Le difficoltà e le speranze: reportage da un paese prostrato
Viaggio in Iraq. L'embargo occidentale e la crescita della povertà tra la popolazione. La fine del ceto medio. La Chiesa caldea alle prese col proprio rinnovamento interno. Il Kurdistan iracheno e le nuove trattative di pace.
Una Chiesa in grande difficoltà insieme al popolo a cui appartiene, ma che non abdica al proprio ministero di annuncio, dialogo e promozione della giustizia. È l'immagine che si ricava dai resoconti del viaggio, che due nostri inviati hanno compiuto in Iraq dal 14 al 21 maggio scorsi. In quei giorni si svolgeva a Baghdad la V Conferenza delle Chiese cristiane, organizzata dalla Chiesa caldea su invito del Ministero per gli affari religiosi. Il viaggio ha compreso anche una tappa significativa nella regione del Kurdistan iracheno.
L'Iraq a dieci anni dalla fine della guerra del Golfo si trova ancora sotto il peso schiacciante degli effetti della guerra e di un embargo, che ha ridotto gli iracheni in un grave stato di precarietà. Anche i cristiani, che sono circa il 2,7% della popolazione, e che un tempo erano piuttosto benestanti perché avevano il monopolio del settore dei servizi, ora vivono in estrema povertà. La Caritas irachena, fondata nel 1992, riesce ad aiutare grazie ai suoi contatti internazionali 40.000 famiglie.
Difficoltà sono emerse anche nell'ambito più specificamente ecclesiale. La Chiesa caldea, guidata dal patriarca Raphaël I Bidawid (cf. in questo numero a p. 000), ha subito una forte delusione per l'annullamento della visita di Giovanni Paolo II a Ur, programmata per il gennaio 2000 nell'ambito del pellegrinaggio giubilare ai luoghi legati alla storia della salvezza. Si tratta dell'unica tappa che il pontefice non è riuscito a realizzare, tra quelle che aveva delineato nella sua lettera del 1999. È una Chiesa divisa al proprio interno, vicina al governo di Saddam Hussein, instancabile nel levare la voce per proclamare l'ingiustizia dell'embargo e nel chiederne la rimozione. (Red.)
La V conferenza delle Chiese cristiane
Vista da Baghdad, la V Conferenza delle Chiese cristiane è stata un discreto successo. Rappresentate quasi tutte le Chiese, le prime file erano molto variopinte a testimoniare la ricca diversità delle comunità cristiane più antiche. Vasta l’eco della stampa nei media nazionali. I partecipanti erano circa 300, nonostante l’elevatissimo costo di registrazione. Almeno la metà dei presenti mostravano di provenire da paesi occidentali; numerosa (e complessata) la presenza americana; sorprendentemente consistente quella asiatica, per la quasi totalità in rappresentanza delle organizzazioni pentecostali, che trovano anche qui un terreno fecondo per un proselitismo d’impatto.
Come le edizioni precedenti (cf. Regno-att. 14,1998,482), anche quella del 15-20 maggio 2001 ("La Chiesa al servizio della pace e dell’umanità") è stata promossa dal Ministero per gli affari religiosi e affidata per la realizzazione alla Chiesa caldea, la quale ha provveduto a diramare gli inviti e ha moderato lo svolgimento attraverso il domenicano p. Youssif Thomas, unica presenza stabile al tavolo della Presidenza, al quale si alternavano i leader delle Chiese presenti.
La sala del Melia Hotel tappezzata di striscioni con slogan in più lingue quali "La Chiesa ha un ruolo importante per la rimozione dell’embargo", o "Iraq, il paese della fertilità spirituale". Sul fondo della sala, di lato una gigantesca fotografia di Saddam Hussein ornata da una pianta di fiori. Quando i relatori evocavano più o meno direttamente il nome di Saddam – al quale si faceva riferimento con appellativi quali "il nostro saggio presidente" –, scoccava puntuale l’applauso, al quale non si sottraevano le prime file.
