Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Maria Elisabetta Gandolfi

Quando una pace non basta

"Il Regno" n. 12 del 2004

I cristiani e l’uscita dalla guerra civile


Il 26 maggio scorso, in tarda serata, al termine di un’estenuante trattativa durata un anno e mezzo, è stato firmato lo storico accordo che dovrebbe porre fine al conflitto che da quasi cinquant’anni attanaglia il Sudan, il più grande degli stati africani (cf. Regno-att. 4,2004,121).

Fino all’ultimo il segretario di stato statunitense, Colin Powell, si è tenuto in contatto con i negoziatori per chiarire i tanti problemi che ancora erano irrisolti, assieme ai mediatori forniti dal Kenya, dalla Gran Bretagna, dall’Italia e dalla Norvegia. L’accordo di Naivasha (dalla località kenyota dove è stato firmato) prevede a grandi linee la condivisione del potere e dei proventi petroliferi, un futuro referendum per il Sud e l’applicazione della sharia, la legge islamica, al Nord.

Per quanto riguarda la gestione del potere: verrà istituito un governo di unità nazionale per un periodo di sei anni e mezzo, a metà del quale sono previste libere elezioni e alla fine del quale sarà indetto il referendum nel Sud.

Il presidente sarà di Khartoum, mentre il primo vicepresidente verrà dalle file dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan – ma privo di poteri in caso di assenza del presidente –, il secondo sarà in rappresentanza del Nord. Le cariche governative e parlamentari saranno distribuite in ragione del 70% al Nord e del 30% al Sud, mentre il ruolo di governatore delle regioni speciali (Monti Nuba, Ayel, regione del Nilo blu) andrà a un rappresentante del Sud; tuttavia il 60% delle altre cariche spetterà a politici di Khartoum. L’esercito rimarrà separato nelle due zone, ma verrà creata una forza militare congiunta per le aree maggiormente strategiche.

I proventi petroliferi saranno poi divisi al 50% tra Nord e Sud: si ritiene infatti che il Sudan possa incassare dal petrolio 2 miliardi di dollari all’anno, a fronte di un’estrazione giornaliera di 250.000 barili. Ma a chi andranno e come saranno gestiti tali guadagni? Ancora si deve decidere.

Quanto alla questione dell’autodeterminazione del Sud, esso potrà decidere se rimanere all’interno di uno stato federale o se rendersi autonomo. Un importante interrogativo tuttavia non è ancora stato sciolto: poiché la maggior parte dei pozzi petroliferi si trova nel Sud, che ne sarà dell’accordo se il Sud deciderà effettivamente di staccarsi?

Infine l’applicazione della sharia, la legge islamica: poiché molti cristiani e non musulmani per sfuggire alla guerra nel Sud si sono trasferiti al Nord, e in particolare nella capitale Khartoum, si è deciso che durante i sei anni di transizione la sharia sarà applicata con misure di garanzia e di esenzione per i non musulmani per quanto riguarda le pene più forti, come l’amputazione e la lapidazione.

Memorie di sofferenza
La soddisfazione per la firma della pace è percepibile nel paese, specialmente nel Sud, dove s’incomincia una nuova vita, dove è possibile stare di giorno all’aperto, dove non bisogna scappare dai raid aerei, si può seminare e mettere mano alla ricostruzione delle case. Molti rifugiati sono tornati anche prima della firma, formando lunghe colonne dirette al Sud che attraversano i grandi spazi desertici di notte, per ripararsi dalla calura e non consumare in fretta le risorse d’acqua.

Rimane l’interrogativo sull’effettiva tenuta della pace. Lo stesso arcivescovo di Khartoum, il card. Gabriel Zubeir Wako, nel messaggio rivolto ai sudanesi all’indomani della storica firma è stato molto prudente. «Consapevole di quanto possano essere difficili gli ulteriori passi verso una vera pace, rivolgo questo appello a tutti voi, cristiani, e a tutto il popolo sudanese: abbiamo deciso di uscire dalla guerra in direzione della pace», ha dichiarato il cardinale.

Innanzitutto occorre «che i protocolli di pace siano trasformati in un preciso accordo di pace»; inoltre occorrerà coinvolgere nei contenuti degli accordi tutta l’opposizione al governo di Khartoum, visto che «non tutti i sudanesi erano presenti alla firma dei protocolli di pace». Ci si riferisce qui al fatto che solo John Garang, leader dello SPLA, ha firmato come controparte del vicepresidente sudanese Osman Taha, escludendo molti movimenti politici (sono almeno 36 i gruppi politico-militari nel Sud), la società civile e altri gruppi, in particolare l’opposizione più moderata.

