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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Maria Elisabetta Gandolfi

La grazia per restare

"Il Regno" del 18 del 2000

Povertà e persecuzione rappresentano le condizioni di vita della popolazione sudanese, in particolare cattolica. Una pastorale nomade centrata sulla fedeltà dei catechisti. Le difficoltà di rapporto con le organizzazioni internazionali.


Se ti capiterà un giorno di venire a trovarci, potrai toccare con mano l'estrema povertà in cui noi sopravviviamo. La nostra è una vita in mezzo alla guerra e alla povertà. Tutti i giorni passa l'aereo e la gente sente il rumore fin quando è ancora lontano, un rumore che li paralizza, che penetra fino al midollo. Non importa se sgancia o meno la bomba; il suo passaggio ha comunque rovinato la giornata. Se poi la bomba viene sganciata, tutti scappano, così come sono, senza coperte, senza mezzi, senza cibo, anche se siamo nel pieno della stagione delle piogge. Le agenzie umanitarie si sono ritirate a causa della guerra. Noi invece che siamo sempre lì scappiamo con loro ma non abbiamo niente. Mons. Cesare Mazzolari, vescovo della diocesi di Rumbek nel Sud Sudan dal gennaio 1999, descrive così la vita della sua gente. Lo incontro nel corso dell'Assemblea plenaria della Conferenza episcopale sudanese che si è tenuta sulle colline di Pesaro dall'11 al 21 settembre scorso e che si è simbolicamente conclusa con la canonizzazione in piazza S. Pietro a Roma di Josephine Bakhita, la prima santa sudanese, il 1° ottobre.

I lavori dell'assemblea annuale si tengono all'estero per permettere ai vescovi di potersi innanzitutto incontrare al di fuori della situazione di guerra in cui vive il paese. I vescovi possono così scambiarsi opinioni e confrontarsi collegialmente, visto che la Conferenza episcopale lavora separatamente tra zona del Nord, sotto il controllo del governo e Sud, nelle cosiddette zone liberate. Infine, un territorio diverso dal Sudan crea le premesse per un clima di libertà d'espressione sulle questioni fondamentali del paese e della Chiesa.

Come primo punto all'ordine del giorno la Conferenza episcopale ha approvato un Messaggio (in Regno-doc. 17,2000,585) indirizzato all'Agenzia intergovernativa per lo sviluppo (Inter Governmental Agency for Development, IGAD) – di cui fanno parte Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan e Uganda –, l'organismo che da più di un decennio negozia tra il governo di Khartoum e la guerriglia del Sud capeggiata da John Garang.

In esso i vescovi elencano gli ultimi attacchi che le loro comunità hanno subito: "Il bombardamento della scuola di Kauda, avvenuto nei monti Nuba l'8 febbraio scorso, nel quale sono rimasti uccisi 20 alunni e il loro insegnante e altri 17 mutilati (...) Il bombardamento del campo di raccolta della Chiesa cattolica a Tonj nel Bahr el Ghazal, il 9 agosto (...) Questi avvenimenti sono la prova della volontà di attaccare in maniera indiscriminata e premeditata obiettivi di tipo civile, e sono avvenuti nel più totale disprezzo degli accordi bilaterali per il cessate il fuoco (...) Similmente, dopo la caduta di Gogrial il 24 giugno, tutte le proprietà dei civili sfollati sono state saccheggiate. I combattimenti sul terreno e i bombardamenti hanno provocato negli ultimi cinque mesi 442.000 sfollati nella regione di Bahr el Ghazal e circa 220.000 nella Zona unita, nelle regioni del Nilo blu e dell'Alto Nilo. Questi avvenimenti hanno innalzato vertiginosamente il già alto numero di sfollati interni sudanesi, portandolo a 2,3 milioni. A questi dati dobbiamo aggiungere un ampio numero di casi di violazioni dei diritti umani".

I bombardamenti da parte governativa nella zona meridionale hanno provocato a partire dal giugno scorso la partenza delle agenzie umanitarie legate all'ONU nella cosiddetta Operation lifeline Sudan, sguarnendo di aiuti la regione. Solo gli aiuti organizzati dalle Caritas e dalla Chiesa stessa riescono talvolta a giungere a destinazione, anche se ormai sempre più chiaramente "la Chiesa è diventata un obiettivo specifico" dal punto di vista militare, poiché vengono colpiti gli aerei da essa noleggiati per il trasporto dei viveri, le sue missioni, le sue scuole (cf. Regno-att. 18,1997,549).