A differenza delle edizioni precedenti, il programma di quest’anno prevedeva due giornate intere di visite, sia ai luoghi dove più evidenti sono gli effetti micidiali dell’embargo (come gli ospedali per bambini), sia ai siti archeologici cari alla tradizione cristiana (Ninive, Ur, Babilonia).
Fitto il programma degli interventi; piuttosto ridotto, invece, l’indice dei temi. Il punto di confluenza era quasi sempre l’embargo, per cui a partire da riflessioni di natura storica o biblica o sociale si finiva per mettere in evidenza la ricchezza di civiltà e di tradizione religiosa ospitata dalla terra fra i due fiumi, mortificata dall’incivile arroganza delle sanzioni. Esse non sono soltanto un’azione politica ed economica; portano in sé una valenza antropologica – così si diceva – perché violano l’originaria dignità dell’uomo, e per questo interpellano direttamente il ministero delle Chiese. Se nel messaggio evangelico affidato alla Chiesa la giustizia è uno dei valori più alti e segno del regno di Dio, qui in Iraq si sperimenta la negazione intenzionale di questo valore.
La storia europea del secolo scorso mostra come anche alle nazioni che hanno causato e perso la guerra sia stata offerta l’opportunità di riprendersi, come abbiano ritrovato floridità e non siano più una minaccia. Il viceministro della sanità, Al-Jalam, ha illustrato una nazione esangue, svuotata delle possibilità di riprendersi dalla distruzione della guerra di dieci anni fa: "Di solito i paesi colpiti dalla guerra rinascono con la ricostruzione, ma da noi la ricostruzione è stata impedita dalle sanzioni. La salute non dipende solo dalle medicine e dai medici, ma anche dalla disponibilità di cibo, energia, strutture per la garanzia dell’igiene. Ogni aiuto è utile, ma ciò di cui abbiamo veramente bisogno è il ritiro delle sanzioni". In seguito a un allentamento dell’embargo sui medicinali (1996), ora questi prodotti vengono fatti passare alla frontiera, autorizzando il relativo pagamento, ma non viene verificata né l’utilità né la scadenza e spesso i tempi burocratici fanno sì che i medicinali arrivino a destinazione inutilizzabili.
L’embargo, inoltre, impedisce di far studiare all’estero i medici iracheni. Proprio nei giorni della conferenza le agenzie battevano la notizia della proposta che il ministro degli esteri inglese R. Cook (escluso dalla nuova formazione del governo Blair) ha avanzato per una modifica delle condizioni d’embargo, "mettendo fine alle sanzioni sulle importazioni ordinarie e sostituendole con un insieme di controlli specifici sui componenti militari e di utilizzo promiscuo". Cook si sarebbe assicurato l’assenso di tre altri membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU con potere di veto (Francia, Russia e Cina), ma per ora è l’Iraq stesso a respingere la proposta, puntando a una rimozione totale dell’embargo. "Anche se le sanzioni avessero termine domani – dice un rapporto della Commissione internazionale della Croce rossa dello scorso anno –, ci vorranno anni prima che il paese torni alle condizioni di vita precedenti la guerra".
Preghiera per il popolo iracheno
La V Conferenza ha siglato i lavori con una dichiarazione che è ammissione implicita della propria debolezza politica e consegna le speranze alla preghiera: "I partecipanti alla V Conferenza delle Chiese cristiane chiedono la fine immediata dell’embargo imposto all’Iraq perché costituisce una violazione delle leggi internazionali in materia di dignità e di diritto dell’uomo. Auspicano inoltre che cessi lo sfruttamento dell’embargo per motivi politici, dal momento che l’embargo uccide il popolo indiscriminatamente. Propongono di fissare la "Giornata dell’Iraq" durante la quale si preghi, in tutte le chiese del mondo, per il popolo iracheno".
