Più europea e più asiatica
Tra i paesi di media potenza, con geopolitiche particolarmente delicate, la Turchia vanta certamente una notevole tradizione di destrezza politica, considerando tale l’arte di sfruttare al massimo il momento opportuno ricavandone il massimo di profitto.1
Possiamo ricavare alcuni tratti caratteristici della politica turca: a) lettura appropriata del contesto di area e dello scenario internazionale; b) consapevolezza della propria collocazione in ambedue i contesti; c) sagace flessibilità nel costruire e allentare le alleanze; d) giusta valutazione dell’avversario nonostante l’esuberante retorica e caricatura a uso e consumo popolare; e) grande tempismo nel cogliere le opportunità.
Tra i fattori che in qualche modo potrebbero spiegare una tale tradizione è forse da ritenere pure il fatto, non privo di significato, di una trasmissione ininterrotta del potere su quel suolo, il cui inizio risale effettivamente a quando Costantino fece di Bisanzio la sua nuova capitale. Da allora la Costantinopoli romana e la Konstantaniyye ottomana ressero le sorti di tanta parte della nostra oikumene e chi, nel 1923, a essa preferì Ankara quale epicentro del potere, veniva certamente dalle migliori tradizioni diplomatiche e militari del morente impero.
A titolo esemplificativo possiamo citare l’annessione di una parte di Cipro o, meglio, la «spartizione» (taksim) dell’isola fu una costante delle ambizioni turche e il sogno dell’immaginario politico sin dalle prime recrudescenze della questione negli anni cinquanta, come l’enosis fu a sua volta la parola d’ordine delle ambizioni greche incarnate da Macarios. Il processo storico sembrava percorrere un itinerario tale come se la politica paziente e tenace di quest’ultimo lo portassero sempre più vicino ai propri obiettivi, finché l’impazienza e la politica inconsulta dei colonnelli greci non fecero precipitare la situazione destituendo proprio lui, Macario, il proprio eroe. Al tempismo turco bastarono venti giorni per capovolgere una situazione maturatasi in più di vent’anni. La strategia turca, che non perdona le gaffe, aspettava da anni una distrazione greca. E trovò pure l’ombrello giuridico per coprire l’intervento militare, nella veste di garante della Turchia per lo statu quo dell’isola. Per quanto l’operazione Cipro abbia oberato l’economia turca di un fardello assai pesante, questo era senza dubbio compensato, e ampiamente - nell’ottica turca -, da fattori strategico-politici.
Un problema imprescindibile: i curdi
Tanto gli eventi di Cipro quanto alcuni degli altri summenzionati pongono certamente una serie di questioni di diritto e di ordine di etica politica, che sono all’origine degli apprezzamenti discordi cui abbiamo accennato. Benché la discussione di tale ordine di problemi esuli dai propositi della presente trattazione, essenzialmente analitica, ve ne è tuttavia uno, attualissimo, da cui è impossibile prescindere, pena sorvolare interamente la questione e gli eventi: il problema curdo.
Non si tratta di un problema nuovo. Si protrae da decenni. Ha conosciuto però negli ultimi anni un crescendo di recrudescenza, pari a quella delle fasi più calde delle lotte curde negli anni trenta, soffocato allora nella repressione più implacabile. Fino a pochi anni fa, parlare in Turchia di «curdo» in senso etnico poteva costituire un atto rischioso quale implicita minaccia all’unità nazionale e all’integrità territoriale del paese. La Turchia, erede dello stato ottomano (il che non significa identità, ma neppure totale discontinuità), adottò verso i curdi la stessa linea d’intransigenza praticata dall’impero in agonia verso gli armeni, salvo la differenza di non giungere, coi curdi, a una soluzione radicale: la totale pulizia etnica del territorio.
Sotto la presidenza di Turgut Özal (lui stesso ritenuto di origine curda) ci fu un iniziale, sebbene assai timido, ammorbidimento nella politica interna verso i curdi, riconoscendone il diritto a parlare la propria lingua. Ma come insegna la storia delle lotte di liberazione, simili ammorbidimenti quando arrivano in ritardo spesso non mancano di fungere a loro volta da detonatori, mentre le soluzioni alternative sono sostanzialmente riconducibili a tre tipologie: a) una linea morbida prima che sia troppo tardi (cf. la politica italiana nel Sud Tirolo); b) una soluzione radicale (cf. lo sterminio degli armeni, dei biafresi, ecc.); c) la vittoria degli insorti (cf. le tante lotte anticolonialiste).
