Un conflitto potenzialmente regionale
La guerra che stagionalmente viene combattuta da tredici anni tra il governo islamico di Khartoum e la guerriglia del sud sembra entrare in una nuova fase che, pur nell'incertezza dell'esito, vede in grave difficoltà il governo sudanese. Il 28 dicembre scorso i violenti scontri che oppongono l'esercito governativo ai circa 1.500 ribelli armati provenienti dall'Eritrea hanno dato il segnale che la frazionata opposizione armata sudanese gode di un appoggio in più e che la guerra nel Sudan meridionale è potenzialmente destabilizzante per i paesi attraversati dalle sorgenti del Nilo.1
Non sono estranee a questo nuovo assetto delle alleanze le politiche di USA e Francia nell'area, ispirate all'anticomunismo e anti-islamismo le une, e al timore del predominio anglo-statunitense le altre. Gli USA, che dopo il caso afghano (1979) erano alla ricerca di un alleato antisovietico nel mondo islamico, hanno appoggiato per molti anni il Sudan, il cui territorio veniva usato come corridoio per gli aiuti alla guerriglia del Fronte popolare di liberazione del Tigré contro il regime comunista etiopico di Menghistu (caduto nel 1991) o per il Fronte popolare di liberazione eritreo, che ha dichiarato l'indipendenza nel 1994.
L'anti-Uganda
Ciò che non era chiaro agli USA era che dopo il colpo di stato del 1989, che aveva portato al potere a Khartoum Omar el Bechir, la politica del Sudan avrebbe mirato all'estensione dell'islam militante nell'Africa nera. Per questo il governo sudanese conduce la guerra "civile" al sud così come l'azione sovversiva nei confronti dei paesi confinanti non islamici. A partire dal 1993, il Sudan conduce attacchi militari, ufficialmente contro la guerriglia, nel territorio ugandese e dà il proprio sostegno al Lord Resistance Army – un gruppo di guerriglieri che agisce nel nord Uganda. Viene così inaugurato un nuovo assetto politico che vede schierato da un lato il Sudan islamico e "arabo" e dall'altro J. Garang, leader della guerriglia del sud, e Museveni, presidente ugandese, accomunati, oltre che dall'amicizia personale, anche dalla medesima cultura "africana" e da una visione politica "progressista" e laica.
Nell'aprile 1995 Sudan e Uganda rompono le relazioni diplomatiche e nonostante l'accordo del settembre 1996 mediato dall'Iran, nel gennaio scorso Museveni ha dichiarato che ormai gli spazi per soluzioni negoziali sono molto ristretti. Nel corso del 1996 nell'alleanza anti-ugandese entrano altri due gruppi: il Fronte di liberazione occidentale del Nilo, che ha come base gruppi etnici dello Zaire (regione di Kaya) a dominanza musulmana, i cui dirigenti sono ex membri dell'esercito del deposto dittatore ugandese Idi Amin Dada; e l'Alleanza delle forze democratiche che opera sempre a partire dallo Zaire. In quest'ultimo gruppo rientrano i combattenti musulmani della setta Tabligh (d'origine pakistana) rifugiati in Zaire nella primavera 1996; sbandati di varie etnie; combattenti dell'etnia bakonjos, da quarant'anni in lotta con l'Uganda; e infine hutu ruandesi responsabili del genocidio contro i tutsi nel 1994, fuggiti dai campi profughi dalla regione di Goma dopo l'intervento delle truppe di Kabila, appoggiate invece dal nuovo governo tutsi del Ruanda. La Francia aiuta militarmente questa coalizione sull'asse Sudan-Zaire per poter mantenere spazi negoziali sul versante islamico, in Algeria e in patria.
L'anti-Sudan
L'appoggio americano a Etiopia ed Eritrea contro il Sudan mira a controbilanciare le manovre sudanesi anti-Uganda. Di conseguenza, il Sudan cerca a più riprese di coalizzare – anche se con scarsi risultati – il malcontento delle opposizioni etiopiche (ma il forte gruppo degli oromo è a dominanza cristiana) ed eritree. Il governo di Addis Abeba ha infatti attivato una seria collaborazione con l'opposizione sudanese in esilio, già presente da tempo in Eritrea. Nel 1994 lo scontro tra Eritrea e Sudan, a motivo della presenza in territorio eritreo di un commando sudanese, si è tradotto nella fuga degli oppositori musulmani sudanesi, troppo a disagio nella lotta "africana" e "cristiana" di Garang e, nell'anno successivo, nella rottura delle relazioni diplomatiche. Il ruolo dell'Eritrea come centro di raccolta dell'opposizione sudanese è sancito dal fatto che il presidente eritreo Issayas Aferworki ha ottenuto il riconoscimento da parte degli oppositori musulmani del cristiano John Garang come capo militare supremo.