La conferenza stessa ha chiuso con una preghiera ecumenica intensa e ben preparata dai caldei del Seminario S. Pietro di Baghdad, alla quale hanno partecipato tutti i leader delle Chiese d’Iraq. Una liturgia nella quale si chiedeva di essere liberati da ogni male, anche e prima di tutto da quello che alberga nello spirito e ci induce all’odio e al risentimento. "Chiediamo il tuo perdono per ogni volta che non siamo stati missionari di pace, amore e verità in una società che ha perso il rispetto per la vita e i suoi valori per paura, ignoranza o interesse", diceva l’orazione conclusiva; "Noi popolo dell’Iraq ti preghiamo, o Signore, perché seguendo l’esempio dei nostri padri siamo radicati alla nostra terra, dediti alla nostra nazione, ci spendiamo per vivere in pace l’uno con l’altro, illuminati da verità, amore, fraternità e unità". L’invocazione è stata siglata dall’irruzione fuori programma di una colomba che, entrata nella cattedrale dalle porte aperte per il caldo, si è andata a posare sul grande crocifisso troneggiante sull’abside.
È sembrata la risposta a quello che un partecipante canadese aveva detto al mattino in assemblea: "Sono venuto aspettandomi di sentire molti pensieri, ma temo che, per essere noi un’assemblea di cristiani, i pensieri che ho sentito siano "troppi" e troppo diversi. Dobbiamo lavorare di più perché i cristiani siano uniti".
Chiesa caldea ancora in alto mare
Che l’antica Chiesa caldea, risalente alla predicazione dell’apostolo san Tommaso e dei suoi discepoli Addai, Aggai e Mari, non stesse navigando in acque tranquille ne demmo notizia già nei numeri 4 e 14 de Il Regno del 1998 con un intervento di p. Y. Habbi – professore all’università di Mosul e al Pontificio istituto orientale di Roma, consulente dei patriarchi cattolici d’Oriente, rettore del Collegio Babel di Baghdad, morto di recente in un incidente stradale – e con la pubblicazione di una lettera aperta, firmata da una ventina di sacerdoti di Baghdad, al patriarca Bidawid e ai vescovi.
Pare che non abbia portato frutto il sinodo caldeo convocato a Roma da Giovanni Paolo II (12-16.6.2000), al quale parteciparono i vescovi caldei con il discusso patriarca Bidawid, l’allora prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il card. Silvestrini con cinque ufficiali della Curia vaticana e il nunzio apostolico in Iraq, che allora era mons. G. Lazzarotto.
Continuano a circolare lettere di protesta e alcune sono state rese pubbliche. A esser preso di mira è soprattutto il patriarca Raphaël I Bidawid, ritenuto uomo di grande intelligenza, di straordinario fiuto politico, ma incapace di reggere la Chiesa, che ha bisogno di un profondo rinnovamento. È tale l’atmosfera che un buon numero di preti s’è rivolto al nuovo prefetto della Congregazione, il card. Moussa Daoud, già patriarca dei siri, chiedendogli di procedere a una visita canonica per porre fine a una situazione di caos e sofferenza. Si parla di "debolezza" della direzione gerarchica nell’affrontare le difficili sfide di una situazione, che si va incancrenendo a motivo della stagnazione imposta dall’embargo.
Le lagnanze: i vescovi sono deboli, vecchi, al di fuori del tempo, incapaci di rapporti sereni e costruttivi con i preti e i laici. Non hanno ancora messo in pratica gli orientamenti del Vaticano II per quanto riguarda gli organismi di partecipazione previsti dallo stesso Codice. E la Chiesa langue. Le diocesi non comunicano tra di loro, e al loro interno gruppi di pressione creano tensione, spaccature, polarizzazioni. Si parla di caos nell’ambito della liturgia, di improvvisazione nella catechesi, di mancanza di piani pastorali, di paralisi.
