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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Zubeir Wako

Il dialogo è possibile?

"Il Regno" n. 1 del 1995

Il cristiano sudanese, discriminato a tutti i livelli della vita sociale, è oggi “scettico sul dialogo” con i musulmani. Mons. Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum, non si è lasciato sfuggire l’occasione della Conferenza internazionale sul dialogo interreligioso svoltasi in Sudan (cf. riquadro a p. seguente) per denunciare ancora una volta le ambiguità, e forse la paura, di quanti, nel suo paese, sostengono e promuovono il dialogo interreligioso purché “ignori l’esistenza di tensioni e conflitti irrisolti, di programmi politici e sociali che sono fonte di divisione e discriminazione, di frustrazioni, risentimenti e rabbie complesse, un eccesso di pregiudizi e sospetti” nei rapporti tra musulmani e cristiani (n. 2a).

Un dialogo realmente costruttivo implica invece, dice Zubeir Wako, un’opinione pubblica informata, la presa d’atto e il necessario confronto con chi si sente discriminato; deve avere come prospettiva la giustizia e il bene comune; deve essere perseverante e mirare a concreti programmi d’azione. Un testo da porre in controluce alla lettera pastorale dei patriarchi cattolici d’oriente (in questo numero, p. 22): le dinamiche del dialogo variano molto anche a un piccolo variare di latitudine.

(Originale dattiloscritto. Nostra traduzione dall’inglese).


Signor presidente, vostre eccellenze, signore e signori,

Dio Padre e il Signore Gesù Cristo vi donino grazia e pace.

Se intervengo a questa conferenza, è per convincermi che ci sono buone prospettive per un durevole dialogo interreligioso nel Sudan e all’interno del popolo sudanese.

Il 9 febbraio un gruppo di responsabili religiosi cristiani e musulmani si è incontrato negli uffici del Consiglio per l’amicizia internazionale fra i popoli. L’occasione dell’incontro era straordinaria, soprattutto perché tutti questi responsabili venivano apposta a discutere i modi per assumere più seriamente la questione del dialogo tra cristiani e musulmani. In quell’occasione essi costituirono ciò che io ritenevo fosse un comitato di lavoro per il dialogo cristiani-musulmani, mentre in seguito risultò essere un “comitato preparatorio” - preparatorio in vista di questa conferenza. Il mese scorso (il 26 settembre) quello stesso gruppo iniziale si è incontrato e ha ritenuto di dover costituire un Consiglio per il dialogo cristiani-musulmani con un’apertura al dialogo con tutti i credenti in Dio.

Secondo me questo Consiglio provvisorio per il dialogo interreligioso (cristiano-musulmano) si pone dei traguardi e degli obiettivi un po’ troppo ambiziosi e in molti casi inattuabili. La loro sola giustificazione può essere la considerazione che ci si devono porre dei traguardi alti per ottenere almeno qualcosa. Bisognerà vedere se possiamo realisticamente consegnare gli stessi traguardi e obiettivi al “consiglio permanente”, che se tutto va bene sarà costituito una volta poste le basi per un vero dialogo interreligioso. Ambiziosi o inattuabili, questi obiettivi riflettono le aspirazioni dei partecipanti e di quanti hanno accettato di far parte di questo Consiglio provvisorio per il dialogo interreligioso. Può darsi che molte persone non mettano mai in dubbio la praticabilità di questi obiettivi, ma diverse porranno domande come queste: “Quali speranze ci sono che tale iniziativa abbia successo? Non sarà che tutto il progetto è destinato a fallire, come sono falliti i precedenti tentativi di un certo tipo di dialogo interreligioso?”.

