo la nostra limitatezza e le nostre motivazioni nascoste. Scopriamo aspetti del problema verso i quali siamo sempre stati ciechi. Scopriamo l’inadeguatezza dei nostri metodi nell’affrontare molti problemi. In un certo senso, il dialogo ci aiuta a disimparare, a cancellare il vecchio e a sostituirlo con il nuovo che è il risultato del nostro scambio di idee con gli altri.

Questo è ciò che i cristiani hanno definito conversione: che talvolta comporta un completo «sconvolgimento» delle nostre opinioni, idee, programmi e visione della realtà.

d) Il dialogo richiede l’accoglienza, cioè, la volontà e la disposizione nel considerare e nel riconoscere i veri problemi come l’altra parte ce li espone, una valutazione delle diversità che esistono e della natura peculiare dell’altra parte: cioè di ciò che rende l’altra parte diversa da noi, la fa pensare e agire in modo diverso da noi. L’accoglienza ci rende desiderosi di scoprire di più sull’altra parte per capire meglio la sua posizione e per considerare le varie cause, l’ambiente, le motivazioni e le mentalità in gioco nei problemi che sono in discussione.

Per essere totalmente accoglienti, dobbiamo essere consapevoli dei pregiudizi, delle opinioni e dei sospetti che portiamo con noi nel dialogo e allo stesso tempo dobbiamo lasciare che essi vengano messi in dubbio da ciò che riceviamo dall’altra parte. Ciascuno dovrebbe capire che la sua visione della realtà, di qualsiasi realtà, è sempre parziale. Il dialogo esiste laddove noi riuniamo i pezzi proposti dalle varie parti per ottenere una visione completa.

e) Il dialogo richiede il rispetto reciproco. Per dialogare le parti devono rispettarsi. Tale rispetto deve essere incondizionato: rispetto per l’altro, per la sua opinione, per il suo comportamento. Solo un simile rispetto incondizionato può aiutarci a capire la diversità degli altri, ad apprezzare il loro punto di vista, a rispettare le loro legittime speranze e aspirazioni, anche se ci sembrano «strane».

Il rispetto per gli altri partecipanti al dialogo deve comprendere anche le comunità da cui essi vengono. Tali comunità hanno dei diritti che devono essere rispettati. Infatti uno degli scopi del dialogo è la ricerca del bene comune di tutti e degli inalienabili diritti di ogni essere umano.

Tale rispetto incondizionato sarà considerato assente se cominceremo il nostro dialogo con pregiudizi, sospetti e con un’aria di superiorità. Il sospetto ci fa dubitare delle buone intenzioni degli altri. I pregiudizi, specialmente quando sono negativi, ci fanno vedere l’altro in una cattiva luce e ci fanno giudicare in quella stessa cattiva luce tutto ciò che fa o dice. Perciò riteniamo gli altri incapaci di offrire qualcosa di buono: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?»

Solo un autentico rispetto dell’altro può permetterci di ascoltarlo liberamente e imparzialmente.

f) Il dialogo richiede inoltre che noi rispettiamo le diversità. Sono proprio tali diversità che provocano attriti e incomprensioni. Se non ci si dedica a esse con cura e se non vengono trattate con rispetto, non possono essere appianate o rese meno dannose per il bene comune di tutti. Il dialogo dovrebbe mettere gli esseri umani in contatto fra di loro come membri di una famiglia umana con tutte le ricchezze e delle varie culture e storie. La diversità, quindi, dovrebbe essere vista come fonte di benedizione e di pace piuttosto che come fonte di discordia. Le diversità sono una benedizione per il genere umano.

g) Laddove la virtù del dialogo esiste in buona misura, non solo riconosceremo con franchezza e umiltà le mancanze e gli errori del passato e del presente e, per quelli che sono al potere, un parziale abuso di autorità; in generale addurremo un giudizio più caritatevole verso lo straniero o verso la controparte mentre esigeremo un giudizio più severo su noi stessi. Ognuno di noi ha i propri limiti, solo riconoscendoli onestamente prepareremo la strada al dialogo aperto e alla vera ricerca di luce e di verità.