Una pace che si configura come una spartizione di petroldollari non solo tra i due principali belligeranti, ma tra due dittatori – poiché anche per lo SPLA la democrazia è un concetto poco praticato –, è una pace incerta.

Inoltre un punto cruciale che verificherà la tenuta degli accordi, afferma Zubeir, sarà quella della guarigione delle memorie, piene di «sofferenza, di lutti, di preoccupazioni (…) crudeltà, oppressione e sofferenze ingiustamente inflitte». «È venuto il momento della pace. Non dobbiamo dimenticare la guerra, ma ricordare i danni che essa ha provocato a noi e al paese, la crisi di ogni autorità, la rottura dell’ordine; è stato un tempo senza legge persino per coloro che hanno affermato di voler difendere la legge, con molto sangue versato, soprattutto dei più innocenti». E non si può dimenticare che non tutto il paese è attualmente pacificato: nella regione occidentale del Darfur, infatti, le conseguenze di un nuovo conflitto – solo apparentemente locale – stanno provocando un vero e proprio disastro umanitario.

I civili come bersaglio
La pragmatica decisione del governo sudanese di arrivare alla firma degli accordi si è basata su due pilastri: una guerra ormai in stallo e le sanzioni minacciate dagli USA, che avrebbero danneggiato pesantemente l’economia e soprattutto messo a rischio la presenza delle compagnie petrolifere straniere, ora non più disposte a pagare gli eserciti privati addetti alla sicurezza degli impianti estrattivi.

La certezza di raggiungere questo obbiettivo a costi contenuti si è incrinata quando nel febbraio 2003 un nuovo gruppo militare, l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA) ha fatto la sua comparsa nel Darfur e ha ottenuto una serie di vittorie contro i soldati governativi. La principale rivendicazione dello SLA era quella di voler partecipare alla spartizione dei proventi petroliferi che in base agli accordi stabiliti dai negoziati sarebbero spettati solo al governo e alla formazione di Garang.

Qualche tempo dopo, sulla scia delle prime vittorie dello SLA, è apparsa una seconda formazione militare, chiamata Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM). Il governo di Khartoum si è sentito quindi vulnerabile, immaginando che il successo di questi ribelli potesse dare ispirazione ad altri gruppi del Nord e dell’Est emarginati dal negoziato. Occorreva un’azione esemplare; decise quindi di punire non solo le due formazioni militari, ma in modo particolare la popolazione da cui provenivano.

Il Darfur è stato da generazioni teatro di sporadici scontri tra la popolazione musulmana e nera dedita all’agricoltura e i gruppi, anch’essi musulmani ma arabi, di pastori nomadi a motivo dei pascoli e delle scarse fonti d’acqua. Così Khartoum ha armato le milizie arabe, dette janjawid (cavalieri armati), ha scarcerato numerosi criminali arabi e ha dato loro un cavallo, 100 dollari e la licenza di uccidere assieme ai janjawid.

Mese dopo mese, lo schema applicato è stato il medesimo, per altro già visto nel conflitto Nord-Sud: incursioni di aerei militari sudanesi, arrivo dei janjawid a cavallo, uccisione di tutti i maschi che avrebbero potuto unirsi alle due formazioni ribelli, stupro delle donne che avrebbero potuto rifornirli, violenza sugli anziani rimasti, furto degli animali e di ogni suppellettile, incendio dei villaggi. Dal febbraio 2003 i morti sono stimati 10.000 ma altri 300.000 potrebbero morire nei prossimi 3 mesi per la fame e le malattie che la stagione delle piogge rischia di diffondere rapidamente.

Nella regione un abitante su sei non ha più casa. Metà dei rifugiati vive nei campi profughi del Ciad; l’altra metà è prigioniera nei campi profughi che si snodano sul confine tra Sudan e Ciad, assediata dai janjawid, che impediscono ai profughi di uscire e alle organizzazioni umanitarie di entrare.

La situazione in Ciad però è precaria: la Caritas del paese ha dichiarato che può aiutare solo il 10% dei rifugiati; la popolazione locale è anch’essa povera, per quanto stia accogliendo generosamente i profughi. Così l’arcivescovo della capitale del Ciad N’Djamena, mons. Matthias Ngarteri, ha fatto appello alla solidarietà internazionale perché non si verifichi un disastro umanitario e perché i capi delle nazioni facciano pressione sul Sudan per una soluzione politica al conflitto.

