Prima di tutto il petrolio
I regimi che praticano un massiccio terrorismo antireligioso entro i propri confini continueranno ad appoggiare il terrorismo mondiale diretto contro gli Stati Uniti. È il monito contenuto in un appello in favore del martoriato Sudan, rivolto al presidente Bush lo scorso 19 novembre da parte dei più noti leader religiosi statunitensi. L’arcivescovo di Newark, John Myers, il rabbino Saperstein del Centro di azione religiosa per l’ebraismo riformato, il presidente dell’Associazione nazionale degli evangelici, Leith Anderson, e molti altri ancora hanno voluto richiamare il presidente degli Stati Uniti a uno sforzo di coerenza rispetto alle posizioni di condanna da lui stesso espresse non più tardi del maggio scorso verso il regime di Khartoum.
Nulla è cambiato
Il comportamento discriminatorio e persecutorio portato avanti a oltranza nei confronti delle popolazioni non islamiche che vivono nel Sud del paese non è per nulla cambiato dopo i tragici fatti dell’11 settembre e l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan. Sta di fatto che la pronta disponibilità a collaborare con gli USA nella lotta al terrorismo internazionale espressa dal presidente sudanese Omar Hassan el Beshir all’indomani del crollo delle Twin Towers sembra avere ammorbidito di molto le posizioni di Washington nei confronti di uno dei paesi tradizionalmente più collusi con le reti terroristiche del fondamentalismo islamico. "Storicamente - si legge in un rapporto datato 28 settembre a cura del Consiglio ecumenico delle Chiese del nuovo Sudan – il governo del Sudan ha avuto un ruolo cruciale nel terrorismo internazionale. Un ruolo che oggi continua e si sta ampliando. (…) Molti terroristi che agiscono in altri stati, sia dentro che fuori la regione, provengono dal Sudan. Molti estremisti guardano al Sudan come a una frontiera dell’espansione islamica. Adesso che, grazie al petrolio, il Sudan possiede risorse finanziarie proprie, il suo ruolo di sostegno e protezione del terrorismo sta aumentando, sia dentro i suoi confini che all’estero".
Il petrolio: è proprio questo uno dei fattori chiave per la comprensione della tragedia sudanese. Su questo punto sono tutti d’accordo: non solo i leader religiosi statunitensi, ma anche l’inviato speciale dell’ONU per il monitoraggio dei diritti umani in Sudan, Gerhart Baum, che lo scorso 10 novembre ha dichiarato davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: "Lo sfruttamento del petrolio continua ad avere un impatto negativo sulla situazione dei diritti umani. Non esiste alcuna prova che i guadagni provenienti dall’estrazione del petrolio vengano investiti per lo sviluppo del Sud, sebbene il 40% del bilancio nazionale sudanese derivi proprio dal petrolio" (che viene estratto prevalentemente negli stati centro-meridionali di El Ouahda, Upper Nile e Bahr el Ghazal).
Il repentino riavvicinamento fra il regime di Khartoum e gli Stati Uniti ha prodotto come effetto la fine delle sanzioni imposte cinque anni fa dall’ONU (anche se, paradossalmente, sono stati proprio gli Stati Uniti gli unici a prorogare di un altro anno le sanzioni unilaterali che dal 1987 vietano agli uomini d’affari statunitensi qualsiasi importazione o altra attività economica con il Sudan). Un altro effetto della rinnovata attenzione di Bush verso il paese africano è stato l’invio di una missione esplorativa guidata da John Danforth, che per quattro giorni, a partire dal 13 novembre, ha incontrato i rappresentanti del governo e dei ribelli del SPLA (Esercito popolare di liberazione del Sudan), che dal 1983 combattono nel Sud del paese contro il regime di Khartoum.
Ebbene, neanche a farlo apposta, l’unico risultato consistente della missione statunitense è stata la proposta di un cessate il fuoco proprio nelle zone dei giacimenti petroliferi adiacenti ai monti Nuba, in cui opera, tra gli altri, il consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company, formato da aziende cinesi, malesi e sudanesi (la canadese Talisman Energy è stata costretta a ritirarsi dal consorzio lo scorso mese di ottobre, per via di una pressante campagna condotta da varie associazioni per i diritti umani).
È però assai improbabile che lo SPLA accetti una tregua del genere, visto che la sua strategia è proprio quella di attaccare gli impianti petroliferi della regione per paralizzare il business dell’oro nero che, secondo i ribelli, ha provocato danni e sofferenze immani alle popolazioni residenti (costrette a sloggiare dalle aree interessate con metodi brutali, degni di una vera e propria pulizia etnica), continuando a foraggiare con i suoi proventi miliardari il regime di Khartoum. Le altre compagnie attualmente impegnate nello sfruttamento del petrolio sudanese sono la Lundin Oil Ab (Svezia-Svizzera), la Omv Aktiengesellschaft (Austria), la Petronas (Malaysia) e la China National Petroleum Company (Cina). In Sudan sono impegnate anche le multinazionali Total-Elf-Fina, che possiedono 120.000 km2 di concessioni nel Sudan meridionale, la Exxon-Mobil e la Royal Dutch/Shell.
Porre fine alle violenze
Durante la loro ultima assemblea plenaria, tenutasi all’inizio di novembre (cf. in questo numero a p. 000), anche i vescovi francesi hanno messo in guardia gli imprenditori occidentali dal "divenire complici nelle ingiustizie" che nascono dalla spregiudicatezza dell’affarismo economico, mentre lo scorso gennaio gli stessi vescovi avevano sollecitato il governo francese a evitare atteggiamenti di fiancheggiamento e complicità con regimi africani autoritari e corrotti.
Simili prese di posizione, che tendono a smascherare l’ipocrisia degli schieramenti politici internazionali e delle scelte dell’alta finanza, non possono che confortare le Chiese sudanesi, silenziose testimoni del genocidio di un popolo (le vittime di 18 anni di conflitto sono stimate fra i 2 e i 3 milioni, mentre si parla di 4-5 milioni tra sfollati e rifugiati). Lo scorso agosto, al termine di un seminario sul tema "Orientamento pastorale e azione comune in una situazione di crisi", i vescovi cattolici ed episcopaliani avevano firmato un appello congiunto in cui denunciavano per l’ennesima volta "l’atroce sofferenza umana che regna sia nel Nord che nel Sud del paese", chiedendo la fine immediata della guerra e della violenza. In quel testo, i vescovi proponevano alcune riflessioni e spunti per l’avvio di un "programma concreto di azione", rimasto per ora sulla carta, fondato sul rispetto della libertà religiosa per tutti, minoranze comprese, sul diritto all’autodeterminazione e su un cessate il fuoco generalizzato sotto il controllo internazionale. "L’unità del paese e la pace nella giustizia non possono essere raggiunte sotto il regime della sharia (…). Ci appelliamo invece alla libertà religiosa di tutti i gruppi e alla separazione tra religione e stato" scrivevano i presuli, invocando la "cooperazione dei paesi vicini, delle organizzazioni internazionali (…) e il coinvolgimento costruttivo della società civile, in particolare delle comunità religiose". Le Chiese sono disposte a "promuovere un vero dialogo tra cristiani e musulmani, soprattutto a livello della comunità locale", ma occorre prima di tutto "fermare lo sfruttamento del petrolio fino al raggiungimento della pace. La sua ricerca alimenta la guerra, sradica le popolazioni civili e rafforza lo squilibrio esistente nella ripartizione delle ricchezze".
Ma le ragioni dell’oro nero, almeno per il momento, sembrano prevalere su ogni ragionevolezza.