Ciò che vorrei sottolineare è che il dialogo guarda al presente per rivolgersi al futuro. Esso dovrebbe tentare di correggere atteggiamenti, tensioni e incomprensioni del passato. Ma la sua principale domanda e il suo campo d’azione è: “Dove andiamo, a partire dall’oggi?”. Noi abbiamo delle risposte pronte a questa domanda: i musulmani e i cristiani dovrebbero comprendersi meglio reciprocamente, i malintesi e i conflitti passati dovrebbero essere dimenticati e possibilmente perdonati e non più ripetuti; i musulmani e i cristiani dovrebbero collaborare per trovare soluzioni comuni ai problemi che travagliano il paese... la gente desidera pace e armonia, ed essi credono che la religione abbia un ruolo decisivo da giocare in questo processo: e precisamente quello di porre Dio al centro della vita collettiva e individuale delle persone. Tutti sono convinti che la religione deve essere una forza unificante nella società, soprattutto per la sua capacità di guidare gli esseri umani dall’interno del protetto santuario del cuore e della coscienza, dove Dio ha stabilito di abitare.

“Dove andiamo, a partire dall’oggi?”, implica altre domande: “Cos’è l’”oggi”? Come ne usciamo?”.

1. L’”oggi”
Nella situazione sudanese penso che sia un grosso errore e una cieca noncuranza della realtà considerare e presentare il nostro “oggi” come un pacifico e neutrale paradiso della tolleranza religiosa, dell’armonia interreligiosa e della coesistenza pacifica. I discorsi che mitizzano la nostra situazione confrontandola con quella prevalente in altri paesi rendono un cattivo servizio al paese. Non si può trascurare un caso di peste in Sudan semplicemente perché non è nulla in confronto all’epidemia in India. L’errore è tale in se stesso, non in funzione della sua diffusione.

a) Come il cristiano vede il nostro “oggi”

Il cristiano comune guarda a questa importante conferenza con scetticismo: “Dunque ci risiamo”, intendendo che ci disponiamo di nuovo a illudere noi stessi e il mondo. Il cristiano crede nel dialogo, crede nei benefici che ne derivano, crede che sia un dovere. Egli crede anche che il dialogo nella situazione sudanese chiami in gioco alcuni dei valori evangelici di Gesù Cristo, profondamente radicati nei suoi discepoli: il perdono reciproco, la pazienza, l’umiltà, la mitezza, la carità, la speranza e la fede nella potenza di Dio, la fede nella forza riconciliante della morte di Cristo sulla croce. Perché allora egli è così scettico sul dialogo? Una ragione è che molti tentativi in passato sono falliti. Un’altra è che il dialogo negli altri settori centrali della vita della nazione non ha fatto progressi, ad esempio il dialogo per la pace e la fine della guerra civile. Un’altra ancora è che la vera fiducia tra le due comunità si è spezzata, e ciò che appare come fiducia è un espediente per entrambe per sopravvivere.

Alla luce di tutto ciò, il cristiano ordinario definisce il nostro “oggi” come una situazione di tensioni religiose, conflitti e incertezze (queste ultime più accentuate per i cristiani). Il cristiano che pensa in questo modo è quello che si sente discriminato a scuola, sul posto di lavoro, nell’esercito e anche nell’abitazione e nei servizi sociali. È quello che avverte che i suoi diritti alla libertà di culto sono limitati, ove non possa avere un luogo decente per pregare o non possa raccogliere i suoi fratelli cristiani a pregare in casa sua in qualche occasione familiare, o perda il suo lavoro perché il colloquio comprende domande dal santo Corano che egli non si è mai sognato di leggere. Allo stesso tempo c’è il cristiano che afferma che va tutto bene e che ciò di cui il cristiano ordinario ha paura o si lamenta non è altro che deliberata propaganda anti-sudanese. Per questa categoria di cristiani non c’è neanche bisogno di dialogo, perché il dialogo esiste già.

b) Come il musulmano vede il nostro “oggi”

Anche i musulmani sembrano divisi sulla questione del dialogo. Ci sono quelli che avvertono sinceramente che le cose non vanno bene, che si rendono conto che i cristiani, in particolare quelli del sud, sono discriminati e maltrattati a motivo della religione, ed esprimono anche apertamente la loro simpatia. Questo gruppo di musulmani invoca con forza il dialogo. La loro percezione dell’”oggi” è che situazioni di tensione esistono, e che tali tensioni, specialmente quando sia interessata la religione, a lungo andare dividono la nazione, alienano gruppi di cittadini, creano una condizione di caos e indeboliscono il valore della religione stessa. Essi credono che Dio è uno, uno solo per tutti e Padre di tutti, e che tutti gli esseri umani sono fratelli e sorelle.