La macchina degli aiuti
La comunità internazionale ha saputo con molto ritardo di questa disumana tragedia, anche perché gli stessi Stati Uniti e l’ONU erano preoccupati che una pressione su questo fronte mettesse in forse il negoziato ancora in corso. Si pensava al solito conflitto regionale.

Il coordinatore ONU per il Sudan, Mukesh Kapila, è stato il primo che ha suonato il campanello d’allarme, definendo lo scorso marzo la situazione in Darfur «la più grande catastrofe mondiale sul piano umanitario e per i diritti dell’uomo» e paragonandola – forse con qualche enfasi – al genocidio ruandese del 1994. Qualcuno ha criticato quest’uso indiscriminato del termine genocidio; tuttavia l’attenzione dell’Occidente è stata risvegliata, se non altro facendo riemergere la cattiva coscienza per l’inazione ai tempi del caso ruandese. Jan Egeland, il sottosegretario per le questioni umanitarie dell’ONU, ha detto che ciò che sta avvenendo in Darfur «è una pulizia etnica, non un genocidio», espressione ripresa anche dal segretario generale dell’ONU, Kofi Annan.

Tutto ciò ha spinto Washington a chiedere al governo sudanese di porre fine allo sterminio della popolazione e a portare le parti a un tavolo negoziale a N’Djamena l’8 aprile, dove è stato firmato un cessate il fuoco per consentire alle agenzie umanitarie di raggiungere i profughi. I combattimenti sono tuttavia proseguiti e il governo sudanese, per parte sua, ha rallentato l’arrivo dei volontari con motivazioni burocratiche legate ai visti.

Gli aiuti arrivati – derrate alimentari e attrezzature da campo – si stanno esaurendo e la stessa missione ONU è a corto di denaro. Negli ultimi tempi a motivo della mancanza di denaro da parte del’ONU vi è stato uno sciopero degli autisti locali e – secondo fonti dell’Economist (13.5.2004) – 10.000 rifugiati arrivati a Bahai, vicino a Tiné, sono stati congedati come «combattenti»: sono donne, bambini e anziani. Se infatti fossero stati classificati come «rifugiati» l’ONU sarebbe stata obbligata a prendersi cura anche di loro. Ma non ha risorse, mancano almeno 96 milioni di dollari. E per di più, per ammissione dello stesso Egeland, gli aiuti umanitari mancano di un’efficace azione di coordinamento, oltre al fatto di essere giunti in ritardo.

La crisi, «una montatura occidentale»
Allo stato attuale, il conflitto del Darfur non lascia intravedere vittorie militari di una forza sull’altra: Khartoum, poi, anche se volesse, oggi difficilmente potrebbe riuscire a disarmare i janjawid e tutti i delinquenti che li spalleggiano, dopo che con tanta facilità li ha armati. Essa piuttosto conta sul fatto che al momento attuale il mondo sia più concentrato sull’Iraq che sul Darfur.

Per questo l’International crisis group, gruppo di esperti di politica internazionale con sede a Bruxelles, chiede che venga approvata in tempi brevi una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che preveda l’intervento militare di un contingente internazionale nel caso in cui il governo sudanese non rispetti un embargo delle armi, e non si adoperi per una cessazione delle ostilità.

Il 20 aprile vi è stato un secondo accordo per il Darfur in base al quale dal 2 giugno 120 osservatori, forniti in parte dalla stessa Unione africana, dall’Unione Europea, da Khartoum e dalla guerriglia, dovrebbero controllare l’effettiva attuazione del cessate il fuoco: un numero inadeguato per controllare un territorio grande come la Francia.

Di nuovo ai primi di giugno il governo sudanese bloccava l’entrata nel paese agli operatori umanitari e rallentava ulteriormente il loro intervento, ponendo come condizione che tutti i farmaci in entrata in Sudan venissero testati in laboratori sudanesi, e che le derrate alimentari venissero trasportate su camion sudanesi e distribuite da ONG sudanesi o da agenzie governative. Aiutare la popolazione significherebbe aiutare i ribelli.

Di fronte al vertice dei G8 che chiedeva al governo sudanese di risolvere la questione del Darfur, il ministro degli esteri sudanese Mustafa Osman Ismail ha detto che la crisi umanitaria «è un affare montato dall’Occidente… Il Sudan non nega che vi siano problemi nel Darfur, ma vi sono gruppi che vogliono esagerare la situazione».

D’altra parte – gli ha fatto eco l’ambasciatore sudanese presso l’ONU El-Fatik M. A. Erwa – «la guerra è la guerra. Forse in alcuni stati moderni li chiamate danni collaterali, ma si tratta di guerra».


articolo tratto da Il Regno logo


Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)