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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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L. Pr.

Repubblica democratica o sunnita?

"Il Regno" n. 10 del 2005

Il 17 dicembre scorso l’Unione Europea ha dato ufficialmente avvio ai negoziati per l’entrata della Turchia, scommettendo sul ruolo del paese nell’influenzare positivamente lo sviluppo della democrazia nel mondo musulmano e nell’impegno pacificatore nelle aree vicine. Ma il Rapporto del Parlamento europeo alla Commissione e al Consiglio e, ancora più, un rapporto dell’International Federation for Human Rights (FIDH, luglio 2003), e uno studio di Otmar Oehring per l’Internationales Katholisches Missionswerk - Missio (dicembre 2004) indicano con precisione i limiti della giurisprudenza e della pratica politico-amministrativa turche in ordine all’esercizio della libertà civile e religiosa. Tanto che per lo studio di Missio la Turchia «ha cominciato a diventare una repubblica “islamica”, o più esattamente una “repubblica sunnita”».

I criteri di riferimento per l’Unione sono quelli stabiliti a Copenaghen (Danimarca) nel 1993, cioè il criterio politico (stabilità istituzionale, sistema democratico, diritti umani, protezione delle minoranze), il criterio economico (economia di mercato), il criterio dell’acquisito (l’acquis, insieme delle disposizioni comunitarie).

Dopo aver sottoscritto un accordo d’associazione nel 1963, la Turchia non si è mossa fino al febbraio 2002, approvando poi rapidamente otto leggi per armonizzare il proprio sistema con l’Europa. Il Parlamento europeo riconosce la «sufficienza» di questi sforzi e il considerevole avvicinamento che essi hanno prodotto, ma evidenzia la necessità di accelerare le riforme, di perfezionare la legislazione, di verificare sistematicamente e a lungo gli effetti. Si chiede espressamente la modifica di alcuni articoli del Codice civile, la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia e Cipro, la disponibilità a regolare le fonti idriche con Iraq, Iran e Siria. L’esito dei negoziati non è garantito; essi potranno essere sospesi per violazioni gravi dei diritti umani; l’esito finale non è necessariamente l’adesione.

La questione dei diritti
Gli interrogativi e i dubbi sull’esercizio effettivo delle libertà civili sono molto insistiti. Nel rapporto parlamentare si ricordano le centinaia di casi di tortura denunciati fra il 2002 e il 2003 e le migliaia di domande d’asilo politico pervenute da cittadini turchi ad altri stati dell’Unione. Si chiede espressamente «una politica di “tolleranza zero” tendente a sradicare completamente la tortura, dal momento che casi di essa continuano a essere segnalati agli organi governativi turchi». Il rapporto della FIDH denuncia l’insufficienza delle riforme prodotte e la loro mancata applicazione, con «miglioramenti effettivi molto scarsi». Chiede di «combattere la pratica della tortura» e di «assicurare un sistema efficiente e trasparente di reclamo». Continuano infatti le sparizioni di cittadini, le uccisioni extragiudiziali e altre violazioni dei diritti umani. «È opinione della FIDH che sia giunto il momento per l’Unione Europea e per la Turchia di affrontare seriamente la questione curda e di risolverla democraticamente e pacificamente».

Per il rapporto parlamentare vi sono lacune nel sistema educativo a detrimento delle minoranze etniche e religiose e delle donne. Sono ancora in atto deportazioni interne e il ritorno delle popolazioni è ostacolato dal sistema di sorveglianza nei villaggi. Constata i miglioramenti a partire dal 1999, ma chiede che il rientro delle popolazioni avvenga contestualmente al disarmo dei sorveglianti di villaggio, in rapporto e confronto con gli organismi internazionali che si occupano del problema. Il libero uso delle lingue e dei dialetti locali, la loro presenza sui media, una rappresentatività democratica effettiva delle minoranze, le libertà sindacali e associative sono alcune delle indicazioni più insistite. Si sottolinea particolarmente l’urgenza di togliere l’impunità alla polizia, con adeguati servizi d’ispezione e possibilità di censurare gli abusi.

Lo statuto giuridico delle Chiese
Sul versante delle libertà religiose lo stesso rapporto «chiede ancora una volta alle autorità turche di mettere fine immediatamente a tutte le discriminazioni e le difficoltà fatte alle minoranze e comunità religiose, in particolare sul piano dei diritti di proprietà, di statuto giuridico, di uso pubblico del titolo ecclesiastico di patriarca ecumenico, delle scuole, della gestione interna, della pianificazione territoriale e della formazione del personale religioso; domanda la riapertura immediata del seminario ortodosso greco di Halki, che costituirebbe un primo, chiaro e concreto passo in questa direzione; domanda alla Turchia di risolvere queste difficoltà nel rispetto delle sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a questo riguardo (...) domanda che l’insegnamento religioso sia facoltativo e che non si limiti alla dottrina sunnita; chiede la protezione dei diritti fondamentali di tutte le minoranze e comunità cristiane di Turchia».

Una selva di leggi senza adeguati decreti applicativi, di resistenze amministrative, di contraddizioni normative, di interferenze di responsabilità vanifica l’esibita laicità dello stato: «La variante turca attuale della laicità non sembra davvero essere sinonimo di libertà religiosa» (Missio). Lo studio elenca puntigliosamente i capitoli di tensione che limitano la libertà religiosa nel paese. A cominciare dalla legislazione sulle fondazioni che gestiscono le opere (chiese, istituti scolastici ecc.). Le riforme enunciate non hanno coerenti decreti applicativi; le fondazioni rimangono soggette alla tassazione come società di profitto; non è possibile trasferire il patrimonio da una all’altra, né vendere. I lavori di restauro sono soggetti ad autorizzazioni opinabili e contraddittorie. Delle 208 fondazioni riconosciute nel 1946 ne rimangono oggi 160; le altre sono scomparse per decisione dello stato.

Rimangono gravi problemi per l’uso delle lingue (soprattutto per i cattolici caldei, i cattolici e gli ortodossi siriani) e il riconoscimento dei professori. La costruzione di luoghi di culto è oggi possibile, ma non si sa se è tale la ristrutturazione di quelli esistenti e a chi tocca fare la domanda. La formazione del clero è impossibile. Sono ancora chiusi i seminari armeno e quello di Halki del Patriarcato Ecumenico. Non è stata risolta la questione della presenza degli ecclesiastici stranieri.

Soprattutto è ancora del tutto lontano il riconoscimento giuridico delle Chiese e delle religioni. Molte comunità hanno avuto finora paura di richiederlo per non vedersi negare anche l’attuale pur provvisorio statuto. E questo nonostante l’espressa indicazione contenuta nel Trattato di Losanna del 1923. Una lettera aperta delle minoranze cristiane e non musulmane del paese del 23 settembre 2003 alla Commissione dei diritti dell’uomo dell’Assemblea nazionale è rimasta senza risposta. In un carteggio (luglio-dicembre 2002) con la Segreteria di stato vaticana il Ministero degli esteri ha risposto che la laicità turca impedisce il riconoscimento di alcuno statuto giuridico alle Chiese.

Lo studio di Missio conclude: «Se si cerca di rispondere, alla luce dei risultati di questo studio, alla questione di sapere se la Turchia sia sulla via dell’Europa sul piano della libertà religiosa, sarebbe assai difficile dare una risposta positiva».


articolo tratto da Il Regno logo

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