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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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M.E. G.

Il nuovo muro

"Il Regno" n. 10 del 2004

Si è sempre imbarazzati davanti alle testimonianze dei missionari. Quelli con ormai alle spalle decenni di esperienza e un’età non più giovane. Quelli che quotidianamente vivono a contatto con le realtà più estreme, con la fame, la miseria, la malattia, la violenza e la morte. Li senti raccontare quasi con la voce rotta dall’emozione ma con fermezza di quei bambini ugandesi indottrinati da Kony che, aggrappati alla rete metallica di una caserma e convinti che le pallottole non li toccheranno, muoiono davanti ai loro occhi come mosche.

Li senti ancora meravigliati della capacità di tanti esseri umani di affrontare con dignità la morte certa che la condanna dell’HIV significa per loro, privi dei medicinali appropriati, ma privi soprattutto di quelle elementari condizioni che potrebbero allungare loro la vita: una casa, un pasto sicuro, qualche semplice medicina. E vedi che nella commozione sono indignati.

Sono indignati perché la guerra nel Nord Uganda potrebbe ragionevolmente essere fermata da uno dei più moderni eserciti dell’Africa, che manda truppe in molti dei paesi confinanti: Congo, Sudan, Ruanda. Una banda di qualche migliaio di ragazzini, storditi e affamati può forse avere la meglio per tanti anni? Sono indignati perché anche autorevoli osservatori affermano che «la ribellione del LRA manca di qualsiasi obiettivo politico chiaro». Con un intervento internazionale sotto l’egida ONU si può contribuire a migliorare la vita grama della popolazione, imponendo un embargo sulle armi, esercitando una maggiore pressione sui principali paesi donatori, Stati Uniti e Inghilterra.

Sono indignati per la lunga, lenta e crudele vendetta di Museveni contro la popolazione acholi, che deve pagare il debito di averlo apertamente contrastato nel 1986, durante la sua presa del potere, perché gli acholi, a loro volta, sono stati i principali collaboratori degli inglesi in epoca coloniale. E anche la Chiesa cattolica e i suoi missionari che in questi anni sono stati a fianco degli acholi devono pagare e hanno pagato un caro prezzo: padre Raffaele Di Bari, assassinato nell’ottobre 2000 a Pajule, padre Mario Mantovani, ucciso a Kotido nell’agosto 2003 insieme a fratel Godfrey Kiryowa, padre Luciano Fulvi, assassinato a Layibi nell’aprile di quest’anno.

Sono indignati perché gli aiuti umanitari stanno calando, perché mancano i mezzi per far fronte all’AIDS e alle sue conseguenze, perché, nonostante le molte ONG presenti, una missione di pace dell’ONU tarda ad arrivare. A volte sono increduli che gli standard di vita di queste popolazioni, le più dimenticate tra i dimenticati, siano così peggiorati nonostante i tanti sforzi compiuti. E soprattutto sono disorientati per non sapere dare la risposta all’elementare interrogativo: «Perché?».

Se ragionevolmente ci si potrebbe aspettare che dal miglioramento complessivo della situazione regionale (pacificazione in Congo, ipotetica firma del cessate il fuoco in Sudan e definitiva normalizzazione del Ruanda) possa discendere qualche beneficio anche per l’Uganda del Nord, oggi si deve prendere in considerazione anche un fattore più generale, definito dall’ultimo rapporto di Christian Aid «la nuova guerra fredda».1

Dopo il crollo del Muro di Berlino si era aperta la possibilità di un ripensamento della relazione tra Nord e Sud. Il venir meno di quella storica contrapposizione apriva ai paesi più poveri nuove possibilità di sviluppo, pur rimanendo il problema della sovrabbondanza di armi che, proprio in nome della guerra fredda, erano state generosamente disseminate specialmente nei paesi africani, non a caso il continente con il più alto tasso di conflitti in corso negli anni novanta.2

L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha bloccato questa riflessione e anzi ha contribuito a far fare un passo indietro alla definizione di ciò che costituisce o meno un aiuto internazionale. Si parla ora di aiuti volti «a togliere ai terroristi l’appoggio popolare». In particolare «i donatori possono diminuire l’appoggio al terrorismo lavorando per prevenire le condizioni che possono dar luogo a violenti conflitti in generale, che convincono gruppi di persone scontente ad abbracciare il terrorismo in particolare» (5). Sempre più gli aiuti si accompagnano agli obiettivi politici.