h) Il dialogo, specialmente il dialogo per la pace, ha lo scopo di eliminare il sospetto, la divisione e il confronto; si sforza di salvaguardare il fragile tesoro di fiducia che ancora resiste fra le parti contrapposte. Esso inoltre tende a promuovere la solidarietà e la collaborazione fra le persone. Dobbiamo ripeterlo: obiettivo del dialogo sono il bene comune di tutti e gli inalienabili diritti di ogni essere umano.

Il dialogo dovrebbe quindi essere un’autentica ricerca di quello che in definitiva è comune a tutte le parti interessate, vitale per la loro esistenza e necessario per l’interesse comune perché ha a che fare con ciò che è vero, giusto ed equo. I partners nel dialogo dovrebbero innanzitutto cercare quello che li unisce prima di contrapporre i problemi che li dividono. Essi dovrebbero essere convinti che nessuno può costruire la pace senza gli altri, in modo unilaterale. Infatti il benessere di un popolo non si può mai ottenere contro il benessere di altre persone. Esattamente come un popolo non potrà mai distruggerne un altro. Tale convinzione aiuterà i partecipanti a capire che ci sono diritti di persone e di comunità da rispettare e processi distruttivi - pericolosi per tutti - da evitare e da abbandonare. Essi si asterranno così dall’enfatizzare teorie, modi di agire o dottrine che, qui e ora, cioè, nelle attuali circostanze, non possono aiutare nessuno.

i) I partners nel dialogo devono essere autenticamente e veramente se stessi; questo esclude qualsiasi finzione o impersonificazione di altri. Ci presentiamo nella nostra vera identità proprio perché il dialogo serve a conoscersi e a comprendersi reciprocamente, a imparare e a disimparare, alla giustizia e alla verità. Dobbiamo tuttavia tenere presente, che la nostra vera identità comprende la nostra identità in unione solidale con gli altri: la comunità, la società o il gruppo a cui apparteniamo per formare la nostra identità.

Non dobbiamo mai dimenticare che in situazioni di tensione e d’incomprensione, noi stessi siamo parte del problema. Se ci mascheriamo e fingiamo di essere quello che non siamo, distorciamo il problema e sviamo completamente il dialogo. A causa della pelle di pecora che indossiamo, inganniamo la gente facendola uscire disarmata solo per trovarsi poi di fronte a un lupo feroce. In questo modo noi rafforziamo i loro sospetti e pregiudizi.

j) Il dialogo è per l’azione. Il dialogo che resta per sempre sul piano della teoria, delle discussioni e dello scambio di idee non si può dire che abbia un senso. Esso dovrebbe sempre concludersi con qualche programma concreto d’azione comune. Questo semplicemente per il fatto che le tensioni, le contese, le guerre non si verificano soltanto sul piano delle parole: prima o poi le parole dure si trasformeranno in attacchi o in altre azioni indesiderabili. Soltanto l’azione annullerà l’azione.

5. Dialogare non è facile
Da tutto ciò che abbiamo detto, dovrebbe essere chiaro che il dialogo non è facile. Alcuni, infastiditi dal dover riconoscere o ammettere una proposta in qualche misura ragionevole, preferiscono rifiutarla, oppure limitarla con condizioni che la rendono impossibile o la ritardano indefinitamente. Spesso c’è un senso di vera e talvolta giustificata insicurezza. «Ciò porta, a sua volta, a livelli sempre più elevati di tensione, aggravati dall’inevitabile ricerca, con tutti i mezzi e da ciascuna delle parti, di una superiorità militare e perfino ad avere il sopravvento con atti di vero e proprio terrorismo... o del predominio sull’altra parte mediante il controllo economico e ideologico». (Giovanni Paolo II, Discorso al corpo diplomatico coreano; Regno-doc. 11,1984,332). Il dialogo richiede chiarezza di idee, fermezza e perseveranza. È assai difficile dissipare un’atmosfera di timore, di sospetto, di sfiducia e di incertezza e questo può rendere quasi impossibile il dialogo costruttivo.

