Una questione di democrazia
Dopo l’arresto di Abdullah Öcalan il 15.2.1999 da parte della Turchia, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ridefinisce i propri quadri e le proprie strategie.
I recenti accordi tra gli stati coinvolti nel problema curdo (Turchia, Iran, Siria, Iraq, Libano); gli USA e Israele.
Le divisioni all’interno del movimento curdo.
Se muore sarà un martire, vivo rappresenta la coscienza nazionale curda. Abdullah Öcalan, per un ventennio leader carismatico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), caduto in mani turche in maniera rocambolesca lo scorso febbraio, sarà processato nel prossimo aprile. Questo processo risulterà un boomerang per il governo turco: difficile credere possa essere giusto o equo. Inevitabilmente i curdi utilizzeranno questo processo a livello mediatico, per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale e i governi sul problema curdo in Turchia.
Öcalan in carcere non significa la fine della guerriglia curda. Lo dimostrano le ultime opzioni del PKK, il cui settore militare si sta riorganizzando sotto la guida di Cemil Bayik, vicino ai pasdaran iraniani e al leader curdo iracheno Gialal Talabani. I circa 1.500 combattenti del PKK presenti in Libano e Siria hanno raggiunto le basi del loro partito nel Kurdistan iracheno e in Iran dove, nella regione del lago Urmia, il PKK dispone di una solida infrastruttura logistica, medica e operativa messa in piedi con l’aiuto del 3° corpo dell’unità al-Qods dei pasdaran.
Dopo Öcalan
Dal VI congresso del PKK, avvenuto in febbraio in una "zona liberata" del Kurdistan turco, è emersa la nuova dirigenza collegiale che gestirà la fase del dopo-Öcalan. E nei prossimi mesi si vedrà se prevarrà l’anima negoziale o, come è più probabile, l’ala militarista. L’unico dato certo è che è irrealistico pensare che l’arresto di Öcalan determini l’arretramento della coscienza nazionale curda in Turchia. La lotta armata potrà diminuire d’intensità e per numero di combattenti, ma la popolazione curda chiede a voce sempre più alta il riconoscimento dei propri diritti, almeno di quelli culturali. Inoltre l’Iran sembra voler succedere alla Siria nel ruolo di fornitore d’infrastrutture logistiche al PKK, continuando così la funzione più o meno occulta di burattinaio in funzione anti-turca.
Per capire cosa avviene nel PKK e tra i curdi di Turchia è indispensabile comprendere le strategie e gli accordi stretti recentemente tra gli stati coinvolti nel problema curdo e le forze politiche curde in funzione anti-PKK.
Negli anni ottanta il PKK aveva un’organizzazione prettamente militarizzata; negli anni novanta ha faticosamente cercato una maggiore articolazione politico-negoziale. In più occasioni Öcalan ha decretato dei cessate il fuoco unilaterali (marzo 1993, dicembre 1995, settembre 1998), ma questo ramo d’ulivo è sempre stato rigettato da Ankara. Il PKK ha stemperato l’iniziale secessionismo con la richiesta di una confederazione curdo-turca, e probabilmente i dodici milioni di curdi turchi considererebbero una vittoria le libertà culturali e un sistema decentrato.
La guerriglia curda iniziata il 15 agosto 1984 con poche centinaia di guerriglieri ha assunto una grande ampiezza giungendo a 30-35.000 combattenti. La repressione attuata da almeno 300.000 militari, un terzo delle forze armate turche, è spietata. L’esercito persegue una politica sistematica di evacuazione e di distruzione nei villaggi con una duplice conseguenza per la popolazione curda: distruzione dell’economia tradizionale basata sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame; aumento abnorme della popolazione urbana con l’emigrazione forzata di almeno tre milioni di curdi.
Le stesse fonti ufficiali turche confermano i dati delle organizzazioni umanitarie. Secondo la Commissione parlamentare turca per la migrazione sono stati evacuati 3.428 villaggi della regione curda, in gran parte con azioni arbitrarie delle forze di sicurezza turche. Aydin Arslan, governatore della regione in stato di emergenza, ha affermato che il conflitto ha registrato 30.040 vittime. Fonti ufficiali turche dichiarano che 560 persone sono "scomparse", mentre la stima supera le 2.000 persone secondo l’Associazione per i diritti umani in Turchia. Il conflitto contro la guerriglia curda costa 8 miliardi di dollari all’anno, e le spese militari assorbono oltre il 45% del bilancio nazionale.
