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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Maria Elisabetta Gandolfi

Bambini della notte

"Il Regno" n. 10 del 2004

Intervista a mons. John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu


Bologna, maggio 2004. Incontro mons. John Baptist Odama di passaggio in Italia per una serie di conferenze sull’immane tragedia che da 17 anni vive il Nord dell’Uganda. È appena tornato da Tokyo, dove come presidente dell’Acholi religious peace’s leaders initiative, ha ritirato un premio per la pace istituito dalla Fondazione Niwano, che sceglie annualmente persone od organizzazioni che si sono distinte per aver contribuito in maniera significativa alla realizzazione della pace attraverso il dialogo interreligioso.1

È molto disponibile a incontrare i giornalisti, anche perché il mondo conosca le sofferenze del suo popolo.

– Eccellenza, è corretto parlare di genocidio per descrivere ciò che sta accadendo nell’Uganda del Nord?

«Ritengo di sì. Qui si tratta di una popolazione che sta lentamente sparendo, uccisa dalla guerra vera e propria, dalle malattie, dalla fame e dalla mancanza di istruzione: questi sono tutti strumenti di guerra usati contro la popolazione. Quando un popolo è costretto dal governo, in nome della sicurezza, a vivere in campi dove al di fuori degli aiuti internazionali non vi è nulla ed è lasciato morire quando questi aiuti sono finiti, penso sia corretto dire che si tratti di un vero e proprio genocidio. Si tratta di un’immensa tragedia umana.

Pendolari della notte

Si vive degli aiuti del programma alimentare mondiale. Se gli aiuti non arrivano, si muore di fame. E se non si muore di fame, c’è l’AIDS. Nei campi di raccolta l’HIV si sta diffondendo rapidamente e mentre la percentuale di sieropositivi nel resto del paese sta scendendo, nei campi del Nord è raddoppiata. Non abbiamo i fondi per i farmaci antiretrovirali. Il sottosegretario generale per le questioni umanitarie e coordinatore per gli aiuti in caso di emergenza dell’ONU, Jan Egeland, visitando l’Uganda ha detto: “Guardare gli occhi di un bambino che è stato ripetutamente brutalizzato, torturato o stuprato come ho fatto io visitando l’Uganda del Nord, significa non dimenticare mai più quello che vi hai visto dentro. La violenza su questi bambini è una delle più gravi nel mondo ed esige un’azione urgente e coordinata”. Egli ha definito la situazione di Gulu e di Kitgum, i due distretti dell’area acholi, una delle più sconosciute e dimenticate crisi umanitarie del mondo, ma sicuramente la peggiore, peggiore dell’Iraq, queste le sue parole!

È rimasto impressionato da queste file di bambini, “pendolari della notte” (night commuters) che ogni sera vanno alla ricerca di un rifugio sicuro dove poter dormire e si assiepano nelle stazioni degli autobus, nei cortili delle missioni e degli ospedali. A volte sono file di 6.000 bambini. Hanno paura che restando nelle proprie case potrebbero venire rapiti dal Lord resistance army (LRA), il gruppo guidato dal sanguinario leader Joseph Kony, che dal 1994 combatte l’esercito ugandese, usando come truppa i bambini che rapisce nei villaggi. Si pensa che siano almeno 25.000 i bambini rapiti dall’inizio della guerra (cf. qui sopra).

Egeland ha promesso d’impegnarsi perché tutte le risorse diplomatiche, politiche ed economiche siano usate per porre fine a questa crisi».

Un conflitto regionale

– A chi interessa questa guerra?

«Il LRA riceve armi dal governo sudanese; l’esercito ugandese riceve aiuti principalmente dagli Stati Uniti che contemporaneamente finanziano anche la guerriglia del Sudan del sud, in particolare la formazione principale del Sudan’s people liberation army. Nessuno lo ammette in via ufficiale, ma tutti sanno che è così. In questo modo il conflitto tra esercito ugandese e LRA è parte di un insieme più grande. Se infatti fosse circoscritto a queste sole due formazioni, in poco tempo l’esercito potrebbe avere la meglio su Kony. Invece si combattono attraverso l’annientamento della popolazione civile.

È quindi evidente la mancanza di volontà politica per porre termine a questo conflitto, perché in contemporanea il presidente ugandese Museveni ha mandato le proprie truppe a combattere in Congo (ex Zaire) e in Sudan. Significa che non si vuole risolvere la guerra, ma mantenerla.