A parer mio, nel caso specifico dei curdi in Turchia si è già superata l’ora (forse lo era da tempo) per le mezze soluzioni. Pare che ormai sia tutto destinato a essere giocato tra la totale repressione o una vittoria dei curdi. Indizi in tal senso sono, oltre i violentissimi combattimenti e gli attentati quotidiani, il crescente irrigidimento del governo turco, dopo i timidi ammorbidimenti di Özal, con le presi di posizione, durissime, dell’attuale primo ministro, sig.a Tansu Giller. Prese di posizione confermate di fatti, nonostante la presenza alla presidenza della repubblica di un personaggio come Suleyman Demirel e agli esteri di Hikmet Getin, personalità che non figurano certamente tra i «falchi» dell’attuale quadro politico turco. Infatti, gli approcci del primo ministro al problema curdo sono stati in genere dichiarazioni di guerra quasi a tutto campo, «contro i ribelli e i terroristi» (classica, l’equiparazione). La Giller è giunta persino a negare l’esistenza in Turchia di una minoranza curda con un uso ipertrofico, apparentemente liberale, del concetto di «cittadino», per cui tutti i cittadini sono turchi e, quindi, nient’altro.
La capacità di comprendere le situazioni e il tempismo che abbiamo visti così caratteristici della politica estera turca, non lo sembrano altrettanto di quella interna. Ciò trova, almeno in parte, la sua spiegazione nel fatto che la politica turca, nel successo come nel pasticcio, è in fondo una politica ereditata da un impero. E certo, uno dei maggiori rischi che tanti imperi hanno corso (da ultimo l’Unione Sovietica), senza brillare per la capacità di capirli, sono state le implosioni interne, soprattutto quelle a sfondo etnico. La politica turca non offre particolari segnali di aver afferrato in tempo debito la questione curda nella due dinamiche interne.
Per il momento, la politica curda della Turchia pare oscillare tra le prospettive (che possono anche aiutarsi a vicenda) o di una qualche soluzione radicale, non assente almeno tendenzialmente dall’orizzonte delle eventualità della strategia globale, o di un sostegno dalla politica estera, cercando di sfruttare al massimo la divisione dei curdi tra tre stati: Turchia, Iran, Iraq. Questi, pur discordi nei loro interessi di politica estera, possono convergere nella lotta anticurda. L’ormai annoso accordo con l’Iraq per i raids aerei e per la penetrazione dell’esercito turco nel territorio iracheno, e le recentissime offerte del ramo d’olivo a Saddam, dopo averlo il più decisamente osteggiato a fianco degli americani nella guerra del Golfo, ne sono conferme eclatanti.
Nel dopo Unione Sovietica
I problemi nodali riguardanti la Turchia conseguentemente alla caduta dell’Unione Sovietica possono essere ricondotti ai seguenti due quesiti fondamentali: a) quale il nuovo ruolo della Turchia nell’ambito dell’alleanza occidentale? In altri e più semplici termini, continuerà la Turchia a fungere da frontiera medio-orientale per l’occidente e in particolare per gli Stati Uniti? b) quale il nuovo ruolo della Turchia rispetto alle popolazioni e agli stati di ceppo turcico fino all’Asia centrale, verso i quali, forse eccezion fatta per il Khazakistan, potrebbe essa assumere una posizione di leadership? Ambedue le questioni possono e devono essere considerate da più angolature le quali sono, in primo luogo, quelle della Turchia e quelle dei termini di riferimento. Ci accontenteremo qui di farne solo alcune.
Anzitutto non sembra probabile, per più di un motivo, che la Turchia, in un prossimo futuro, ambisca a una leadership del mondo islamico (l’affermazione si riferisce al livello della politica statale, non a quello dell’immaginario popolare). La politica turca è carica di sufficiente esperienza per capire che sarebbe assai ardua e quasi vana impresa il tentativo di crearsi un alto e permanente credito tanto nel mondo arabo quanto in quello iraniano, pur avendo nel Pakistan uno dei suoi migliori alleati e giurati sostenitori. Ciò ha oltre tutto profonde radici storiche e i motivi del rapporto privilegiato tra la Turchia e Israele nell’ambito medio-orientale. Infatti, se ciò fosse un elemento univocamente decisivo non si spiegherebbe la persistente tensione fra Grecia e Turchia.