A ciò s'aggiunge l'azione di discriminazione che il governo compie nei confronti dei cristiani e segnatamente dei cattolici che vivono al Nord, in particolare nella zona di Khartoum,1 fornendo finanziamenti solo alle scuole coraniche, condizionando il passaggio degli aiuti provenienti dall'estero a un permesso concesso unicamente da una propria agenzia, ma anche distruggendo i centri che la Chiesa mantiene per gli sfollati – come nel caso del "Catholic Action Club di Khartoum o dell'invasione della polizia nel Collegio Comboni" o non punendo i "maltrattamenti che il suo personale ecclesiastico ha subito" da parte di forze dell'ordine (cf. Regno-att. 10,1998,314).2

Come uno sciame di farfalle

In uno spirito d'accoglienza non sempre frequente negli incontri ufficiali a livello ecclesiastico, ho assistito ai lavori della sessione dedicata al rapporto tra la Conferenza episcopale e le agenzie umanitarie cattoliche che operano in tutto il territorio sudanese (Caritas, CIDSE, CAFOD, CRS, Misereor ecc.). Per l'episcopato sudanese infatti la cura pastorale delle comunità è strettamente legata alla preoccupazione per la loro sopravvivenza fisica; pertanto i rapporti tenuti con le agenzie caritative e umanitarie sono imprescindibili.

Le difficoltà che sono emerse nella discussione segnalano la separazione tra due ordini di esigenze, che la guerra contribuisce a irrigidire ulteriormente. "Per quanto riguarda gli aiuti umanitari, la nostra più grande difficoltà è che ben pochi sono coloro che sono entrati nella nostra mentalità, soprattutto sul versante pastorale. Abbiamo molte brave persone che si dedicano al volontariato, ma i nostri veri partner sono i vescovi, i quali a loro volta sostengono organismi come Misereor o la Caritas. Invece capita che quando siamo in Sudan dobbiamo trattare con i loro tecnici e questo crea delle difficoltà" – affermava mons. Mazzolari. Al lato opposto i rappresentanti delle agenzie manifestavano la necessità di poter controllare rispetto ai propri standard il funzionamento dei progetti di sviluppo poiché questi devono essere "venduti" ai donatori; la raccolta dei fondi diventa efficace se ai donatori è chiaro lo scopo, l'utilità, e si riesce a instaurare, tramite relazioni periodiche, una sorta di legame concreto con i beneficiari di un determinato progetto. Ma in un contesto in cui un bombardamento può distruggere improvvisamente un povero villaggio di capanne e di lamiere è difficile pensare alla continuità di un progetto, al mantenimento dei contatti tra ente che eroga i fondi e il personale – locale – che li gestisce concretamente. Il rischio per mons. Mazzolari è che le comunità sudanesi si sentano "tagliate fuori come analfabeti" rispetto a un sistema di aiuti di tipo "professionistico".

"La nostra gente va avanti con una vita che attraversa sofferenze indicibili. Si sposta come uno sciame di farfalle o come le api, attratta dalla possibilità di trovare cibo o riparo. E con la consapevolezza che Khartoum li vuole distruggere e che i ribelli non danno loro protezione". "Di fronte a questa situazione a cui le agenzie umanitarie non riescono a far fronte, la Chiesa farà quello che potrà; il che significherà principalmente l'essere presenti. E nonostante il peso da portare stia crescendo, per quanto riguarda la conduzione delle nostre strutture educative e sanitarie, ma anche per il lavoro di evangelizzazione – ad esempio per raggiungere tutte le parrocchie della mia diocesi devo noleggiare un aereo con i costi che ne conseguono – la Chiesa vuole rimanere. I miei missionari sono in questo davvero eroici e anche quando le bombe sono cadute a pochi metri dalle loro abitazioni, essi non hanno voluto partire: sono davvero fondamentali e d'altra parte ricevono dal Signore una grazia speciale perché altrimenti non si spiegherebbe il fatto che rimangono.

Così la nostra è una Chiesa che soffre: soffre nei suoi leader, soffre nei suoi sacerdoti, soffre nella sua gente. Ma è una Chiesa privilegiata perché ricca di tanti catechisti che sono le colonne e che dobbiamo costantemente preoccuparci di coltivare".