Allo stesso tempo noi osserviamo una cosa: quando ci sono gli attacchi dei ribelli, i soldati non ci sono mai, pur avendo le proprie postazioni e caserme in Nord Uganda. Arrivano sempre dopo, a volte anche alcuni giorni dopo; e, di solito, terminano il “lavoro” incompiuto dai ribelli: saccheggiano e distruggono ciò che rimane».

– Oltre all’evidente crisi a livello umanitario, quali sono le conseguenze sulla vita della popolazione?

«S’immagini che cosa significa una vita trascorsa nella boscaglia o nei campi di raccolta; per alcuni il concetto di casa semplicemente non esiste. Una vita dignitosa, strutturata attorno alla famiglia, per alcune generazioni è un’idea sconosciuta. So di un bambino, abituato ad andare nella boscaglia a dormire tutte le sere con la madre. Un giorno la madre decide di trasferirsi in città, a Gulu. E quando finalmente sono in una casa, con la luce elettrica, il bambino diventa inquieto e protesta che vuole tornare a “casa” nella boscaglia, dove tutte le sere andava a dormire.

Questo significa una vita trascorsa nella guerra, nella precarietà. Queste sono le principali vittime della guerra: i bambini e le donne. I bambini sono il nostro futuro: se essi sono uccisi fisicamente o nell’animo, ciò significa che viene uccisa la società intera. Per noi le madri sono come il granaio dove si trova il cibo di cui ciascuno ha bisogno per il proprio futuro. Ma se anch’esse sono colpite, tutti noi lo siamo. Molte di loro si chiedono perché avere dei figli se poi devono vederli diventare degli assassini o vittime di crudeltà: stuprati, torturati, uccisi.

Inoltre, gli acholi, popolazione tradizionalmente abituata a vivere su ampi spazi e proprietà legate alla famiglia estesa, con molti animali, in spazi aperti, sono costretti dal governo a vivere in campi profughi affollati, a motivo della sicurezza. Su una popolazione di 1,4 milioni di acholi, 900.000 sono sfollati e vivono rinchiusi in una sessantina di campi. Assieme all’etnia lango gli sfollati diventano 1,5-1,6 milioni. La vita in cattività li sta uccidendo».

Denunciare innanzitutto
– Che cosa sta tentando la Chiesa cattolica, in particolare?

«Come cattolici abbiamo un ruolo molto importante. Ho pubblicato due lettere pastorali molto decise. La prima era intitolata Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido (cf. Es 3,7): in essa ho descritto le sofferenze patite in particolare dai bambini e dalle loro madri. Ma ho anche affermato che occorre che questa situazione sia gestita dal governo sia a livello nazionale sia a livello internazionale. La comunità internazionale, in un’epoca di villaggio globale, non può ignorare quello che accade nella porta accanto.

Poi ho scritto una seconda lettera pastorale sul tema della riconciliazione e del pentimento. Mi sono prefisso di dire alla gente che questa guerra ha fin troppo danneggiato la nostra società, tante vite sono state spezzate: abbiamo pertanto bisogno di riprendere consapevolezza, pentirci, convertirci e tentare di estirpare questo crimine. Il primo passo è la riconciliazione tra chi ha compiuto i crimini e chi li ha subiti.

Naturalmente ho dato molte altre dichiarazioni in cui ho parlato apertamente, per esempio contro le milizie su base etnica incoraggiate dal governo. In questo modo il governo eccita gli animi a partire dall’appartenenza etnica, mettendo un gruppo contro l’altro, soprattutto i tesso e i lango contro gli acholi, identificati con il Lord resistance army di Kony. Così gli acholi sono doppiamente vittime, di Kony innanzitutto, egli stesso un acholi, e dei gruppi etnici confinanti. Ho sentito io stesso dalla sua viva voce un capo villaggio tesso dire ai suoi: “Dovete uccidere ogni ragazzo acholi dai 18 anni in su, perché sicuramente fa parte del LRA”.

Inoltre mi sono espresso contro la militarizzazione della popolazione civile, come se la soluzione alla crisi potesse venire dal mettere armi nelle mani della popolazione civile e farla combattere a fianco dell’esercito. L’esercito è addestrato a combattere, i civili no: sarebbero i primi a morire. Così la vita dei civili è nuovamente messa in pericolo anziché protetta.