Quanto detto non significa comunque che la Turchia non abbia delle ambizioni e interessi per far sentire il proprio peso quale difensore e garante del mondo islamico (si ricordi che l’ultimo «califfo», supremo simbolo dell’unità dell’islam, era ottomano). L’agognata presenza turca in Bosnia è collegata anche a questo tipo di condizionamenti, operanti comunque nell’ambito di una strategia globale tesa ad affermare il più consistentemente possibile, pur con tutte le cautele dell’avita sagacia politica, la presenza turca su un arco strategico che si estende dai Balcani all’Asia centrale, come si vedrà meglio appresso. Una ricerca, dunque, più che di una vera leadership verso il mondo islamico, di una posizione di prestigio, soprattutto di concreta credibilità interna ed esterna.
Di nuovo il sogno panturanico?
Tolta l’ipotesi di una leadership islamica, il crollo del mondo sovietico ha offerto l’occasione propizia perché il cosiddetto «sogno panturanico» desse l’impressione di rispuntare in Turchia, a ogni livello sociale e istituzionale. Sogno che, per molti conoscitori di cose turche, pareva ormai definitivamente assopito, anzi superato. L’aspetto che nella disfatta del Soviet più direttamente poté condizionare l’improvviso e imprevisto risveglio dei sintomi di questo sogno, fu la momentanea impressione di un vuoto di potere influente nel Caucaso in seguito all’annunciato e parzialmente iniziato ritiro dei russi dalla zona ai primi di marzo del ‘92. Tale notizia faceva delineare in quei giorni «sempre più fosca sull’orizzonte l’eventualità di una guerra» nel Karabagh (Regno-att. 6,1992,140), come di fatto seguì. Oggi possiamo ben affermare che il ritiro dei russi dal Caucaso, come diverse mosse che in quei mesi si succedettero, era solo tattico, non strategico. In fondo, forse una trappola, un banco di prova per chi ritenesse esaurito il ruolo internazionale di Mosca? Difficile sarebbe, in verità, immaginarsi un addio dei russi al Caucaso di punto in bianco, il che equivarrebbe a sotterrare senza motivi cogenti tre secoli di politica estera!
Ciò che invece non ha altrettanta facile spiegazione è come la diplomazia turca si sia lanciata intrappolare. La Turchia, infatti, forse credendo in un vuoto di potere effettivo nel Caucaso, tentò, in tempi brevi e in modo strepitoso, di stabilire con l’Azerbaigian (come epicentro o lunga manus) e oltre il Mar Caspio una propria zona d’influsso a scapito della Russia. Principale fautore e araldo di simili ambizioni fu lo stesso presidente Özal, le cui sortite ottennero ampia eco ed entusiastica partecipazione nell’opinione pubblica. Le ambizioni turche fecero riflettere i russi e per ben tre volte fu drastica, inflessibile, la loro risposta alle velleità belliche della Turchia (accarezzate da una larga parte della stampa) in relazione al conflitto armeno-azero per il Karabagh. La risposta russa fu sempre: qualsiasi intervento turco potrebbe scatenare la terza guerra mondiale!
La mossa turca potrebbe avere varie spiegazioni: a) errore di valutazione politica; b) mossa a sua volta tattica, come quella dei russi, per misurare effettivamente le intenzioni russe e la consistenza del loro apparente momentaneo «disinteresse» per il Caucaso; c) un’ipotesi infine che quasi rasenta la «fantapolitica»: un progetto, operante dall’interno, di contenere un ulteriore potenziamento della Turchia.
Senza poter decidere tra queste e, forse, altre possibili ipotesi, saremmo inclini a considerare la prima come meno probabile in confronto alla seconda. È vero che qualche gaffe, qualche incrinatura interna nella politica turca, negli ultimi tempi, si è fatta sentire maggiormente rispetto al passato. Così le notizie trapelate un paio d’anni fa su orientamenti discordi all’interno dei servizi segreti (dotati di una lunga tradizione di compattezza ed efficienza), o l’ancora più recente sconfessione del primo ministro, asserente la presenza di basi curde in Armenia, da parte del proprio Ministero degli esteri. Ma nonostante tutto, e la grande delicatezza del momento che la Turchia sta attraversando, non ci pare probabile che la politica turca si sia a tal punto svalutata.
