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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Maria Elisabetta Gandolfi

Alla fine della paura

"Il Regno" n. 4 del 2004

I vescovi, la nuova costituzione e il processo di pace a rischio


La pace sembra aver preso casa nel nostro paese… Essa però è preziosa e fragile allo stesso tempo e necessita di essere accolta, coltivata e rafforzata. Con queste parole piene di speranza si è conclusa l’assemblea straordinaria della Conferenza episcopale sudanese che si è riunita a Nairobi (Kenya) per discutere del processo di pace.

In questo nuovo corso, la comunità ecclesiale chiede di avere un ruolo attivo. «La Chiesa e lo stato e tutti gli uomini di buona volontà devono assieme mettere fine all’illegalità, alla criminalità e all’anarchia se vogliamo una pace durevole per il Sudan». I vescovi inoltre chiedono di partecipare «alla stesura della nuova Costituzione», nonché di poter essere coinvolti nel ripristino dei servizi essenziali alle persone, quali «scuola, sanità e assistenza umanitaria, soprattutto per i più deboli ed emarginati», riferendosi a quell’enorme massa di rifugiati e sfollati che la ventennale guerra sudanese ha portato lontano dalle proprie terre e che tornandovi rischia di trovare solo miseria e distruzione.

Infine, dicono i vescovi, non ci si deve illudere: «Nessuna soluzione potrà essere trovata ai gravi problemi che affliggono i paesi se non si prende una decisione che vada oltre la semplice logica della giustizia e apra a quella del perdono».

Un conflitto storico
Il 17 febbraio inizierà l’ultima serie dei colloqui del processo di pace: negli ultimi 18 mesi sono stati raggiunti alcuni accordi che, se troveranno adeguata realizzazione e appoggio a livello internazionale, saranno in grado di mettere la parola fine a una guerra che è costata la vita a due milioni di persone.

Secondo un recente rapporto dell’IRIN1 la pace sarà possibile e diventerà un processo reale se riuscirà a toccare tutti quegli snodi problematici rimasti irrisolti sin dall’era coloniale. È almeno dal 1956, infatti, che le forti contraddizioni sociali hanno creato il clima favorevole allo scontro: a quell’epoca gli inglesi e gli egiziani avevano strutturato un paese nettamente diviso tra un Nord arabo, in cui era concentrata la maggior parte delle risorse e dei centri decisionali, e un Sud cristiano e animista lasciato nella povertà che coltivava sentimenti di rivalsa.

In questo modo il conflitto è stato sempre una costante della storia sudanese, alleviato solo da una prima e più lunga interruzione di 11 anni – dal 1972 al 1983 – dove alla pace venne associata la concessione al Sud di una limitata autonomia. Ma quando Nimeiri sciolse il governo regionale e impose la sharia a livello nazionale, il Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A) riprese le armi.

Il governo di Nimeiri venne rovesciato a sua volta da un colpo di stato guidato dal gen. Siwar al-Dhahab, il quale sciolse il partito di governo Sudanese Socialist Union e aprì la strada al ritorno di un governo civile indicendo le elezioni nel 1986. Da esse salì al potere Sadiq al-Mahdi, leader dell’Ummah Party, a sua volta deposto da un altro colpo di stato per mano del gen. Hassan el-Bechir, attuale presidente sudanese.

Per trovare una soluzione alla lunga crisi, nel 1995 venne affidato all’Inter-Governmental Authority on Development (IGAD) – un organismo cui partecipano gli stati affacciati sul bacino del Nilo: Sudan, Etiopia, Eritrea, Kenya e Uganda – il compito di tentare una mediazione di un conflitto che aveva diramazioni regionali.2 I tentativi dell’IGAD sono stati infruttuosi fino al 2002. Nel luglio di quell’anno, infatti, sono stati firmati i protocolli di Machakos (Kenya) grazie anche al lavoro compiuto dal generale keniota Lazarus Sumbeiywo che presiedeva la sessione, ma soprattutto al fatto che i due contendenti – governo del Nord e SPLM/A – sono giunti a riconoscere come attuabili le istanze della parte avversa: il referendum per l’autodeterminazione per il Sud e l’applicazione della sharia nelle zone del Nord.

Nell’ottobre 2002 è stata firmata una dichiarazione d’intenti che garantiva la cessazione delle ostilità durante il negoziato e un accordo di massima su importanti questioni: la sicurezza nel periodo di interim, con forze comuni in alcune aree, e la condivisione dei profitti petroliferi, divisi equamente tra Nord e Sud tramite l’istituzione di un doppio sistema bancario.