È quindi necessario che le persone che s’impegnano nel dialogo comincino con volontà ferma e con determinazione a scoprire e ad attaccarsi alla verità, a ciò che porta veramente al bene comune di tutti, a quello che unisce le diverse parti nel dialogo e a quello che è giusto e corretto. Essi devono essere risoluti nel loro desiderio di avvalersi solamente di mezzi pacifici. Il dialogo è un’attività per uomini e donne di buona volontà.

Nel dialogo le persone non dovrebbero lasciarsi scoraggiare da insuccessi reali e vistosi. Essi dovrebbero essere tutti d’accordo nel ricominciare incessantemente a proporre il dialogo autentico, rimuovendo gli ostacoli ed eliminando le carenze del dialogo... e a percorrere fino in fondo questa sola strada che conduce alla pace, con tutte le sue necessità e condizioni.

Rinunciare al dialogo significa perdere la fiducia nell’uomo, nell’essere umano. Dobbiamo continuare a conservare «abbastanza fiducia nell’uomo, nella sua capacità di essere ragionevole, nel suo senso del bene, dell’equità, della giustizia, nella sua capacità di amare fraternamente e di sperare...».

6. Dialogo: responsabilità di tutti, ma qualcuno è più responsabile
Cominciamo a concentrare di più la nostra attenzione sul dialogo di pace. È di questo dialogo che c’è più bisogno in Sudan dove è in corso una selvaggia guerra civile e dove i conflitti religiosi ed etnici sono come vulcani che possono eruttare in qualsiasi momento. Queste situazioni richiedono passi immediati verso il dialogo. Ma chi deve fare il primo passo?

a) Il governo
Il governo ha un ruolo e una responsabilità fondamentali nel preparare la via al dialogo della pace. Riportiamo qui l’appello rivolto dal papa ai funzionari e ai diplomatici in Paraguay nel 1982: «Il vostro compito di governare diverrà immensamente più facile e più efficace di quanto voi abbiate mai creduto possibile, se cercherete sempre di favorire il dialogo e la maggiore partecipazione di tutti negli affari pubblici. Un governo giusto, sollecito nell’esercizio delle sue funzioni, completerà la vostra (cioè dei funzionari e dei diplomatici) opera facendo in modo che i diritti degli emarginati siano salvaguardati», e a Red Horn: «Il dovere fondamentale di chi detiene il potere è la sollecitudine verso il bene comune della società... I diritti del potere si possono capire soltanto sulla base del rispetto degli oggettivi e inviolabili diritti dell’uomo... La mancanza di ciò porta alla dissoluzione della società, alla ribellione dei cittadini verso l’autorità, o a una situazione di oppressione, intimidazione, violenza e terrorismo».

È facile per un governo chiudere la strada al dialogo, particolarmente se esso si pone come riferimento ultimo di giustizia e di diritto. Spesso questo atteggiamento nasconde semplicemente la volontà di potenza dei suoi dirigenti. Talvolta è un atteggiamento che risponde a un concetto oltranzista e superato della sovranità e della sicurezza dello stato. «Questo allora rischia di diventare l’oggetto di un culto per così dire indiscutibile, per giustificare le imprese più contestabili» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace 1983, n.7; Regno-doc. 3,1983, 64).