Emergono le sette

L'opera dei catechisti è la struttura portante della Chiesa sudanese che è fortemente impegnata in una costante opera di formazione nei loro confronti, che permetta una gestione pastorale sul lungo periodo, oltre lo stato d'emergenza che la guerra o la persecuzione impongono. La discussione affrontata nell'Assemblea dei vescovi circa il ruolo delle due conferenze episcopali regionali e il loro statuto da fare approvare alla Santa Sede, si poneva infatti questo obiettivo strategico: fornire ai vescovi una struttura di riferimento adeguata a due situazioni molto diverse. La conferenza episcopale del Sud infatti deve mantenere i propri uffici e la base operativa a Nairobi (Kenya), ma gode di una relativa libertà di parola nonostante i pastori vengano bonariamente definiti i "vescovi ribelli"; quella del Nord invece ha sede ha Khartoum, ma difficilmente i suoi vescovi possono muoversi al di fuori della propria zona, e i missionari stranieri vengono espulsi dal governo quasi regolarmente ogni volta che si tiene una riunione dei vescovi.

L'azione di sfiancamento che il governo di Khartoum svolge rispetto alla Chiesa ha però provocato, più che un calo numerico dei cristiani e segnatamente dei cattolici (che rimane relativamente alto: 900.000 solo nella diocesi di Khartoum su 11 milioni di abitanti, di cui 3,5 milioni di sfollati), un processo di destrutturazione sociale legata al nomadismo forzato, alle precarie condizioni di vita, alla partecipazione degli uomini alla guerra, alla ricerca del lavoro. Per questo, ha commentato mons. Daniel Adwok, vescovo ausiliare di Khartoum, "Le priorità pastorali sono la formazione cristiana permanente rivolta alla famiglia: il tipo di vita profuga ha favorito lo sfilacciarsi delle famiglie e la caduta dei valori della famiglia presso i giovani. In secondo luogo c'è il tema della giustizia e della pace, perché occorre educare non soltanto ai diritti ma anche ai doveri rispetto alla famiglia, alla comunità cristiana e alla società. Stiamo provando a fare passare il concetto di responsabilità rispetto sia alla famiglia sia alla società.

Tuttavia si può pensare a programmi di formazione se le comunità hanno un minimo di stabilità sul territorio e quindi esistono in quanto tali. Mentre invece tante delle nostre comunità sono mobili, dipendendo dai luoghi in cui riescono a trovare il lavoro. Così capita ad esempio a molti dei neo-battezzati che vivono in una comunità per pochi mesi e poi si trasferiscono seguendo il lavoro", che i cristiani possono trovare solamente come braccianti stagionali nelle grandi piantagioni del Nord.

Per queste popolazioni che si rifugiano presso i centri cattolici e chiedono di essere battezzate vi è una sorta di atavica diffidenza verso l'islam e la cultura araba, "anche se sanno che diventando musulmani ci potrebbe essere la possibilità di vivere meglio", per una questione di libertà. Ogni anno infatti la diocesi di Khartoum battezza 4-5.000 adulti e altrettanti bambini, che provengono "dalla zona del Blue Nile, dalle montagne Nuba e dal Sud, spesso da zone che non sono state raggiunte né dai missionari, né dal clero indigeno. Molti vengono sapendo che il governo è contrario e, nonostante questo, chiedono di ricevere un'istruzione religiosa cristiana. Noi li chiamiamo la grazia dell'essere sfollati, la displacement Grace".

Tuttavia occorre curare in particolare modo, afferma mons. Adwok, "la formazione permanente e la continuità. Ogni anno infatti perdiamo alcuni di questi neobattezzati". E non tanto perché si convertono all'islam, fenomeno che interessa coloro che mirano alla carriera politica – "politici e i dirigenti pubblici" – o gli studenti costretti dalle ristrettezze economiche; ma perché – un fenomeno apparso solo da qualche anno – passano alle "sette, che attualmente sono numerose e coinvolgono circa mezzo milione di persone. Riteniamo responsabili del finanziamento di queste sette soprattutto gli Stati Uniti: è anche questo un modo di fare indirettamente politica. Anziché favorire l'unione dei cristiani perché assieme ricerchino e trovino un modo comune per confrontarsi col governo, li dividono perché le sette sono fortemente anticattoliche".