Il discorso del presidente G. Bush alla nazione a pochi giorni dall’attentato pone un nuovo scenario: «Rivolgeremo ogni risorsa in nostro potere – ogni mezzo diplomatico, ogni strumento di intelligence, ogni possibile applicazione della legge, ogni pressione finanziaria e ogni necessaria arma di guerra – per distruggere e sfidare la rete del terrorismo internazionale… Ogni nazione, in ogni regione, oggi deve prendere una decisione. Se sta con noi o con i terroristi. Da oggi in poi qualsiasi nazione che continui a ospitare o dare appoggio al terrorismo sarà vista dagli Stati Uniti come un regime ostile».

Da questo momento, vi sono almeno tre importanti conseguenze. La prima è che nazioni prima ostili vengono considerate amiche (un caso emblematico è il Pakistan) in base al nuovo criterio; la seconda è il tentativo di modificare la linea di confine tra aiuto e appoggio militare; la terza, che discende dalle precedenti, è che gli aiuti, non solo quelli ufficiali, ma anche quelli delle organizzazioni umanitarie non sono considerati neutrali – si pensi all’attentato alla sede dell’ONU e della Croce rossa a Baghdad nell’agosto 2003, o all’uccisione di operatori umanitari in Afghanistan nel febbraio e marzo 2004 – da parte di coloro che essi cercano di aiutare. «Invece di essere liberi di lavorare apertamente tra chi ha bisogno, la nuova retorica occidentale e la prassi sempre più diffusa di utilizzare personale militare per compiti umanitari in nome dello slogan “conquistare i cuori e le menti” ha improvvisamente reso il ruolo degli operatori umanitari infinitamente più rischioso».

Nel febbraio di quest’anno la Commissione per l’assistenza allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)3 ha tenuto una conferenza a Parigi dove si è posta all’ordine del giorno la questione se l’aiuto ufficiale per lo sviluppo potesse comprendere anche i «programmi di addestramento militare e di intelligence per operazioni non bellicose di supporto alla pace». La linea di demarcazione che separa l’area dello sviluppo e del campo umanitario dall’attività militare diventa sfumata. Una tentazione che sta interessando anche l’Unione Europea, il più grande blocco donatore del mondo (19 miliardi di sterline all’anno), soprattutto dopo gli attentati di Madrid.

Da ribelli a terroristi
Anche in Africa le conseguenze non hanno tardato a farsi sentire: molti degli aiuti sono stati dirottati sull’Iraq. Ma non solo.

L’Uganda si è affrettata a monetizzare questo nuovo clima. «Il 5 dicembre 2001, su richiesta del presidente Yoweri Museveni, Colin Powell, sottosegretario di stato degli Stati Uniti, ha annunciato che aveva definito il Lord resistance army un’organizzazione terroristica e che lo aveva inserito nella Terrorist exclusion list». Questa data ha segnato il significativo peggioramento della situazione nord-ugandese.

Nel febbraio 2002 Museveni ha lanciato l’operazione Iron fist che si prefiggeva di attaccare il LRA a partire dal territorio sud-sudanese e con l’esplicito appoggio del governo di Khartoum, nemico storico dell’Uganda: i due governi infatti hanno da sempre sostenuto i reciproci movimenti di ribelli.

La guerra al terrorismo ha infatti modificato le priorità anche del Sudan, che dal 1993 era nella lista statunitense dei fiancheggiatori dei terroristi. Ma, dopo aver espulso Osama bin Laden dal suo territorio nel 1996, ha visto nell’appoggio all’operazione ugandese l’occasione per ricollocarsi nel panorama internazionale.

Con Iron fist vi sono stati almeno 1.000 morti tra civili, militari e ribelli; ma Kony è sfuggito alla cattura e le basi della ribellione sono state riportate in Uganda.

Un secondo fatto significativo è stato il massacro al campo di raccolta di Barlonyo il 21 febbraio di quest’anno. L’esercito è arrivato quando ormai i ribelli avevano dato fuoco al campo e ormai 350 civili, per lo più donne e bambini, erano stati uccisi. La principale preoccupazione di Museveni è stata quella di poter perdere gli aiuti. È per questo che prima che arrivasse qualche critica egli si è affrettato ad accusare quei «cosiddetti donatori, che vogliono interferire nei nostri bilanci e che ci dicono che non dobbiamo spendere di più nella sicurezza». Scopo quindi del riposizionamento dell’Uganda non è risolvere la situazione interna del paese ma militarizzarlo. Infatti, nonostante l’Uganda abbia dirottato il 23% degli aiuti allo sviluppo dei servizi sociali forniti dall’Inghilterra, ciò non ha sconfitto Kony.