È certamente compito e responsabilità del governo istituire il dialogo a livello nazionale per risolvere i conflitti sociali e perseguire il bene comune. «Pur tenendo conto degli interessi dei diversi gruppi, la concertazione pacifica può farsi costantemente, mediante il dialogo, nell’esercizio delle libertà e dei doveri democratici per tutti, grazie alle strutture di partecipazione e alle molteplici istanze di conciliazione tra i datori di lavoro e i lavoratori, in modo da rispettare e associare i gruppi culturali, etnici e religiosi che formano una nazione. Quando purtroppo il dialogo tra governanti e popolo è assente, anche la pace sociale è minacciata o assente: si genera come uno stato di guerra» (ibidem, n.8; Regno-doc. 3,1983, 64).

Il governo non può portare pace e comprensione fra la gente del Sudan da solo. Ha bisogno del contributo di ogni cittadino, ciascuno secondo le proprie capacità. Tale collaborazione, comunque, deve essere cercata e richiesta, perché il popolo sudanese tende facilmente a considerare il governo come unico depositario del sapere.

b) I mass-media (La stampa, la radio e la televisione)

Sono questi gli strumenti che plasmano l’opinione pubblica. L’opinione pubblica può frenare le tendenze bellicose oppure può alimentare queste stesse tendenze.

Coloro che lavorano nei mezzi di comunicazione sociale dovrebbero capire che essi svolgono un importante ruolo educativo nella società.

Se essi esprimono tutto in termini di rapporti di forza, di lotte di gruppi e di classi e di amici e nemici, essi creano un’atmosfera favorevole alle barriere sociali, al disprezzo, persino all’odio e al terrorismo e al sostegno nascosto o palese di essi. «Al contrario, da un cuore dedito al valore superiore della pace derivano la preoccupazione di ascoltare e capire, il rispetto dell’altro, la dolcezza che è forza vera, la fiducia. Un tale linguaggio mette sulla via della obiettività, della verità e della pace.» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace 1979, Regno-doc. 3,1979,52).

I mezzi di comunicazione sociale possono svolgere un ruolo importante nell’inaugurare una nuova era di pace e di dialogo per la pace. Infatti essi promuovono lo scambio di informazioni cosicché tutti possano meglio comprendere non solo ciò che accade, ma anche il significato degli avvenimenti. Nella loro comunicazione, le coscienze di tutti dovrebbero essere unite nella ricerca di ciò che è vero, buono e bello. Essi non alimentano il popolo con decisioni e opinioni precostituite, ma piuttosto, riuniscono diversi punti di vista, li mettono a confronto e li trasmettono in modo che la gente possa capire e prendere una decisione adeguata.

In molti casi i media falliscono nella loro missione. Forse sono sotto il controllo della polizia, oppure sono troppo influenzati dalle ideologie e dai colori politici a cui appartengono o che li finanziano. Di fatto, però, il loro contributo alla pace e alla migliore comprensione fra il popolo sudanese lascia troppo a desiderare. C’è poca obiettività, spesso i commenti dei fatti sono tendenziosi. Ad esempio, nessun giornale e nessun programma televisivo ha mai mostrato le reali condizioni di vita dei profughi o gli orrori della guerra civile. Se questi fossero stati illustrati con obiettività alla gente del Sudan, già da molto tempo essi avrebbero protestato contro ciò che sta accadendo.

Questa nuova era di dialogo richiede maggior etica professionale da parte dei giornalisti e dei direttori di programmi radiofonici e televisivi. Bisogna che essi valutino con calma il bene che potrebbero realizzare se dedicassero maggior attenzione a ciò che potrebbe unire il popolo sudanese e a ciò che potrebbe portare maggior comprensione e far sì che si rispettino reciprocamente, piuttosto che contrapporre una razza o una religione o una tribù contro l’altra... nel nome di che cosa? Della guerra, della brutalità, della distruzione, della divisione, della falsità e dell’instabilità.

c) Capi religiosi
I capi religiosi, sia cristiani che musulmani, hanno una grande responsabilità nel promuovere il dialogo e nell’educare ad esso le persone. Vediamo che a causa della manipolazione e della polarizzazione politica di questi ultimi anni, anche i capi religiosi sono divenuti sostenitori della linea dura ed esperti del monologo. Vogliamo precisare che una simile posizione contraddice gravemente tutto ciò che le cosiddette religioni divine proclamano di essere: religioni del dialogo, della comprensione, del rispetto per la dignità e i diritti umani, dell’amore, della compassione, della misericordia e della tolleranza.