Certi altri, quelli che ritengono che il Sudan sia e debba rimanere un paese islamico, vogliono fare in modo che tutto sia islamico, che non sia nominata alcun’altra religione che l’islam, e che ognuno che affermi di essere sudanese debba chinare la testa dinanzi ai valori islamici, li condivida o meno. Questo gruppo crede che non ci sia possibilità di dialogo con i kuffar (infedeli), mettendo anche in dubbio la moralità dei musulmani che si impegnano in tale dialogo; di recente esso ha acquisito un certo ascendente.

La maggior parte dei sudanesi, stanca di vivere in costante tensione, desidera fortemente il dialogo, non solo tra musulmani e cristiani, ma anche tra le diverse regioni, culture e gruppi etnici nel Sudan. I più tengono per fermo il principio del buon vicinato. “Un buon vicino è una benedizione di Dio”.

c) Un’opinione pubblica informata è indispensabile per muoversi dall’”oggi”

Un’iniziativa per il dialogo perciò esige un programma dettagliato per promuovere una presa di coscienza; unire le schiere cristiane e musulmane anche nell’idea di dare inizio a un certo tipo di dialogo lascia ineluse le più cruciali questioni che è altrettanto necessario trattare una volta che lo spirito del vero dialogo abbia permeato la nostra società. È per questo che ho sempre insistito che il nostro primo sforzo ora dovrebbe essere quello di creare nelle nostre comunità una consapevolezza della necessità del dialogo, della comprensione e dell’armonia tra i seguaci delle diverse religioni; lo sforzo di accettare la reciproca diversità anche in materia religiosa come benedizione di Dio per la nostra nazione. Tale diversità spesso sfida la profondità della nostra fede. Nel nostro popolo abbiamo bisogno di essere educati ad accettarci gli uni gli altri così come siamo, a rispettarci a vicenda e a includere nell’oggetto di tale rispetto i diversi modi di pensare, le lingue, le culture e la loro espressione. Abbiamo bisogno di promuovere questa diversità, perché promuovendola noi promuoviamo le persone immerse in essa, e questo significa promuovere l’”immagine e somiglianza di Dio”, secondo la quale tutti gli esseri umani sono stati creati. E dal momento che i seguaci di alcune delle grandi religioni mondiali credono di essere stati incaricati da Dio di diffondere la loro fede, abbiamo bisogno di persuaderci a vicenda che la conversione alla fede anche all’interno della stessa religione, cioè in termini di un più profondo impegno di fede, è in ultima analisi una questione molto personale. È un problema di convinzione personale e di coscienza - la coscienza umana - che non può essere violata o soggetta a violenza, coercizione, inganno, manipolazione, poiché tali atti devono essere considerati affronti a Dio, il quale, chiamando gli esseri umani a credere in lui, a servirlo e adorarlo, non accetta un culto di schiavi ma di persone libere, che liberamente vanno a lui in risposta alla verità e alla bontà, perché egli ha dotato ciascuno di loro di quell’attributo divino che chiamiamo libertà. Come dissi nell’incontro di febbraio del Consiglio provvisorio per il dialogo interreligioso: “Sia i cristiani che i musulmani devono rinnovare la loro fede nella potenza di Dio che è onnipotente. Dio non ha bisogno che gli esseri umani lottino per lui. Egli può combattere e vincere da solo le sue battaglie”.