Per questa dichiarazione vi è stata una protesta dello stesso presidente Museveni, che ha detto: “Quel vescovo porta la gente fuori strada”.

Oltre alle dichiarazioni, come Chiesa cattolica siamo molto impegnati nel campo assistenziale: innanzitutto verso i bambini pendolari della notte. Quando vengono alle missioni o ai nostri ospedali, approfittiamo dell’occasione per dargli un po’ d’istruzione, per nutrirli, per curarli. In questi centri vi sono anche operatori delle ONG specializzati nell’ascolto e nella consulenza per questi bambini. Lì vi sono unità specializzate per il recupero dei bambini soldato».

Restituire ai bambini la vita
– Sono recuperabili questi bambini?

«Sì, perché la giovane età ancora lo consente. Vi sono programmi che insegnano oltre a leggere e scrivere, alcune attività pratiche, come il cucito, la cura della casa, il cucinare. Anche la Caritas ci aiuta in questo, fornendo vestiti e qualche strumento utile per iniziare una nuova vita. Sul recupero dei bambini-soldato lavorano anche l’AVSI, Save the children, la Croce rossa internazionale e anche una ONG locale, chiamata Gulu support the children organization, che è specializzata per i bambini che sono stati rapiti dal LRA o che sono nati da ragazzine rapite da loro. Un tempo c’era anche l’UNICEF, ma poi per ragioni di sicurezza si è ritirato».

– Che ruolo ha avuto e sta avendo l’Acholi religious peace’s leaders initiative?

«Il gruppo è sorto nel 1997 e inizialmente i rapporti non sono stati facili; oggi tuttavia possiamo dire di aver compiuto molta strada insieme. Ci troviamo regolarmente cattolici, anglicani, ortodossi e musulmani, per parlare della situazione. Nel 2003 abbiamo anche compiuto insieme un gesto simbolico che ha avuto una certa eco sulla stampa: assieme agli altri leader religiosi per quattro notti siamo andati a dormire alla stazione degli autobus di Gulu, dopo aver fatto cinque chilometri di cammino con la nostra coperta e con i nostri compagni-bambini pendolari della notte, alcuni dei quali avevano appena cinque anni. Dormire al freddo, per terra, magari sotto la pioggia e con i morsi della fame è una condizione comune a quasi 20.000 bambini del Nord Uganda e noi abbiamo voluto condividerla con loro, ascoltare le loro paure, le loro domande, le loro richieste.

Come leader religiosi siamo anche impegnati a vari livelli per tentare ogni via di pacifica mediazione del conflitto; abbiamo tentato anche qualche contatto con le comunità anglicane e cattoliche del sud Sudan, ci siamo incontrati un paio di volte ma non è un’iniziativa a cadenza regolare.

Abbiamo poi steso una dichiarazione congiunta indirizzata alla comunità internazionale. In essa chiediamo la fine del conflitto attraverso un negoziato, presieduto da un mediatore esterno; chiediamo un fattivo impegno dell’ONU e del Consiglio di sicurezza; chiediamo che i governi maggiormente influenti sull’Uganda esercitino pressioni in tal senso; chiediamo che non vengano date armi al LRA; chiediamo che la protezione dei bambini sia patrocinata al di sopra e prima di ogni altra considerazione politica; chiediamo che una missione di osservatori possa vigilare sul rispetto dei diritti umani; chiediamo infine che gli aiuti per l’Uganda siano più generosi».

1 Vincitori delle scorse edizioni sono stati, tra gli altri: Nevé Shalom/Wahat al-Salam, il card. Arns, mons. Samuel Ruiz Garcia, la Comunità di S. Egidio, Helder Camara, il Congresso mondiale musulmano; Kang Won Yong, leader presbiteriano sudcoreano; Abuna Elias Chacour, prete cattolico palestinese.

Desidero ringraziare in particolare i gruppi Centro studi G. Donati – associazione bolognese di studenti universitari ed ex studenti nata per iniziativa di don Tullio Contiero, che da oltre trent’anni è presente in Università e organizza conferenze sui temi della giustizia, dell’economia, dei rapporti Nord/Sud del mondo, un viaggio di studio in Africa e attività di volontariato cittadino – e Good Samaritan sezione di Bologna – associazione ONLUS che sostiene le attività di suor Dorina Tadiello, comboniana, a fianco dei malati di AIDS di Gulu –, per la disponibilità e per i materiali fornitimi.


articolo tratto da Il Regno logo


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