Democrazia tra forma e sostanza
La chiusura del Partito islamico Refah non è grave come episodio formale. Decisioni simili sono state frequenti. È grave in ordine alla sostanza della rappresentatività politica. Una tutela militare persistente e il ricorso alla violenza possono uccidere la democrazia.
Se ne parlava e si ventilava da tempo. La notizia non ha colto di sorpresa chi sia assuefatto allo stile, assai sui generis, della democrazia turca: il 16 gennaio 1998, con un voto a larga maggioranza (due pareri contrari su undici), la Corte costituzionale turca ha decretato la chiusura, dichiarandolo fuori legge, del partito del "Benessere nazionale" (Refah partisi) di marcata ispirazione islamica. Sette dei suoi maggiori esponenti venivano rinviati a giudizio e interdetti per cinque anni dalla vita politica.
Il Refah era uscito dalle ultime elezioni politiche come il partito di maggioranza relativa con il 21% dei voti, pari a sei milioni di elettori. Nel febbraio 1996 esso formava da protagonista la coalizione di governo sotto la presidenza del suo inossidabile leader carismatico, Necmettin Erbakan. Il suo interlocutore principale nella coalizione governativa era il partito della "Giusta via" (Dog/^ru Yol partisi) dal quale proviene il presidente della Repubblica, Süleyman Demirel.
Questo partito costituiva, prima delle elezioni, la componente principale del governo sotto la Presidenza del consiglio della signora Tansu Çiller, rappresentante di una corrente alternativa nel partito a quella di Demirel. Emula, a suo tempo, della "lady di ferro", la signora ex-primo ministro è attualmente indagata per accuse abbastanza affini a quelle della tangentopoli italiana. Il governo di coalizione cadde il 28 febbraio 1997 su pressioni esplicite dello stato maggiore, il cui costante e discreto protagonismo negli ultimi quarant'anni non di rado è sfociato in manifestazioni eclatanti.
Interdetti 23 partiti in 30 anni
Tra i principali capi d'accusa in favore del provvedimento di chiusura sono state segnalate le seguenti dichiarazioni dei dirigenti del partito: a) "Quando il Refah sarà al potere si istituirà l'ordine equo. Qual è il problema? La transizione sarà dura o morbida, sarà gradevole o sanguinosa?"; b) "Se non lavori appartieni al partito delle patate. Questo partito è l'esercito della jihad islamica"; c) "Occorre che vi sia un sistema di diritto plurimo. Il cittadino deve scegliere egli stesso"; d) "Se vorrete chiudere le scuole di imam-hatip (una specie di seminario islamico, ndr.), si verserà sangue... Se qualcuno mi picchia, io lo picchio. Io seguo la sharia (legge coranica) fino all'ultimo comma"; e) "Questa patria è nostra, ma il suo regime non è nostro. Il regime e il kemalismo (da Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna, ndr.) appartengono ad altri. Così la Turchia si distruggerà, signori miei". A queste dichiarazioni si aggiungeva, quale azione concreta, la celebrazione nella sede della Presidenza del consiglio dell'iftar, il rito conviviale che verso sera interrompe il digiuno meridiano nel periodo del ramadam.
La chiusura di un partito non solo non è inusuale nello scenario politico turco, ma può definirsi piuttosto frequente. Quasi una prassi normale. Infatti, dal 1968 a oggi sono stati chiusi per via giudiziaria ben ventitré partiti, incluso il Refah: una media di uno all'anno. I nomi stessi di questi partiti, spesso assai simili fra loro, sono di per sé un indizio significativo delle accuse pendenti sul loro capo e delle motivazioni dei provvedimenti a loro carico. Eccone alcuni esempi: "Partito dell'operaio e dell'agricoltore" (1968), "Partito dell'ordine nazionale" (1971), "Partito dell'ideale avanzato della Turchia" (1971), "Partito del proletariato della Turchia" (1980), "Partito del popolo" (1991), "Partito comunista unificato della Turchia" (1991), "Partito socialista" (1992), "Partito dei verdi" (1994), "Partito democratico - 2" (1994), ecc.
