Il Patriarca caldeo Raphael I Bidawid: ancora quanto?
Mons. Bidawid, sono passati più di dieci anni dall’inizio dell’embargo. Come sono stati?
"Sono stati molto critici, specialmente per il popolo, i cittadini ordinari, i quali si sono trovati in condizioni molto difficili per la loro sussistenza, per esempio per quanto riguarda la salute pubblica, l’igiene: non avendo i mezzi necessari sono cresciute le malattie mortali. Tra i miei fedeli in questi ultimi anni la morte è stata spesso causata da attacco cardiaco, infarto, embolia, cancro. La guerra ha fatto sì che mancassero i mezzi necessari per proteggere e difendere la loro vita. Questo si ripercuote anche sulla vita morale.
Molte famiglie sono partite in esilio per cercare una vita migliore. Purtroppo registriamo parecchie "defezioni" specialmente tra i nostri giovani: si sono trovati in paesi delle volte alquanto ostili, non hanno avuto incoraggiamento e aiuto e sono caduti nel giro della malavita; abbiamo casi simili in Turchia, in Grecia, anche in Europa. I nostri fedeli che si trovano adesso fuori del territorio nazionale chiedono un’assistenza religiosa per la quale non siamo preparati, non abbiamo il numero sufficiente di sacerdoti. Ad esempio, in Germania abbiamo un sacerdote per una quindicina di centri e forse ce ne sono altri che non abbiamo ancora conosciuto".
– Come mai nonostante le parole del papa, nonostante l’intervento di istituzioni e personalità, non si riesce a convincere gli Stati Uniti a togliere l’embargo?
"Perché i loro interessi economici sono superiori a tutti i valori ai quali noi crediamo e difendiamo. Il petrolio per loro è dio, mammona. Inoltre c’è dietro la questione israeliana. Gli USA sono tenuti a difendere l’indipendenza del popolo ebraico, questo si sa. Sono pronti a sacrificare tutti gli arabi e i loro interessi per salvare Israele. Che Israele sia minacciato è fuor di dubbio; è sempre minacciato dall’esistenza degli arabi, che un giorno riuniti non rimarranno con le mani in mano. Presso gli arabi è conosciuta la vendetta, anche dopo 40, 100 anni. Il tempo non lavora per Israele, se non saprà riconciliarsi con gli arabi, fare i conti precisi con loro, restituendo a ciascuno il proprio diritto".
– Quando finirà questo embargo?
"Me lo sono sempre domandato e continuamente mi domando quando e come finirà, ma non ho trovato ancora la soluzione. Io credo che sia lunga, perché le due parti sono una più testarda dell’altra; non ci sono le disposizioni per un’intesa, per un dialogo; ci si mette nella logica del "o tutto o niente"".
– L’Iraq ha o non ha le "armi micidiali" di cui si parla? È forse un’invenzione degli Stati Uniti per tenere sotto pressione Saddam Hussein?
"Io credo che non le abbia, o forse avrà qualche componente, ma non ci sono armi così come gli USA sostengono, e non c’è il pericolo che vengano usate, perché, dopo quanto è successo, credo nessuno pensi a fare una guerra adesso, perché sanno che sarebbe un finimondo".
Qualcosa si muove?
– Saddam Hussein è cambiato in questi dieci anni?
"Io lo trovo sempre più deciso, sempre più forte, sempre più convinto delle sue idee politiche. I fatti lasciano credere a lui di aver ragione, perché difende i diritti del suo popolo; forse non sempre riesce, ma io credo sia deciso ad andare fino in fondo, non mollerà, né ritornerà indietro. Per me questo è sicuro, conoscendo la psicologia del presidente, il suo carattere: è un uomo che non molla".
– Gli avvenimenti di questi giorni in Medio Oriente, la repressione israeliana, l’Intifada, la risposta governativa sono fonte di preoccupazione anche per voi?
"Certamente, perché anche il nostro popolo si è presentato volontario per la difesa della Palestina; i nostri giovani sono di nuovo sul fronte. Ci sono alcuni giovani che hanno prestato 10-12 anni di servizio militare, hanno appena fatto la guerra e non credo siano disposti ora a mettere la loro vita in pericolo, visto che fino a oggi tutti gli sforzi non sono serviti a niente. Dovranno fare il loro dovere domani se dovesse scoppiare una nuova guerra, e certo l’Iraq sarà in prima fila, secondo quello che vediamo. 6-7 milioni di persone si sono presentate per arruolarsi nell’esercito di liberazione della Palestina. Forse sono numeri un po’ esagerati, ma dicono ugualmente qualcosa. C’è pericolo per i nostri giovani, e nessuno vorrebbe mandare il proprio figlio alla perdizione per una causa che è nostra e non è nostra".
– Del viaggio del papa non si parla più?
"Se ne parla ancora. Stiamo tentando di riprendere il discorso col Vaticano. Naturalmente il santo padre è sempre disponibile. Quando di recente siamo andati a salutare il papa all’aeroporto, prima della sua partenza dalla Siria, gli ho detto: "Speriamo che la prossima tappa sia l’Iraq, santità". Il card. Sodano ha detto: "Se a Dio piace..." e il santo padre ha fatto un gesto che mostrava desiderio. Il Vaticano vorrebbe un invito formale da parte del governo iracheno. Stiamo tentando questa strada. Il card. Sodano incontra il papa più volte alla settimana per discutere questioni di politica internazionale. "Ogni volta che mi trovo con lui – dice il card. Sodano – il papa si domanda: ma perché questi iracheni non mi hanno lasciato ad andare a Ur?". Lo ripete sempre, vuol dire che c’è un desiderio profondo per questo viaggio".
– Ha avuto modo di parlarne direttamente con Saddam Hussein?
"Lo stiamo facendo, ma naturalmente non vogliamo fare troppo rumore".