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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Ugo Bisteghi

I curdi nel dopo-Saddam

"Il Regno" n. 10 del 2003

Il percorso lungo il quale Turchia e Iran giungono all’attuale nodo storico della loro esistenza come nazioni è segnato da vicende e da scelte opposte, che valgono a spiegare, meglio di ogni altra considerazione, la diversità della situazione presente. Si potrebbe dire che dalla battaglia di Cialdiran fra ottomani e safavidi nel ‘600, che vide la sconfitta persiana, i due imperi abbiano imboccato strade opposte, condizionate dalla geografia; la Turchia nemica e vicina della crescente potenza degli stati europei nei Balcani e nel Mediterraneo; la Persia perennemente assediata dalla marea nomade dell’Afghanistan e dell’Asia centrale che ha premuto sui suoi confini e l’ha più volte invasa e devastata, fino a quando inglesi e russi non hanno imposto il loro potere in India, nel Caucaso e in Asia Centrale. Ma oltre a ciò, la politica interna dei due imperi messa in opera dalle dinastie regnanti ha condizionato in maniera decisiva gli avvenimenti succeduti all’impatto con le potenze europee.

Successo del modello kemalista
L’impero ottomano al suo interno ha adottato la politica del millet, cioè un sistema che potremmo definire di autonomie legislative su base religiosa, lontano tuttavia dalla parità dei diritti fra i cittadini, accordata alle comunità esistenti nell’impero; i «giovani turchi» lo hanno voluto modernizzare prendendo a modello i sistemi europei, e ciò ha portato alla dissoluzione dell’impero ottomano, poiché ogni millet ha voluto la propria indipendenza nazionale vanificando il progetto dei «giovani turchi» che volevano un impero sovranazionale di cittadini con uguali diritti. È prevalso allora per necessità il modello dello stato nazione europeo e ciò ha portato al massacro degli armeni, alla negazione dell’entità curda, utilizzata peraltro contro gli armeni, e alla cacciata dei greci. La Turchia kemalista è sopravvissuta e si è affermata come stato laico e moderno in Anatolia, collegando strettamente turchismo e stato, cancellando l’islam come elemento costitutivo dello stato turco e coltivando e incoraggiando ambizioni panturche presso i popoli dell’Asia centrale sovietica.

Questa struttura è sopravvissuta fino ad ora, appoggiandosi all’alleanza atlantica e costruendo rapporti economici e d’emigrazione sempre più stretti con l’Europa. Il modello e l’influenza sono antichi e vivi in Turchia e risalgono almeno alla crisi dell’impero nei Balcani e in Egitto. Quindi, come sempre e come per tutto il mondo islamico, a Napoleone e al 1800. La crisi economica e sociale attuale, che è causata dall’insufficiente capacità dell’economia di rispondere ai problemi dell’aumento demografico, alla maggiore richiesta di benessere e di democrazia e, come per tutto il mondo islamico, all’impatto della globalizzazione, mettono a rischio la tenuta della costruzione kemalista, la quale peraltro ha dalla sua un successo storico ineguagliato in campo islamico e la custodia da parte dell’esercito.

La crisi politica ha portato all’adozione di un sistema elettorale maggioritario che ha procurato più danni che vantaggi alla stabilità politica, e ha portato al potere un partito islamico modificato e mimetizzato a sufficienza per superare l’ostracismo dei militari. Questi sono sempre intervenuti per impedire l’accesso al potere dei partiti religiosi e ora sono in attesa, ma certamente interverrebbero se giudicassero in pericolo la sopravvivenza della Turchia così come è uscita dalla rivoluzione kemalista.

L’occasione è storica: l’ingresso in forma democratica di un partito islamico che accetti la Costituzione laica per costituire una delle forze di governo legittimata dal voto popolare. Questo non è avvenuto finora in nessun paese islamico, dove governano o autocrazie d’origine militare laica come in Iraq, in Siria, in Libia, oppure autocrazie che pretendono di applicare la sharia e lo fanno a proprio beneficio come in Arabia Saudita; o infine compromessi tra questi due sistemi, meno discussi, ma non molto più giusti ed efficienti. In tutti questi stati è assente anche l’apparenza dello stato liberale, democratico e laico al quale s’ispira l’Europa passata, presente e futura. Si spera unita.