Si celebri un sinodo
Ha fatto parlare una lettera dell’allora prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il card. Silvestrini, del 4 luglio 2000, all’indomani della celebrazione del sinodo caldeo a Roma. La lettera continua a circolare in arabo ed è citata da quanti vogliono la riforma radicale della gerarchia caldea. Una lettera dolce nel tono, ma risoluta e chiara nel contenuto, con alcune precisazioni che meritano attenzione. Il sinodo caldeo è stato voluto personalmente dal papa a Roma, lontano dai conflitti, dai problemi, dalla pressione di gruppi. Ma si celebri un sinodo della Chiesa caldea sul posto e sia preparato bene, per evitare la fine di quello del 1998, che fu un fallimento.
C’è un preciso richiamo al patriarca Bidawid. Non s'allontani troppo spesso dal paese e segua più da vicino i fedeli e si renda conto di persona di quanto avviene nella vita della sua Chiesa e nel tormentato paese.
È risaputo che il patriarca ama viaggiare e assentarsi per lunghi periodi, demandando fino a poco tempo fa al suo ausiliare, mons Delly, ora in non buona salute, la gestione dell’attività pastorale. Spetta al patriarca trovare la strada per la convocazione di un sinodo che sia espressione di tutte le forze vive della comunità caldea. Gli viene rimproverato di ascoltare solo quelli che gli fanno comodo. Anche i vescovi vengono richiamati a non lasciare le diocesi, se non per motivi gravi.
Le discussioni sui candidati all’episcopato sono state molte e di accesa animosità. Si è arrivati a veri scontri. Il motivo: nella lista avevano trovato posto solo i fedelissimi del patriarca, il quale non aveva preso in considerazione i pareri delle varie componenti ecclesiali.
Abbiamo colto espressioni insolite per l’Oriente, che ci tiene gelosamente alla sua autonomia: "Perché Roma sta a guardare? Perché Roma non nomina direttamente i vescovi? Che cosa aspetta? che si tocchi il fondo? che la comunità caldea si sfasci? Perché non mette fine a questa commedia-tragedia delle nomine?". Siamo stati informati che il patriarca e il suo gruppo di fedelissimi in un sinodo tenuto a Beirut hanno predisposto una lista di candidati all’episcopato senza tenere conto dell’indicazione del card. Silvestrini di formare una commissione di preti e laici con lo scopo di presentare nuovi candidati all’episcopato. Roma avrebbe accettato senza discutere i candidati, pur sapendo che alcuni erano in grosse difficoltà con il clero e i fedeli. Più volte abbiamo sentito la parola "farsa" e parole pesanti nei confronti dei tre nuovi vescovi.
Confessiamo di avere provato un certo disagio nell’ascoltare lamentele legate al mondo ecclesiastico, nel vedere animosità. E un forte imbarazzo nel vedere contemporaneamente l’Iraq lungo la china di una lenta agonia, in numerosi aspetti della sua vita.
Agonia fisica a causa della fame e della denutrizione (un rapporto del governo di Saddam denuncia che quasi diecimila iracheni, per lo più bambini, sono morti nel mese di marzo a causa della mancanza di medicinali). Oltre 6.500 bambini sono morti per malnutrizione e dissenteria, mentre 3.099 adulti sono deceduti soprattutto per malattie cardiache e tumori, provocati dall’uso di proiettili all’uranio impoverito da parte delle truppe americane e britanniche durante la guerra del Golfo. Le cifre sono state confermate nel corso della V Conferenza cristiana.
Agonia morale (frodi, corruzione, prostituzione), benché il presidio ossessivo di uno stato di polizia riduca la criminalità comune a tassi meno preoccupanti di quelli occidentali. Agonia culturale: molti non vanno a scuola perché è prioritario procurarsi da mangiare; prima dell’embargo c’era molta più motivazione allo studio. A una trentina di chilometri da Mosul un giovane prete ci ha detto che la Chiesa ha individuato come servizio l’organizzazione di un parco di autobus per portare gli studenti a scuola gratuitamente. Agonia economica: è difficile vivere con 5-10 dollari al mese, quanti sono quelli garantiti da uno stipendio di base! Diventa imperativo organizzarsi per dar vita a qualche altra attività, non sempre riconducibile a chiari confini legali. Gli iracheni stanno cercando d'adattarsi alla situazione, anche perché è convinzione diffusa che l’embargo durerà ancora molto a lungo. "L’Iraq è morto – ci diceva un tassista, gli unici che si fidano a parlare con degli stranieri contando su un certo anonimato – e io non ho nessuna intenzione di investire soldi per il futuro, nemmeno per riparare la mia casa dai danni della guerra".