Ankara ha aderito alla Convenzione europea dei diritti umani, ma nel 1990 ne ha sospeso l’applicazione nella regione curda dove dal 1987 è in vigore lo stato d’emergenza. Centinaia di persone, sospettate di appoggiare il separatismo curdo, sono state arrestate, torturate, condannate a pene detentive per motivi d’opinione. Sono centinaia le vittime delle esecuzioni extragiudiziali a opera delle forze di sicurezza. Dal 1997 numerose sedi dell’Associazione per i diritti umani in Turchia sono state chiuse dalle autorità, soprattutto nel Kurdistan.
La via democratica smarrita
Il movimento nazionale curdo cercava di utilizzare gli strumenti democratici offerti dal sistema turco. Ma questa strada, iniziata sotto il defunto presidente della Repubblica Turgut Özal, è sta preclusa tra il 1993 e il 1995 dalla strategia della "terra bruciata" attuata dall’ex primo ministro Tansu Çiller e dal presidente Suleyman Demirel, che hanno sempre respinto le aperture del leader del PKK, Abdullah Öcalan. La società civile curda fu fatta a pezzi con attentati a esponenti politici e intellettuali, chiusura dei partiti, assassinio degli uomini d’affari per tagliare i finanziamenti al PKK, intensificazione delle azioni militari con la distruzione dei villaggi, il massacro dei militanti e presunti simpatizzanti del PKK.
La repressione ha esacerbato gli animi e acuito il divario tra le due comunità. Nel 1994 cinque deputati curdi, tra cui Leyla Zana – adottata da Amnesty International e candidata al premio Nobel per la pace – furono condannati a 15 anni di carcere e un sesto a 7 anni per "separatismo". L’intellettuale Ismail Besikçi è stato condannato a vari secoli di carcere per gli scritti sui curdi. Numerosi curdi, in precedenza indifferenti o timorosi, hanno ultimamente riscoperto la propria identità curda e la manifestano apertamente.
La durissima repressione sta rafforzando l’integralismo religioso che finora era un fenomeno marginale nel Kurdistan. Il Partito islamico Refah ha raddoppiato i voti nelle grandi città soprattutto tra i curdi scappati dall’Est e rifugiati nelle baraccopoli ai margini delle grandi citttà turche.
Per Demirel la questione curda è solo frutto d’ignoranza e il terrorismo è fomentato dagli stati nemici. "Siamo in presenza della 29º ribellione curda di questo secolo – ha dichiarato –, e noi la schiacceremo come le precedenti". Il primo ministro Bülent Ecevit riduce la questione curda a problema economico, data l’arretratezza della regione curda, e a un problema di ordine pubblico.
Lo stato turco è guidato dall’esercito e sottomesso alla politica del Consiglio nazionale di sicurezza. Ma la resistenza curda da sola è insufficiente per favorire la democratizzazione. Solo l’Unione Europea può avere qualche possibilità di successo.
Emerge qui il ruolo del colosso statunitense, che fornisce alla Turchia gli armamenti usati nel Kurdistan, in violazione dei regolamenti in vigore e delle raccomandazioni del Senato, e ha assunto una posizione ambigua verso il problema curdo in Iraq e in Turchia. L’amministrazione americana ha chiamato il PKK un’organizzazione "terrorista", fornendo alla Turchia foto scattate da un satellite per localizzare le basi del PKK. Nell’aprile 1991, dopo la fallita rivolta curda, Washington ha favorito con l’intervento della forza multinazionale la formazione di una specie di protettorato turco-occidentale nel Kurdistan iracheno. Teheran ha accusato gli Stati Uniti di utilizzare la loro presenza nell’area per fare spionaggio contro l’Iran.
Per Washington la Turchia è un’alleato rilevante per il suo ruolo di contenimento delle potenze regionali: Iran, Iraq, Siria; per l’alleanza strategica con Israele, per la sua influenza nei Balcani, nel Caucaso e nell’Asia centrale.
La Turchia, paese cerniera tra il Nord e il Sud del mondo, viene considerato uno stato laico, vicino alle democrazie occidentali, un modello alternativo al fondamentalismo islamico. Indicato alternativamente come la frontiera o la testa di ponte dell’Occidente verso l’Oriente, ha un ruolo chiave per la stabilità dell’area a seguito del collasso dell’Unione Sovietica e della Iugoslavia, e della formazione di nuovi stati, in gran parte turcofoni, nell’Asia centrale e nel Caucaso.