2.Come procedere dall’oggi?
a) Una sincera accettazione dell’“oggi”

Il dialogo di cui abbiamo bisogno in Sudan esige radicali cambiamenti nel nostro avvicinarci alle difficoltà. I sudanesi sono inclini ad accettare le situazioni problematiche con un “Ma’alesh”. Tale atteggiamento verso i problemi è utile, ma tende a lasciarli intatti fino al loro ripresentarsi. Il dialogo sudanese comincerà ad assumere un andamento di serietà quando tutti gli interessati accetteranno sinceramente l’esistenza di tensioni e conflitti irrisolti, l’esistenza di programmi politici e sociali che sono fonte di divisione e discriminazione, l’esistenza di frustrazioni, risentimenti e rabbie complesse, un eccesso di pregiudizi e sospetti e tutto ciò che può rendere anche le prospettive di dialogo nient’altro che un sogno. Questo è il motivo per cui ho sempre contraddetto quanti affermano che i sudanesi sono per natura un popolo tollerante aperto al dialogo, e che in Sudan non esiste alcun tipo di tensione o discriminazione religiosa. Quanti sostengono questo hanno ragione solo in parte, per non dire che hanno paura. Perché accettare che vi siano tensioni religiose equivale a porre il Sudan tra i paesi che non rispettano i diritti umani. La mia visione della situazione è che la questione religiosa, con la sua componente razziale, è parte integrante di tutte le tensioni che hanno guastato la nostra storia recente, o più propriamente che sono state indotte per acuire le tensioni. Dobbiamo inoltre notare che ciò che causa tensione tra la gente può essere reale o immaginario: ma, reale o immaginario che sia, dev’essere con onestà affrontato e ridimensionato prima che esca da ogni controllo.

b) La necessità di un confronto

Nel dialogo non è sufficiente la ricerca di obiettività, perché le lamentele e lo scontento si generano quando la sofferenza soggettivamente avvertita viene trascurata. Propongo perciò che la nostra ricerca di dialogo dia a quanti provano delle sofferenze, a quanti si sentono a disagio per come sono trattati, il coraggio di farsi sentire di più, di affrontare quelli che causano tali sofferenze. Dovrebbero essere creati per loro luoghi per esprimere le loro afflizioni liberamente e senza timore. Il loro confronto dovrebbe essere determinato e perseverante, ma non aggressivo e non giudiziario. Non deve incolpare, umiliare o attaccare. Tutti noi dobbiamo tenere a mente che un problema non è un’accusa. Una difficoltà non è un’accusa. Persone e gruppi di persone devono essere liberi di esporre i loro problemi e le loro difficoltà. Gli altri, almeno per cortesia, hanno il dovere di ascoltare.

c) Il dialogo, come la pace, è impossibile senza giustizia

È necessario che analizziamo accuratamente le strutture che sono date per scontate e immutabili. Ne ho messa in discussione una e qualcuno mi ha detto che stavo mettendola in politica. Gli ho chiesto: “Allora devo concludere che il dialogo finisce qui?”. “No, ma dovremmo astenerci da questioni politiche. Siamo responsabili religiosi”. Se i responsabili religiosi non possono mettere in discussione strutture ingiuste, chi lo farà? Come potranno predicare un Dio giusto, senza richiamare le persone a diventare giuste come è giusto il loro Padre celeste? Alla mia domanda non è ancora stata data risposta. La religione non si può vivere in un vuoto. Dobbiamo convincerci che elementi estranei alla religione spesso hanno bisogno della religione per sopravvivere. È la Scrittura che dice che il diavolo può travestirsi da angelo della luce. Dovunque la religione entri, deve portare la luce di Dio, anche se ciò dovesse significare un aspro confronto con gli angeli delle tenebre.