Noi, capi religiosi, dovremmo essere esperti nell’arte del dialogo. Infatti è parte integrante della nostra missione.

- Noi crediamo in Dio che è il Dio del dialogo. Noi tutti crediamo che Dio non sia venuto a rivelare se stesso o le sue leggi imponendo con la forza la sua rivelazione all’uomo. Egli lo ha fatto con molta gradualità e attenzione alla capacità dell’uomo di assimilare la verità divina. Il Dio in cui crediamo non usa la forza o la violenza contro l’essere umano che non comprende o rifiuta di comprendere od obbedire alle sue leggi. Infatti la regola sembra essere il contrario: che quelli che noi riteniamo malvagi hanno in questo mondo vite molto più facili e «felici» di coloro che cercano di vivere in stretta osservanza alla legge di Dio.

- Noi tutti crediamo che Dio abbia creato gli esseri umani a sua immagine e somiglianza. Perciò abbiamo una valida ragione per rispettare tutti gli esseri umani. Chi siamo noi per disprezzare una persona a cui Dio ha concesso un così grande onore?

- Noi crediamo che solo Dio sia la verità e che nessun essere umano possegga la pienezza della verità; invece sappiamo che noi, nonostante i nostri studi superiori di teologia, possediamo solo una conoscenza molto parziale della verità. Per questa ragione siamo costantemente alla ricerca della verità. Non vorremmo essere il genere di persone che chiudono le loro menti ad altri che, come noi, dichiarano di possedere una qualche porzione di verità. Vogliamo invece aprire le nostre menti e il cuore per aggiungere ciò che essi ci danno al nostro tesoro di verità.

- Noi sentiamo di avere la vocazione di portare la verità e la salvezza di Dio a tutto il genere umano. Ecco perché predichiamo di non fare dei seguaci, ma di condurre gli esseri umani verso Dio. Noi, più di chiunque altro, dovremmo preoccuparci del bene comune di tutti. Saremmo falsi verso la nostra vocazione mettessimo da una parte alcuni perché vadano in rovina e da un’altra gli altri perché si salvino come se noi fossimo il loro Dio. Le persone che posseggono un bene universale non possono divenire parziali nella loro mentalità e nei loro intenti.

- I credenti come noi sanno che la fede in Dio è un’adesione interiore della mente e del cuore che viene da Dio stesso e che tale fede non può essere indotta con la forza o con la manipolazione. Crediamo nella libertà di coscienza e infatti basiamo tutto il nostro operato sulla persuasione piuttosto che sulla costrizione. Perciò, noi siamo il genere di persone che addirittura rispetterebbe e sosterrebbe il diritto della gente di dissentire e di opporsi persino alle leggi di Dio, perché tale libertà è stata data loro da Dio stesso.

- Noi proclamiamo che Dio è misericordioso e compassionevole e per questo predichiamo il pentimento anche ai peccatori più incalliti. La nostra missione non ci autorizza affatto a condannare nessuno all’inferno. Dio non lo fa. Perché dovremmo farlo noi? Chi ci ha autorizzato a farlo? Al contrario, noi sappiamo che gli esseri umani sono inclini al male e al peccato, e questo vale anche per noi. Tutti abbiamo bisogno della misericordia e del perdono di Dio. Quindi abbiamo bisogno di portare a tutta la gente, compresi i peccatori più incalliti e malevoli, la buona notizia che Dio li ama, che Dio non solo li perdonerà se si volgeranno a lui, ma che li sta già perdonando, mostrando loro la via del ritorno. Noi non siamo il genere di persone che, nel nome del Dio misericordioso e compassionevole, tratterebbe con asprezza i peccatori, non lasciando loro lo spazio per la speranza o la salvezza.