I colloqui tuttavia hanno lasciato irrisolte alcune questioni, come ad esempio lo statuto di tre regioni – quella del Nilo blu meridionale, quella dei monti Nuba e quella di Abey – che pur essendo geograficamente del Nord hanno popolazioni che si riconoscono nel Sud. La più spinosa da regolare è quella relativa alla regione di Abey essendo questa molto ricca di riserve petrolifere e di pascoli.

La crisi umanitaria
Qualsiasi accordo dovrà comunque fare i conti con la difficile situazione umanitaria del paese, che non si risolverà semplicemente firmando la pace. I rifugiati e gli sfollati sono sull’ordine del milione e quand’anche decidessero di tornare alle proprie terre troverebbero una situazione di distruzione e di abbandono. In particolare il Sud necessita di un massiccio programma di ricostruzione delle infrastrutture, di attivazione dei servizi di base e di rieducazione di generazioni nate e cresciute durante la guerra.

Alcuni osservatori notano poi che la produzione corrente di petrolio (250.000 barili al giorno), i cui profitti saranno divisi tra Nord e Sud, sarà insufficiente per la ricostruzione della parte meridionale, per la quale saranno necessari diversi altri miliardi di dollari.

Inoltre il Sudan porta il peso anche di rifugiati provenienti da conflitti della regione: è il caso dei 320.000 rifugiati eritrei, i quali non potranno tornare in patria finché Sudan ed Eritrea non riapriranno i rispettivi confini, chiusi a motivo delle tensioni tra i due paesi (l’Eritrea è accusata dal governo di Khartoum di ospitare l’opposizione sudanese). Inoltre altri 5.000 rifugiati sono arrivati nella regione del Nilo superiore per fuggire al conflitto tra Eritrea ed Etiopia scoppiato nella regione di Gambella agli inizi del 2004.

E mentre andavano in porto gli accordi di pace, scoppiava un ulteriore focolaio di guerra nella regione occidentale del Sudan, il Darfur, che ha provocato la morte di 3.000 persone e ne ha costretto almeno 670.000 alla fuga; 100.000 si sono rifugiate in Ciad, dove vivono in condizioni miserevoli e dove hanno subito i bombardamenti dell’esercito governativo sudanese. Il governo del Ciad ha tentato una mediazione tra il Sudan e i due gruppi insorti, noti come Sudan Liberation Army e Justice and Equality Movement, ma è sospettato di essere d’accordo con Khartoum.

Partecipazione e democrazia
La questione del Darfur necessita una rapida soluzione prima che la frattura Nord/Sud si trasformi in frattura Est/Ovest. La radice più profonda di quest’ultimo conflitto sta infatti nella crisi di rappresentatività dello SPLM/A, in quanto non rappresentativo di tutte le realtà politico-militari che si oppongono al governo di Khartoum, ma più che altro emblema del Sud. Secondo l’International Crisis Group di Bruxelles,3 «la mancanza di una significativa partecipazione di gruppi dell’opposizione può indebolire l’intera struttura» e delegittimare l’intero processo di pace.

Il Sudan Liberation Army del Darfur ma anche gruppi locali presenti nella parte orientale come il Beja Congress (che ha il suo quartiere generale in Eritrea), i Rash’idah Free Lions e le Fatah Forces hanno poche centinaia di combattenti ciascuna ma a fronte di un’inferiorità numerica possiedono una perfetta conoscenza del terreno e godono dell’appoggio delle comunità locali e costituiscono una sfida militare significativa anche per lo SPLM/A.

Inoltre quest’ultimo rischia di vedersi delegittimato anche dall’opposizione politica del Nord, nella quale ha un peso di maggioranza il Democratic Unionist Party.

Per avere successo, quindi lo SPLM/A deve affrontare il nucleo politico dell’alleanza anti-Khartoum: tutte le forze che si oppongono al governo fanno parte del più ampio ombrello della National Democratic Alliance (NDA) e vogliono un accesso diretto ai negoziati, non essendo disponibili a farsi rappresentare dal solo SPLM/A, anch’esso membro al pari degli altri dell’alleanza.