La seconda ipotesi pare la più probabile, dal momento che rientra pienamente nelle logiche della politica turca: quella di cogliere al volo il momento opportuno, la minima gaffe dell’avversario per partire in quarta. Non escluderei del tutto l’ipotesi che una qualche «distrazione» russa, simile a quella dei colonnelli greci nel ‘74, anche solo avallante qualche buco nella strategia armena per il Karabagh, possa tentare la Turchia per un’azione analoga a quella sperimentata a Cipro (anche se la politica russa ha sicuramente uno spessore ben diverso da quella greca!).
Occorre a proposito rilevare inoltre che il «test» turco potrebbe avere un duplice taglio: non solo di sentire il polso dei russi, ma anche quello dell’occidente. Difficilmente la Turchia si muoverebbe fuori dai suoi confini senza l’avallo, almeno implicito, dei suoi alleati occidentali, anzi del suo alleato per eccellenza: gli Stati Uniti. La Turchia è forse l’unico paese in Medio Oriente che abbia capito un «dogma» fondamentale della politica occidentale e delle «grandi» potenze in genere di questo secolo, dopo la caduta dell’impero ottomano, e che non pare per il momento affatto cambiato: essa non vuole, non tollera in Medio Oriente la formazione di qualsiasi grande potenza locale. Fu stroncato in embrione, e tragicamente, nel ‘20 il tentativo greco in tal senso, e più di recente lo scià Reza Pahlevi pagò tragicamente le sue ambizioni di fare della Persia la quinta potenza del mondo. Analoga, anche se non identica, la sorte di Saddam.
La realizzazione del sogno panturanico destinerebbe la Turchia al piedistallo di una grande potenza rimettendo in questione tutti gli attuali, anche se già precari, equilibri e interessi sull’asse che dai Balcani, praticamente dalla Bosnia, va fino all’Asia centrale, la Mongolia. Punto di snodo di quest’asse è proprio il Caucaso. Non pare, comunque, che una simile prospettiva, e per di più sotto l’egida di un’egemonia turca, possa piacere non solo ai russi, ma neppure a qualcuna delle grandi potenze dell’occidente. L’unico contesto di possibilità di tale ipotesi sarebbe quello di un desiderio della Germania di ritentare l’antica sua politica imperiale.
La terza ipotesi che abbiamo detto rasentare quasi la «fantapolitica» potrebbe avere una sua consistenza in base all’origine curda di Turgut Özal, ma solo nella supposizione, per ora tutta da dimostrare, che la sua origine abbia in qualche modo influito sulla linea politica. Lo stile strepitoso di Özal, alquanto distante dallo stile turco tradizionale (meno clamoroso e più incisivo) nell’affermare la presenza turca nel Golfo, in Bosnia, ma soprattutto nel Caucaso e oltre il Mar Caspio, sortì effettivamente l’effetto non favorevole di mettere gli interessati, e in primo luogo i russi, maggiormente in guardia contro le ambizioni di «grandeur» della Turchia. Tra le varie ipotesi per spiegare la mossa turca, la terza che abbiamo proposto, benché sembri la meno credibile, è comunque da non ignorare per una valutazione complessiva della situazione.
Un soggetto di stabilità
Un’ultima considerazione sulla potenza militare turca. La Turchia possiede oggi un’industria bellica non trascurabile, capace anche di esportazione di armenti. Le forze armate, ben equipaggiate e addestrate, sono in grado, secondo notizie e statistiche apparse in occidente, di raddoppiare, all’occorrenza, nel giro di tre giorni, il loro effettivo medio di circa quattro cento mila uomini, e di quadruplicarlo nel giro di tre settimane. È quasi favolosa la bravura turca nei modi di combattimento tradizionali, il che certamente non significa molto in una guerra moderna. Il lampante successo militare a Cipro forse in parte dipendeva anche dal fatto di non aver trovato una resistenza all’altezza della situazione. La guardia cipriota era sprovvista di antiaerea e la Grecia, come dichiarava Karamanlis, chiamato al governo in extremis quale salvatore della patria dopo il crollo dei colonnelli, non era nemmeno dotata di una forza aerea sufficiente.