Il petrolio come politica

Sul futuro dei cristiani e del Sudan in generale, tutti i vescovi che ho incontrato hanno dato un giudizio pressoché unanime: i paesi arabi continuano il sostegno alla politica d'islamizzazione del paese, favorendo il mantenimento della guerra e l'emigrazione interna ed esterna delle popolazioni indigene o cristiane. Così il fatto che il presidente Omar el Bechir abbia sciolto nel dicembre 1999 il parlamento e nel maggio scorso il principale partito islamico, il National Islamic Front, presieduto dall'ideologo del regime, Hassan el Tourabi, sono per mons. Adwok questioni interne di lotta per il potere, ininfluenti rispetto all'aiuto militare che "comunque" il Sudan riceve da parte dei paesi arabi contro le popolazioni cristiane e il Sud in generale (cf. Regno-att. 16,1998,553).

D'altra parte lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Sud anche da parte di compagnie petrolifere internazionali ha fatto emergere il petrolio come il principale filo conduttore che lega la presenza e la collaborazione militari da parte di paesi che, dopo la caduta della contrapposizioni ideologiche e dopo la guerra in Kwait e il relativo appoggio sudanese all'Iraq, si mostrano nuovamente interessate al paese.

"Lo si vede dal numero di nazioni che hanno stretto rapporti diplomatici con il Sudan e hanno aperto a Khartoum un'ambasciata – afferma mons. Mazzolari. Tutti sono interessati al petrolio e non al conflitto e alle parti in causa. In effetti chi estrae il petrolio non alimenta direttamente la guerra, ma l'interesse economico attorno a essa": così Canada, Cina, Malesia, Italia sono in Sudan con le proprie compagnie petrolifere, con accordi che prevedono ben pochi guadagni da ridistribuire nel paese: infatti "il 40% del petrolio estratto in Sudan è dato alla Cina, il 20% alla Malesia, una certa quota al Canada e solo un 20-30% circa rimane al Sudan. A motivo del petrolio tutti questi paesi inviano contingenti per proteggere i giacimenti che per lo più si trovano nel Sud: la sola Cina avrebbe inviato una forza di circa 25.000 uomini".

Come ha sottolineato con forza il messaggio dei vescovi, "se Cristo venne venduto per trenta denari, il nostro popolo è stato sacrificato per qualche barile di petrolio. Il prolungarsi della guerra aumenterà la frammentazione del Sudan, le divisioni tribali e l'istintiva ricerca individuale di cibo, denaro e sicurezza, e provocherà un ulteriore aumento degli sfollati interni. Presumibilmente questa situazione è sfruttata e perpetuata da coloro che hanno optato per una soluzione militare", cioè il governo islamico di Khartoum.

Potrebbe avere una qualche autorevolezza l'Agenzia intergovernativa per lo sviluppo, la cui Dichiarazione di principio approvata nel 1994 costituisce per i pastori sudanesi l'unica soluzione possibile per il Sudan e "che con la sua mediazione era giunta alla proposta che il sud del Sudan potesse decidere tramite un referendum sulla propria forma di governo e di rapporto con il Nord. Ma anche questo appare essere un tavolo in cui gli interlocutori mutano di posto senza che in realtà cambi nulla. D'altra parte anche lo stesso Esercito per la liberazione del popolo del Sud (SPLA) fa parte di questo gioco. Così come nulla è stato fatto a livello internazionale per modificare questa situazione". Realisticamente, per mons. Adwok, "occorrerebbe la volontà politica della comunità internazionale d'intervenire per sistemare la situazione, mentre per ora anch'essa fa parte del gioco del governo. Pertanto ritengo che attualmente non si giungerà a nessuna soluzione duratura per il popolo del Sudan".

1 Una delegazione di cattolici vescovi sudafricani, guidati dall'arcivescovo di Durban, Wilfred Napier, ha visitato Khartoum e alcune diocesi del Sud dal 20 al 31 marzo scorso. Al termine della visita ha stilato un rapporto nel quale si denunciano le "innumerevoli ingiustizie" che i cristiani sudanesi sono costretti quotidianamente a subire.

2 È il caso dei due sacerdoti arrestati nel luglio 1998, H. Boma e L. Sebit, e rilasciati nel dicembre 1999 assieme ad altre 21 persone: cinque di queste sono morte a seguito delle torture subite in carcere; ma anche di un aspirante missionario messicano in Sudan per un periodo di studio, A. Gonzalez, sequestrato e torturato il 7 luglio scorso dalla polizia segreta e poi rilasciato.

articolo tratto da Il Regno logo

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