Negli ultimi anni la Turchia ha sollecitato gli Stati Uniti a premere sulla Siria affinché ponesse fine agli aiuti al PKK. In questo contesto si situa l’accordo militare di cooperazione strategica e tecnica stipulato tra la Turchia e Israele nel febbraio 1996, che viene considerato un deterrente all’aiuto siriano al PKK e che ha l’obiettivo d’indebolirne la presenza in Siria e Libano. In quell’occasione sarebbe stato discusso il piano secondo il quale le forze turche e israeliane avrebbero dovuto bombardare le basi del PKK in Libano, come gli israeliani hanno ripetutamente fatto contro i guerriglieri hezbollah filo-iraniani.
La crescente cooperazione tra Turchia e Israele viene considerata da Iran e stati arabi la maggiore minaccia regionale. È questa la chiave di lettura degli interventi del presidente egiziano Hosni Mubarak e soprattutto del ministro degli esteri iraniano Kamal Kharrazi, che nell’ottobre 1998 si sono recati ad Ankara e a Damasco per disinnescare la miccia che si era accesa alla frontiera turco-siriana. In quei giorni Ankara aveva mobilitato 10.000 uomini al confine siriano e altrettanti erano penetrati nel Kurdistan. Il contributo iraniano è stato determinante e ha reinserito Teheran nel gioco diplomatico regionale. L’Iran teme che il conflitto tra Siria e Turchia rafforzi la posizione di Israele nella regione, indebolisca gli islamici in Turchia, funga da detonatore della crisi curda.
In base all’accordo del 20 ottobre 1998, Damasco ha dovuto sospendere immediatamente ogni aiuto al PKK ed espellere Öcalan e i suoi 3.000 guerriglieri. A ratifica di questa strategia, agli inizi di novembre 20.000 soldati turchi con l’appoggio di aerei ed elicotteri da combattimento sono penetrati nel Kurdistan iracheno fino a una profondità di 20-30 km per distruggere le basi del PKK.
Divisioni curde
Sarà opportuno a questo punto ricordare che nei primi anni novanta il PKK, sia in funzione anti-turca sia nel tentativo di egemonizzare il movimento nazionale curdo nel suo complesso, aveva aperto delle basi in Iran e in Iraq, e nell’ottobre 1992 erano avvenuti scontri armati con i curdi iracheni. Poi si era incuneato nel dissidio tra Masud Barzani, leader del Partito democratico del Kurdistan (PDK), che controlla il confine turco, e Gialal Talabani, capo dell’Unione patriottica del Kurdistan (UPK), che controlla la frontiera iraniana. Lo scontro tra i due leader curdo-iracheni era acuito dalla cooperazione tra PKK e UPK e dalla presenza sul territorio dell’UPK di basi militari del PKK. Ma Öcalan è stato spiazzato dall’Accordo di Washington del 17 settembre 1998 quando, alla presenza del segretario di stato Madeleine Albright, i due leader curdi iracheni hanno accettato di risolvere i loro disaccordi in attesa di giungere alle elezioni del giugno 1999, per la formazione dell’assemblea regionale. Talabani ha dichiarato che il nord dell’Iraq non sarà un santuario PKK.
Il Pentagono desidera rafforzare la presenza americana nel Kurdistan iracheno, mentre la Turchia vuole impedire la formazione di uno stato curdo indipendente in Iraq e isolare il PKK. La strategia statunitense di favorire la coalizione formata da Turchia, Israele e PDK è stata determinante per isolare dal contesto regionale il PKK, che ha perso così in pochi giorni il determinante supporto logistico siriano e le basi in Libano, Iraq e Siria.
Dagli anni ottanta il PKK ha rilanciato con estremo vigore il problema curdo come uno dei nodi centrali nel dibattito interno del paese, ma la matrice nazionalista dello stato turco ha finora bloccato ogni soluzione diversa da quella militare e ha rafforzato le alleanze regionali per isolare i nazionalisti curdi. Fino a quando persisterà il "tabù curdo", vi saranno deboli prospettive per una soluzione del problema. L’unica strada percorribile è la democratizzazione degli stati in cui vivono i curdi: ma Iraq, Iran Turchia mantengono saldamente i primi posti nelle violazioni dei diritti umani...