Insomma, noi possediamo tutto ciò che serve per un buon dialogo. È nostro dovere promuoverlo.

Facciamo quindi appello ai fedeli cristiani e musulmani perché aiutino i loro capi religiosi a vivere secondo la loro vocazione. Se voi ci vedete predicare un Dio di parte o politico, oppure fomentare l’odio e la divisione, o incoraggiare il disprezzo delle persone e delle loro convinzioni, oppure usare la religione per il nostro avanzamento personale o al servizio di interessi politici o economici oppure come strumento di oppressione, sappiate che è vostro dovere davanti a Dio, alla nazione e ai vostri fratelli nella fede, protestare e chiederci di cambiare i nostri atteggiamenti.

7. I cristiani e il dialogo
Vi esortiamo, cristiani, ad assumere la vostra parte in questo dialogo, il dialogo per la pace, il dialogo per la promozione di una maggiore comprensione, del rispetto e della collaborazione reciproci fra la gente del Sudan, fra cristiani e musulmani e fra le varie tribù e culture che costituiscono la nostra nazione. Con le parole del papa ricercate le vostre responsabilità verso il dialogo «con quella qualità di accoglienza, di franchezza e di giustizia che è richiesta dalla carità di Cristo», riprendetele «incessantemente, con la tenacia e la speranza che la fede vi consente. Voi conoscete anche la necessità della conversione e della preghiera, poiché l’ostacolo per eccellenza all’instaurazione della giustizia e della pace si trova nel cuore dell’uomo, nel peccato..., come era nel cuore di Caino, che rifiutava il dialogo col suo fratello Abele... Gesù ci ha insegnato come ascoltare, condividere, come fare agli altri come si vorrebbe per se stessi, come risolvere le controversie mentre si cammina assieme, come perdonare.» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace 1983, n. 12; Regno-doc. 3,1983, 65).

I cristiani devono divenire più consapevoli della loro vocazione a essere umili messaggeri di pace: la pace che Dio ci ha affidato la notte di Natale e che Cristo ci ha lasciato in eredità, con la sua morte e risurrezione, una pace che va oltre i muri che separano i popoli, oltre la diversità delle lingue e delle culture.

Noi affidiamo questa lettera in modo particolare a voi cristiani, cioè a ciascuno di voi che professa la fede in Cristo. È nostro dovere far della pace il nostro stile di vita, noi che siamo già figli di Dio, dovremmo essere chiamati figli di Dio perché siamo fautori di pace.

Conclusione
Possano tutti gli uomini e le donne sudanesi di buona volontà raccogliere questa sfida al dialogo. Sappiamo che spesso la situazione è estremamente difficile, che dopo svariati tentativi, ci troviamo soltanto all’inizio. Ma se noi entriamo nel dialogo, qualsiasi tipo di dialogo, uniti e con la volontà determinata di continuare fino alla fine, noi raccoglieremo i frutti dei nostri sforzi. Faremo di noi stessi una nazione di gente civile e ragionevole, un popolo politicamente maturo e un popolo che rifiuta qualsiasi tentativo di auto-distruzione attraverso la guerra, i conflitti religiosi e culturali e le divisioni.

Chi di noi non riesce ad apprezzare una nuova visione del Sudan, un paese in cui dominano la giustizia e la pace, dove le varie tribù e razze si conoscono e si rispettano a vicenda e dove tutti i cittadini sono uniti in sforzi comuni perché tutti si sentono parte essenziale di questa nazione?

Possa Dio, che ispira ogni buona azione, portare a compimento l’opera buona che ha iniziato fra di noi.

I vescovi cattolici del Sudan

Khartoum, 2 maggio 1993


articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)