Definendo poi i ribelli terroristi, Museveni ha ottenuto anche un secondo importante effetto, quello di impedire la via del negoziato e della pace con il LRA. La legge sull’amnistia, varata nel 2000, consente a ogni combattente che si consegna volontariamente di non essere penalmente perseguito e di ottenere di ricominciare una nuova vita. Ma solo 3.848 ribelli ne hanno sinora beneficiato. Mancano i fondi perché la Commissione sull’amnistia lavori. Nel 2002, poi, il governo ugandese ha promulgato una legge antiterrorismo, in base alla quale è prevista la sentenza capitale per coloro che «influenzano il governo o l’opinione pubblica per scopi politici, religiosi, sociali ed economici». Più oltre questa legge definisce il LRA un’organizzazione terroristica, appartenere alla quale è reato. «Così chiunque tenti di stabilire un dialogo con il LRA è immediatamente etichettato come collaboratore. Ciò ha interessato particolarmente l’Acholi religious leaders peace initiative (ARLPI), un’organizzazione interreligiosa che sostiene il dialogo con il LRA. I membri dell’ARLPI, che sono un partner di Christian Aid, sono sotto sorveglianza e sono stati minacciati dai militari».

Tramite la soluzione militare Museveni vuole che le cose rimangano come sono, vuole l’appoggio dell’esercito – macchiatosi anch’esso di gravi crimini, arruolando bambini soldato, spesso gli stessi fuggiti dai ribelli – per far passare l’emendamento costituzionale che gli consenta di ripresentarsi per la terza volta all’appuntamento elettorale del 2006.

Tramite la soluzione militare Museveni vuole tenere il paese concentrato sulla questione della sicurezza, distogliendo l’attenzione dalle questioni economiche fondamentali. L’Uganda è noto per essere uno dei migliori allievi del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Dal 1995 il prodotto interno lordo è cresciuto del 6,7%, l’inflazione è stata abbattuta dal 33% del 1990 al 2% del 2001; la mortalità infantile è scesa e dal 1997, con l’introduzione della scuola primaria gratuita per i primi quattro figli di ogni famiglia, dal 5,3% di studenti si è passati al 7% nel 2003. Eppure questi indicatori non dicono che l’Uganda è uno dei paesi più poveri del mondo, che ben il 96,4% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e che la speranza di vita media è scesa dai 47 anni del 1990 ai 43 nel 2001.

Molto potrebbero fare i paesi donatori, che contribuiscono per la metà del bilancio complessivo del paese. Ma nessuno vuole dire che «l’Uganda è un paese in guerra» e che l’esperimento economico «è fallito». «I paesi donatori hanno investito troppo in Uganda per ammettere che le cose sono andate male».

L’aver collocato il paese dalla parte «giusta» dello scacchiere internazionale ha messo Museveni al sicuro dalle critiche a livello internazionale. Ma c’è qualcuno che ne paga il prezzo ed è per costoro che i missionari e le ONG intercedono: sono ancora una volta gli ugandesi, specialmente coloro che vivono a Nord del Nilo, le donne e i bambini.

Lo dicono le parole disincantate dei bambini che tornano dalla guerriglia: «Se sei un soldato e hai fame, vai a fare una razzia in un villaggio e prendi quello che vuoi. Se sei bloccato in un campo come questo, non puoi neppure rubare: nessuno ha niente». Così un altro sorride pensando a quando faceva «la bella vita», quando aveva quattro mogli, quattro figli e un rifugio. Dopo Iron fist sentì parlare dell’amnistia e decise di consegnare le armi. Oggi «non potendo sostenere la propria famiglia e preoccupato della propria sicurezza, si domanda se ha fatto la cosa giusta».

1 Christian Aid, The politics of poverty. Aid in the new Cold War, London 2004.

2 Afferma Christian Aid: «Durante la Guerra fredda, dal 1950 al 1989, gli Stati Uniti hanno consegnato all’Africa armi per 1,5 miliardi di dollari. Molti dei migliori clienti delle armi statunitensi – Liberia, Somalia, Sudan e Repubblica democratica del Congo – si sono dimostrati i campioni negli anni novanta in termini di violenza, instabilità e crollo economico» (11).

3 L’OCSE è l’organismo che a partire dal 1960 ha come scopo quello di «contribuire a un sano sviluppo nei paesi membri e non membri, fornendo aiuti e assistenza tecnica ai paesi in via di sviluppo; favorire l’espansione del commercio mondiale su base multilaterale e non discriminatoria, cercando di eliminare o, comunque, di ridurre gli ostacoli di qualsiasi tipo agli scambi internazionali».


articolo tratto da Il Regno logo


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