Cerchiamo ora di trarre alcune conclusioni da questo panorama che abbiamo tentato di delineare con la maggior attenzione possibile ai vari e molteplici fattori entranti in gioco.
a) La politica turca, sagace, lungimirante, astutamente «moderata» nel gioco degli equilibri locali e internazionali, come risulta dal quadro descritto, è certamente uno dei fattori - a parte la sua collocazione geopolitica - che rendono la Turchia un’alleata desiderabile e preziosa. Ma ciò vale per le grandi potenze che hanno la forza politica di controllarla, e occorrendo anche la forza militare per dissuaderla, come fece il presidente americano Johnson quando impedì con la VI flotta un imbarco turco a Cipro, a metà degli anni ‘60.
b) Nonostante che la guerra fredda, nel senso classico, sembri superata, la Turchia probabilmente continuerà a mantenere per l’occidente, e gli Stati Uniti in particolare, una posizione di alleata, benché con funzioni e importanza in parte cambiate, per il fatto che gli interessi dell’occidente e della Russia non sempre coincideranno, anche se non si confronteranno secondo le logiche della guerra fredda.
c) Per quanto concerne invece i suoi immediati vicini (ad es. Grecia, Siria, Armenia) coi quali ci sono motivi di attrito o problemi da risolvere, la Turchia si presenta spesso nella veste dell’avversario politico. A nostro parere, la potenza militare e il tempismo politico della Turchia se possono da una parte seriamente impensierire quei paesi più deboli, dall’altra parte la sua «intelligenza» politica può risultare come un fattore relativamente rassicurante.
Perciò la memoria storica deve risultare limitata e le potenzialità della politica turca, spesso difficilmente prevedibili, devono essere sfuggite a chi, dopo aver descritto la «fobia collettiva» in Grecia per un eventuale «espansionismo» turco, giunge ad asserire: «Poi però nulla di grave accade davvero», come si leggeva di recente su un quotidiano nazionale.
Difficile ci sembra pure ammettere che nel conflitto del Karabagh la Turchia abbia perseguito i propri interessi per vie solo economiche, come sembra suggerire l’on. M. Raffaelli, ex presidente della Commissione OCSE per il Karabagh, in una recente intervista (Les Nouvelles d’Arménie, 3, 1994). Certo, se la Turchia considera gli azeri come suoi «fratelli naturali», non c’è tanto da meravigliarsi che li sostenga anche militarmente (consiglieri, armamenti, ecc.) nei limiti in cui tale interferenza risulti nel contesto dato politicamente possibile. Il compito di contenerla spetterebbe alla comunità internazionale. Perciò in un articolo precedente sulla questione, definivamo l’atteggiamento turco come moderatamente pro-azero (Regno-att. 10,1993,280). Nel dramma del Karabagh quello che stupisce di più non è tanto il conflitto in sé (date le premesse), né il «moderato» aiuto turco all’Azerbaigian; è altresì l’incapacità internazionale di riconoscere uno dei casi più chiari dove il diritto all’autodeterminazione di un popolo non dovrebbe suscitare alcuna obiezione irrisolvibile.
È troppo sperare che le «grandi» più direttamente interessate al conflitto (Russia, Turchia, Iran) e l’occidente, i cui interessi e capacità di mediazione e d’arbitraggio possono, volendo, arrivare quasi ovunque anche e soprattutto senza le armi, sappiano trarre dalla loro esperienza la soluzione più adeguata da proporre alle parti nel comune interesse del diritto e della pace in quella zona e nel mondo? A maggior ragione, è troppo auspicare che la Turchia possa incanalare le sue potenzialità non per nuove tentazioni panturaniche o per nuove repressioni interne, ma quali fattori d’equilibrio e di garanzia di diritto e di pace per l’intero Medio Oriente?
1 Basterà a tal proposito ricordare alcuni degli eventi più salienti della storia turca nel nostro secolo, indipendentemente dai giudizi di diritto attinenti e assai contrastanti secondo le varie visuali: l’abile corteggiamento della nascente Unione Sovietica durante la guerra coi greci (1919-23) per deludere poi le speranze leniniane di una Turchia quale trampolino di salto della rivoluzione rossa nel mondo islamico; l’inflessibilità nel richiedere, in seguito alla vittoria, l’evacuazione dall’Anatolia dell’intera popolazione greca (due milioni su un totale di circa dieci milioni) e nel precludere agli armeni superstiti del genocidio (1915) ogni possibilità di ritorno nel territorio; la quasi totale circoscrizione dei consolati a Istanbul e Ankara, rispettivamente vecchia e nuova capitale; l’ostinata e lucida neutralità nei momenti più fatali della seconda guerra mondiale per allearsi alla fine coi vincitori; infine la guerra lampo e la conseguente annessione di una parte di Cipro (1974), siglati «operazione di pace».