Nell’accordo di Jiddah del dicembre scorso, dove si è trattato della condivisione del potere tra l’attuale governo e la NDA, gli osservatori hanno notato come fatto positivo l’aver previsto il coinvolgimento dell’intera NDA nei processi di riforma politica.

Una questione internazionale
Il processo di pace sudanese non è una questione isolata. Il più grande paese africano confina con nove nazioni, la maggior parte delle quali subirà un impatto positivo o negativo a seconda del suo esito. Sono in molti ad auspicare una pace che dia stabilità a una regione caratterizzata da equilibri fortemente volatili. Ma potrebbe non essere così.

L’Egitto, che protegge gelosamente la sua posizione di avanguardia sul Nilo, si oppone a un Sudan diviso che significherebbe un nuovo stato sul fiume. I ribelli dell’Uganda del Nord (i seguaci del sanguinario Joseph Kony del Lord Resistance Army, che sta mettendo a ferro e fuoco la regione proprio in questi giorni) rischiano di perdere l’appoggio di Khartoum.

Stanno poi emergendo gruppi subregionali al di fuori dell’egida dell’IGAD. Etiopia, Sudan e Yemen hanno formato un’alleanza strategica lungo lo stretto di Bab el-Mandab con lo scopo di allargare la cooperazione nella regione e facilitare gli scambi. Ma l’Eritrea, che ha contenziosi aperti con tutti e tre gli stati e i cui confini con il Sudan e l’Etiopia sono chiusi, chiama questa un «asse di belligeranza». Gli altri tre negano e invitano il paese a prendere parte al proprio gruppo. L’Eritrea, inoltre, che dà ospitalità ai gruppi dell’opposizione sudanese, ha accusato Khartoum di appoggiare gli estremisti dell’Eritrean Islamic Jihad Movement (EIJM) che ha condotto attacchi al paese a partire dal territorio sudanese. Khartoum nega.

Infine, come la spinta più significativa verso la pace è venuta dal deciso coinvolgimento di forze internazionali occidentali, in primis degli Stati Uniti, perché questa delicata fase possa essere superata occorre un supplemento d’impegno politico e finanziario da parte dei paesi donatori. Da un lato sostenendo un negoziato unico tra Ciad, Khartoum e IGAD, dall’altro rendendo viabili le principali disposizioni degli accordi di pace, quali la questione delle forze militari e della sicurezza, i meccanismi di condivisione del potere e della ricchezza, la tenuta di elezioni, il referendum, nonché la ricostruzione del Sud.

1 Sudan: Background to the Peace Process, 12.2.2004. L’Integrated Regional Information Networks (IRIN) è una rete informativa nata nel 1994 sulla scorta della grave crisi dei Grandi Laghi, che fa parte dell’Ufficio per il coordinamento delle questioni umanitarie dell’ONU. La sua missione è far sì che la circolazione delle informazioni, prevalentemente sul web e con l’invio di e-mail, sia tale da poter fornire l’aiuto necessario per gli operatori umanitari che si trovano a intervenire in una situazione di emergenza.

2 L’Inter-governmental Authority on Drought and Development (IGADD) è un organismo nato nel 1986 con un mandato limitato alla questione della gestione delle acque del bacino del Nilo e al problema della progressiva desertificazione della regione. Ma a partire dagli anni ’90 il suo mandato è via via slittato verso questioni regionali più ampie, quali la sicurezza e la politica, fino ad arrivare a configurarsi come organismo regionale vero e proprio, al pari del SADC e dell’ECOWAS. Puntando allo sviluppo economico e commerciale della regione, senza trascurare la questione della sicurezza, l’IGADD si è trasformato nel 1996 nell’IGAD (Inter-governmental Authority on Development) come sezione Nord del COMESA (la sezione Sud è il SADC) e il suo statuto prevede aree di cooperazione sulla prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti e questioni umanitarie correlate; sviluppo delle infrastrutture; sicurezza alimentare e protezione ambientale.

3 L’International Crisis Group è un’organizzazione indipendente non-profit, che comprende più di 90 membri provenienti da ogni parte del mondo e compie ricerche sul campo per fornire indirizzi di politica internazionale in grado di prevenire e risolvere i conflitti. Sulla base delle informazioni raccolte sul campo, l’organizzazione pubblica periodici rapporti analitici che contengono raccomandazioni pratiche per i decisori di politica internazionale. È presieduta dall’ex presidente finlandese Martti Ahtisaari.


articolo tratto da Il Regno logo

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