Ultima e rilevante variabile è la politica dell'Egitto, che se da un lato ha spinto perché l'ONU decretasse il 26 aprile 1996 l'embargo contro il Sudan per costringerlo a estradare i responsabili dell'attentato a Moubarak (Addis Abeba, giugno 1995), dall'altro esita ad appoggiare la guerriglia sud-sudanese perché la vede come una minaccia sul controllo delle acque del Nilo e perché la forte presenza islamica all'interno delle forze di sicurezza egiziane impedisce una rottura netta col regime sudanese. Su questa esitazione il governo del Sudan sta tentando contatti per avere un alleato forte contro la guerriglia.
2 milioni di morti
"La sofferenza è così grande che le chiese sono l'ultima speranza per la popolazione". Nelle parole di mons. P. Taban, vescovo di Torit, è racchiuso il dramma di una popolazione che, specialmente nel sud, paga il prezzo di questa guerra: due milioni di morti e più di quattro milioni di sfollati o rifugiati. I bombardamenti continui nelle regioni del sud, l'uccisione, la tortura e la sparizione di oppositori politici, la riduzione in schiavitù di donne e bambini, la fame e le persecuzioni religiose sono il pane quotidiano della popolazione sudanese, come ha costatato anche l'inviato speciale della Commissione ONU per i diritti umani, Gaspar Biro, nell'ottobre scorso. Di ritorno dal suo viaggio, durante il quale era stato accompagnato da mons. Taban e dall'ausiliare di Khartoum, D. Adwok, egli ha dichiarato che le conversioni forzate all'islam sono una "pratica quotidiana" nei campi dei rifugiati perché solamente così si possono ottenere cure mediche e cibo. Ma le conversioni – come denunciato già da tempo anche dai vescovi cattolici (cf. Regno-att. 4,1996,76; Regno-doc. 7,1996,236) – riguardano anche le élites sudanesi in quanto l'islamizzazione è "la condizione per la sopravvivenza". Tra dicembre e gennaio il governo, per spingere gli sfollati e i rifugiati nel deserto, ha distrutto alcuni centri cattolici polivalenti per l'accoglienza dei rifugiati a Khartoum e a Omdurman. L'arcivescovo di Khartoum, mons. Z. Wako, ha presentato ricorso al capo dello stato.
Tuttavia mons. Taban ribadisce che non si tratta di una guerra di religione, ma è in gioco innanzitutto la difesa dei diritti umani: "aiutiamo animisti come musulmani al nord e cristiani al sud. Mi occupo personalmente di 400 prigionieri musulmani ai quali procuro copie del Corano".
Nella visita pastorale compiuta dal 9 al 18 novembre 1996 nelle diocesi del sud (Torit, Tombura-Yambio e Rumbek), il nunzio apostolico mons. E. Ender ha portato alle diocesi un messaggio di solidarietà del papa e ha ribadito che la missione della chiesa è "a fianco di coloro che si battono per la giustizia e la pace e per il rispetto dell'inviolabile dignità di ogni persona, senza discriminazioni". Egli ha inoltre ribadito che una delle "prospettive più promettenti" è quella offerta dalla mediazione del gruppo Intergovernmental Authority on Drought and Development (IGADD, che comprende Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenia, Sudan, Uganda). Un ulteriore appello perché venga presa una posizione "chiara a decisa" contro i "crimini" compiuti dal Sudan in favore di una soluzione negoziata dall'IGADD è stato indirizzato alla Francia dalla Federazione protestante francese, dalla conferenza episcopale e da alcuni organismi non governativi coinvolti in una comune campagna di sensibilizzazione sul Sudan. Il gruppo ha chiesto alla Francia d'interrompere la collaborazione militare col Sudan per favorire la soluzione negoziale.
1 Per la ricostruzione della geografia delle alleanze attorno alla regione sudanese abbiamo fatto ampio riferimento a G. Prunier, "Le Soudan au centre d'une guerre régionale", in Le Monde Diplomatique 44(1997) 515, febbraio 1997, 8-9. Cf. anche G. Lusk, "Regione al capolinea?", in Nigrizia 115(1997) 2, febbraio 1997, 14-18.