d) Il dialogo dev’essere al servizio del bene comune di tutti

Il dialogo mira a rimuovere sospetto, divisione, pregiudizi e confronto. In tal modo promuove la solidarietà e la cooperazione tra i popoli. L’obiettivo del dialogo è il bene comune di tutti, e i diritti inalienabili di ogni essere umano. Questa affermazione esclude la dittatura della maggioranza, perché il bene comune comprende il bene della minoranza e i diritti inalienabili di ogni essere umano come individuo. Uno degli scopi principali del nostro dialogo dovrebbe perciò essere una ricerca di ciò che unisce musulmani e cristiani. Questi elementi dovrebbero essere ben individuati prima di affrontare le questioni che dividono. Tale procedimento si basa sulla convinzione che “il benessere di un popolo non può mai essere perseguito in opposizione al benessere di un altro” e che “né il bene comune, né la pace possono mai essere costruiti da alcuni senza gli altri”.

e) Il dialogo dev’essere perseverante

Il dialogo dev’essere perseverante. È un esercizio difficile. Una ragione di ciò è che si tratta di un esercizio in cui tutte le parti dovrebbero uscire vincitrici. Nel vero dialogo non ci sono perdenti, né si possono avere dei perdenti senza un colpo mortale per il dialogo stesso.

Le persone in dialogo non dovrebbero lasciarsi scoraggiare da insuccessi apparenti o reali, ma dovrebbero acconsentire a ricominciare incessantemente a proporre un vero dialogo - rimuovendone gli ostacoli ed eliminandone i difetti - e a percorrere fino in fondo quest’unica strada che porta alla pace, con tutte le sue esigenze e le sue condizioni.

Come ha detto papa Giovanni Paolo II: “Lasciar perdere il dialogo vuol dire perdere la fede nell’uomo, nell’essere umano”. Dobbiamo continuare a difendere “una certa fiducia nell’uomo, nella sua capacità di creatura ragionevole, nel suo senso del bene, della giustizia, dell’equità, nella sua possibilità di amore fraterno e di speranza...”.

f) Il dialogo ha bisogno di azione

Il dialogo deve portare all’azione. “Un dialogo che resta per sempre sul piano della teoria, delle discussioni e dello scambio di idee non si può dire che abbia un senso. Esso dovrebbe sempre concludersi con qualche programma concreto d’azione comune. Questo semplicemente per il fatto che le tensioni, le contese, le guerre non si verificano soltanto sul piano delle parole: prima o poi le parole dure si trasformeranno in attacchi o in altre azioni indesiderabili. Soltanto l’azione annullerà l’azione” (Conferenza dei vescovi cattolici del Sudan, Lettera sul dialogo, 2.5.1993, n. 4; Regno-doc. 13,1993,420).

Il programma d’azione perché il nostro dialogo abbia successo dovrebbe, credo, comprendere i seguenti elementi:

- creare nella gente la consapevolezza dell’esistenza di situazioni di intolleranza religiosa, e della necessità di un dialogo permanente e delle esigenze di tale dialogo; questa consapevolezza dovrebbe portare i cittadini a convenire su una sola forma di intolleranza: l’intolleranza dell’intolleranza, particolarmente in quanto concerne la libertà e la pratica religiosa;

- educare la gente al rispetto e ad accettare quelli che non pensano o agiscono come noi;

- esaminare i nostri attuali programmi e le relative strutture politiche e sociali per attirare l’attenzione delle autorità responsabili su certi aspetti che potrebbero generare tensione, creare malintesi o porre strati della popolazione in difficoltà permanenti;

- richiedere che le autorità competenti costituiscano dei luoghi di riunione per ascoltare le difficoltà e i problemi dei cittadini, specialmente su argomenti che riguardano la libertà di culto e di pratica religiosa, e per controllare che vengano risolti;