Non rientrano in questo novero i partiti chiusi d'ufficio in seguito agli interventi militari del 1970 e del 1980. Furono interdetti allora tutti i partiti esistenti e alcuni vennero chiusi per sempre, benché i più consistenti abbiano potuto risorgere sotto nomi diversi e con programmi solo apparentemente modificati. Così il Partito della giustizia (Adalet), che fruì di notevoli consensi negli anni '60 ed ebbe in Süleyman Demirel il suo massimo protagonista, era erede del vecchio Partito democratico degli anni '50 di Celab Bayar e di Adnan Menderes, quest'ultimo impiccato in seguito al colpo di stato militare del 1960. Interdetto a sua volta dall'intervento militare del 1980, l'Adalet è risorto come il Partito della giusta via e negli anni '90 governò il paese con i ministeri di Demirel e di Çiller, arrivando persino a intronizzare il suo vecchio leader sulla poltrona della Presidenza della repubblica.
Il Rafah a sua volta non era altro che l'alter ego risorto del Partito della salvezza nazionale (Milli Selamet Partisi), un partito medio-piccolo degli anni '70 che per un breve periodo fu persino alleato di governo del socialdemocratico Partito popolare di Ecevit (oggi viceprimo ministro). Pur suscitando qualche apprensione anche in quegli anni nei circoli kemalisti più inflessibili, il Selamet dovette cessare l'attività per il sopravvenuto intervento militare del 1980.
Pericolose delegittimazioni popolari
Tale panorama, abbastanza insolito nelle tradizionali democrazie occidentali, se da una parte è istruttivo circa la rigidità degli schemi ideologico-costituzionali del paese e della loro applicazione processuale, dall'altra è altrettanto eloquente di come, in alcuni casi, nel lasso di pochi anni e senza grande travaglio possano essere aggirate le rigidità degli schemi e delle relative prassi.
Nel caso specifico, la chiusura del Refah non ci pare quindi debba sollecitare un'interpretazione in chiave di lettura troppo traumatica per quanto concerne gli sviluppi e gli esiti prossimo-futuri dell'eventuale sua ricostruzione sotto altre etichette e altri profili. È una costatazione che si propone ovviamente solo quale ipotesi di lavoro e non come previsione di calcolo. Essa ridimensiona di molto la gravità del caso.
La gravità – per chi scrive – non deriva in primo luogo da considerazioni teorico-giuridiche di "requisiti", "strutture", "regole" della democrazia formale e parlamentare – la quale in certi contesti sfocia in utopie troppo avulse dalla realtà e può funzionare a rovescio – , bensì dal fatto concreto. Reprimere la volontà elettorale espressa e certificata di milioni di cittadini, per qualsiasi motivo, ma soprattutto in nome di qualche ideale o principio quasi imposto ad ampi settori di popolazione com'è il caso del kemalismo, può, da un momento all'altro, far esplodere la situazione e provocare un bagno di sangue globale e atroce. Esso sarebbe l'esito di un processo sociale che forse non era così pensato in partenza, come pare che si possa evincere dalla storia dei partiti Selamet e Refah (si vedano in proposito le riflessioni svolte su "Islamismo senza fondamentalismo" in Regno-att. 2,1997,12)
È vero che l'apparato statale, soprattutto militare, della Turchia sembra in grado di far fronte a movimenti rivoltosi anche con amplissima base popolare (come nel caso dei curdi), o per lo meno di non soccombre. Ma accettare una simile prospettiva equivale effettivamente a teorizzare il ricorso metodico alle armi quale antidoto per il mantenimento della democrazia. In altri termini, l'insufficienza ossia l'incapacità di quest'ultima a reggersi in virtù della propria dialettica interna, dei propri principi ispiratori. In fondo, il suo fallimento.