Di fronte a queste "morti", un’esasperata – sia pure legittima e fondata – critica nei confronti della gerarchia può essere fuorviante. Addirittura offensiva nei termini: "La politica del presidente Saddam e del patriarca Bidawid è di corrompere la gente e di portarla alla disperazione per poter regnare". Meglio insistere sulla "fraternità", di cui parla la lettera del card. Silvestrini. Il pericolo c’è: le continue e persistenti beghe ecclesiastiche non consentono di far emergere la fede dei caldei, che ci ha invece profondamente colpiti. Né di mettere a frutto le opportunità di una Chiesa che gode di una libertà d'azione e di una stima effettiva decisamente eccezionali nel contesto dei paesi islamici.
Kurdistan iracheno verso l’unità?
Nel corso del nostro viaggio abbiamo fatto tappa anche nel Kurdistan iracheno. Sono tre le regioni autonome che lo compongono: Arbil, Dahuk, Sulaimaniya, con una supeficie di 38.650 kmq e una popolazione di 2.361.900 abitanti. È dal 1970 che i curdi dell’Iraq godono di una specie d'autonomia, ritenuta però dai più insufficiente. A seguito della guerra del Golfo del 1991, personale dell’ONU è presente nel Nord del paese per proteggere la popolazione curda, che ha ripreso a battersi per la completa autonomia del territorio. Le forze aeree di USA, Inghilterra, Francia e Turchia, su mandato dell’ONU, impediscono il volo agli aerei e agli elicotteri militari iracheni a Nord del 36° parallelo. Zona militare rigidamente controllata.
Difficilissimo ottenere il permesso per entrarvi. Ci siamo riusciti e abbiamo varcato il confine tra l’Iraq e il territorio curdo. Paesaggio montagnoso, di rara bellezza. Alberi, torrenti e perfino montagne innevate; tende scure di beduini e greggi al pascolo. Strada che s’inerpica e poi scende, lambendo amene vallette guardate a vista da frequenti postazioni; qua e là fortezze che ricordano una lunga storia d'indipendenza costosa.
La cittadina di Dahuk si presenta vivace, bene ordinata, con una certa cura nell’architettura. Sui tetti delle case si vedono le parabole della TV via satellite e per le strade la pubblicità dei telefoni cellulari. La gente affolla il mercato, dove si può trovare di tutto; per lo più merce che viene dalla Turchia. Al supermercato, un edificio nuovo e ben curato, si acquista solo con i dollari. Roba occidentale, le firme più rinomate, a prezzi più o meno occidentali. Lo frequenta per lo più il personale dell’ONU. Un anziano prete caldeo, che ci fa da guida, sprigiona gioia e, quanto a lui, non ha dubbi: entro breve il Kurdistan iracheno sarà unito.
Proventi da spartire
Sempre più insistente la voce che i due grandi partiti, il Partito democratico curdo (PDK) di Massud Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK) di Jalal Talabani, stiano per arrivare a un accordo. Controllano ciascuno metà del Kurdistan iracheno: Barzani a sud-ovest, Talabani a nord-est. Le due fazioni si contrappongono a motivo dei pedaggi per il passaggio dalla Turchia all’Iraq.