- organizzare studi approfonditi o conferenze per consentire a musulmani e cristiani di capire e anche di stimolarsi a vicenda nella comprensione di questioni quali: il significato della libertà religiosa e di culto; il ruolo della religione nella politica e nella società e il modo per riconciliare le diverse prospettive religiose su questi problemi; l’applicazione di leggi religiose come la sharia islamica su persone che non aderiscono a questa fede particolare; il dialogo per la pace per porre fine alla perdurante guerra civile e creare un’atmosfera propizia alla pace e alla fratellanza all’interno del popolo sudanese... (Sono convinto che se tali questioni non vengono politicizzate, ma affrontate in modo da capire meglio ciò che persone di diverse tradizioni religiose e culturali ne pensano, tali studi potrebbero risultare profondamente vantaggiosi per tutti).

Dopodiché, anche gli altri propositi elencati nelle “Costituzioni del Consiglio per il dialogo interreligioso” potrebbero essere perseguiti e realizzati.

Infine, per tornare alla domanda da cui ero partito: io credo che il dialogo tra cristiani e musulmani sia possibile, e che possiamo vivere insieme come fratelli e sorelle. Questa convinzione può peraltro divenire realtà se:

1. il Consiglio per il dialogo interreligioso verrà tenuto in considerazione e sostenuto da tutti - cittadini e autorità - come un luogo a lungo atteso per mettere fine a una situazione che avrebbe gettato il paese nel caos;

2. il Consiglio per il dialogo interreligioso prenderà sul serio le proprie responsabilità e i suoi membri saranno pronti ad assumersi i rischi connessi a un progetto delicato come questo;

3. l’intero processo di dialogo verrà preso sul serio con la determinazione a renderlo operativo nella pratica, e non semplicemente come uno specchietto per le allodole per illudere noi stessi e l’opinione pubblica internazionale;

4. il nostro paese rinnoverà la sua fede in Dio e la sua convinzione che, nella sua provvidenza, egli non lascerà che i suoi figli continuino in eterno a combattersi e distruggersi a vicenda, invece di rimanere uniti costruttivamente e di sostenersi a vicenda in uno spirito di solidarietà fraterna che si estenda particolarmente verso quelli di loro che necessitano di maggior cura e sostegno.

Khartoum, 5 ottobre 1994

U Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum
(Chiesa cattolica)

Mons. Zubeir Wako ha pronunciato l’intervento che pubblichiamo nel corso di una Conferenza internazionale sul dialogo interreligioso, svoltasi a Khartoum dall’8 al 10 ottobre scorso con la partecipazione di più di 200 leader religiosi provenienti da 30 paesi e rappresentanti delle grandi religioni mondiali. Forte la prevalenza islamica: sono giunti esponenti politici e religiosi al più alto livello dall’Egitto, dalla Libia, dal Pakistan, dallo Yemen, dalla Giordania e dai Territori occupati, e il leader del Fronte nazionale islamico sudanese, Al Turabi, è risultato tra i protagonisti più attivi dell’incontro. I cristiani erano presenti, tra gli altri, attraverso il presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, card. F. Arinze, e i delegati inviati dal Consiglio delle chiese del Medio Oriente, dalla Comunione anglicana e dal Consiglio ecumenico delle chiese, che attraverso la propria agenzia ENI (24.10.1994) ha riconosciuto nell’incontro una nuova volontà, da parte musulmana, di impegno nel dialogo.

Sul fronte interno sudanese, la conferenza ha prodotto il risultato dell’annuncio della costituzione del “Consiglio per il dialogo interreligioso”, cui fa riferimento, in senso critico, mons. Zubeir Wako nel suo intervento. In realtà, nel corso della stessa conferenza numerosi altri interventi di cristiani hanno espresso preoccupazione per le pressioni e le discriminazioni cui vanno soggetti i cristiani sudanesi a causa della sharia, nonché per la guerra civile che si trascina da 27 anni tra il nord arabo e musulmano e il sud nero e cristiano o animista, con un milione di morti, prevalentemente tra i neri, e 4 milioni di rifugiati.


articolo tratto da Il Regno logo

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