La Turchia è quindi a un bivio decisivo: deve integrare la maggioranza islamica nel sistema politico senza alterarlo, deve risolvere il problema curdo sperando che basti un’autonomia che non deve minacciare l’unità nazionale turca in nome della quale è nata, e deve convincere l’Europa che tutto ciò avviene nel rispetto dei diritti umani e della libertà politica. Nella migliore delle ipotesi tutto ciò è in itinere e rende prematuro l’ingresso a pieno titolo della Turchia nell’Unione Europea. Tuttavia, sarà certamente necessario che la Turchia sia aiutata a portare a compimento il processo con accordi specifici d’integrazione. È un’occasione nei rapporti fra Europa e mondo islamico che non deve essere perduta, perché la Turchia, oltre a essere una grande potenza, rappresenta per l’Europa la via di collegamento del mondo turco con l’Asia centrale, che non conviene lasciare alla sola presenza americana, alla pressione cinese e al collasso russo. Il dopoguerra e la possibile dissoluzione dell’Iraq non hanno creato nessun problema che la Turchia già non dovesse affrontare, a cominciare dagli oleodotti che devono trasportare il petrolio dalla regione curda, per finire all’utilizzazione delle acque dell’alto bacino del Tigri e dell’Eufrate, ma li hanno accelerati.

La sfida curda
Hanno accelerato soprattutto il problema curdo comune alla Siria, al futuro Iraq quale esso sia, all’Iran e anche all’Armenia. I vuoti lasciati dal massacro degli armeni operato dai «giovani turchi» con la collaborazione dei curdi, sono stati riempiti da questi ultimi, utilizzati strumentalmente contro i cristiani armeni. Il precedente governo turco, che s’ispirava alla prassi laica e nazionalista della tradizione kemalista, dopo aver praticato l’efficace repressione di massa contro i curdi e avendo ereditato la soluzione della questione armena entro i suoi confini con il massacro, avrebbe forse potuto, a causa delle pressioni europee, arrivare alla concessione di una reale autonomia, sufficiente a placare la perenne ostilità curda, con una soluzione che s’ispirasse al modello delle autonomie regionali alloglotte in Europa. In sostanza, avrebbe potuto ammettere il problema, negato da sempre, dell’esistenza e diversità dei curdi, e avrebbe potuto adottare una soluzione che riconoscesse l’esistenza di un’altra nazionalità, salvaguardando in qualche modo l’unità turca. La difficoltà di questo tipo di soluzione, ben evidente anche in Europa, non impedisce che la si possa tentare. Ma l’attuale governo potrebbe preferire una soluzione islamica, cioè un’impostazione che, partendo dal presupposto che tutti i musulmani sono uguali e fratelli, tanto più se sono sunniti come i curdi e i turchi, neghi di nuovo il problema e non riconosca la diversità dell’etnia curda, la quale certamente non subirebbe senza reagire un’imposizione di questo genere. Si potrebbe riproporre cioè la soluzione prospettata dai «giovani turchi», ma non come allora, facendo appello ai principi dell’uguaglianza di tutti i cittadini in uno stato moderno, bensì appellandosi all’uguaglianza di tutti i musulmani, rendendo così inutile l’autonomia e tanto più la separazione. Si tornerebbe così al passato del passato.

Tutti questi schemi degli avvenimenti possibili che abbiamo cercato di delineare saranno certamente influenzati dal futuro assetto dell’Iraq, da come esso uscirà dall’occupazione americana e dal governo che gli alleati riusciranno a mettere in piedi. Se curdi, sciiti e sunniti parteciperanno in modo rappresentativo al governo e se esso sarà espressione di un accordo fatto proprio dalle tre componenti, allora i curdi della Turchia potranno accettare l’autonomia e ritenerla sufficiente per le proprie aspirazioni. In tal modo è probabile che i curdi della Siria e dell’Iran premano per soluzioni simili all’interno dei propri stati e questo potrebbe nel tempo divenire elemento di destabilizzazione in quegli stessi paesi. Se invece non si arrivasse a una soluzione del genere, allora la destabilizzazione dell’area sarebbe più rapida e più convulsa e non avrebbe in prospettiva altra soluzione che quella di uno stato curdo indipendente. Questo ha temuto il Parlamento turco che, contro il parere del suo governo, non ha dato il permesso di passaggio alle forze americane, temendo che la loro massiccia presenza nel Kurdistan iracheno avrebbe rafforzato le aspirazioni indipendentiste di tutti i curdi.


articolo tratto da Il Regno logo

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