I trasporti internazionali provenienti dalla Turchia devono pagare, per attraversare il Kurdistan, una tassa assai consistente. Ne abbiamo incrociati di continuo lungo la strada verso Dahuk, anche se non si trattava della via di comunicazione principale. Si parla di due-tre milioni di dollari al giorno derivanti dai pedaggi. Il transito è controllato da Barzani. Quello per il Kurdistan orientale, verso l’Iran, controllato da Talabani, non dà un simile reddito. Ora le due fazioni stanno trattando per la spartizione delle entrate.
È contro ogni logica – ci viene detto – che entrambe le fazioni continuino ad avere una struttura propria con tanto di primo ministro e consiglio dei ministri. Ma si riuscirà ad amalgamare le oltre diciassette formazioni minori, alcune d’ispirazione cristiana, altre fondamentalista e altre ancora marxista?
L’instabilità continua a inquietare la popolazione. Il padre di Barzani fu il primo a mettersi contro il governo di Baghdad negli anni settanta e il figlio ne ha continuato la lotta. Chi lo conosce – e quanti abbiamo contattato ce lo hanno confermato – lo descrive come una persona intelligente e dotata. È per l’indipendenza del paese da raggiungere attraverso vie pacifiche.
Talabani è un avvocato di vasta cultura. Si è fatto conoscere e apprezzare all’estero e intrattiene rapporti con le diplomazie occidentali, Santa Sede compresa. Entrambi lottano per l’indipendenza del Kurdistan, ma non vogliono rinunciare alla leadership personale. "Lo dovrebbero fare", dice la gente, "per il bene del popolo curdo, stanco di lotte interne che lo fanno apparire agli occhi del mondo come selvaggio". È un’accusa che lo offende profondamente. Al contrario, il popolo curdo ha una tradizione culturale che sorprende e avvince. Poesia e canti, ballate e folklore passano di generazione in generazione e hanno infastidito i dittatori di turno, tanto da far di tutto per sradicarne la cultura.
Kurdistan diversi
Sgretolatosi l’impero ottomano, il Kurdistan venne smembrato. Ne ebbero una parte la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. Da decenni il popolo e la terra del Kurdistan conoscono persecuzioni, distruzioni, massacri. Si pensi che fino al 1991 in Turchia era vietato l’uso della lingua curda persino in privato. L’esodo è sotto gli occhi di tutti per lavoro e per sicurezza. È la Turchia la più ostile nei confronti dei curdi. Non pare abbia accantonato del tutto il progetto di riavere la fertile pianura di Mosul, l’antico territorio di Ninive, già provincia dell’impero ottomano. E andrebbe addirittura oltre, rivendicando Erbil e Kirkuk, il paradiso del petrolio.
La Turchia considera i curdi come un pericolo: sono l’11% della popolazione; più di un terzo del territorio nazionale è curdo. Vorrebbero le autonomie che sono garantite ai curdi iracheni, ma la Turchia non intende concedere nulla, per il timore di vedersi smembrare, stanti le consistenti entità demografiche in gioco, il tessuto sociale. In Iran la situazione dei curdi – il 7% della popolazione – è ancora peggiore. Per quanto strano, l’Iraq è l’unica entità statale a concedere qualche riconoscimento alla popolazione curda.
Di Saddam si preferisce oggi non parlare. Un tempo, il rifiuto del dittatore era totale, ricordando quello che fece in passato: interi villaggi rasi al suolo, prosciugate le sorgenti, bruciate con agenti chimici foreste e piantagioni, sterminate le mandrie. Ricorse a bombardamenti di villaggi con gas letali e diede ordine di disseminare i campi di mine.
Il Kurdistan deve però fare i conti con le potenze occidentali e soprattutto con gli Stati Uniti. Qualche anno fa ci dissero che è l’America a non volere l’indipendenza del Kurdistan. Il vicario generale di Erbil fu perentorio: gli Stati Uniti provocano tensioni all’interno e fanno i propri interessi. Il patriarca dei caldei Bidawid è ancora più schietto: "Gli americani hanno isolato il Kurdistan; stanno facendo ricerche nel sottosuolo. Stanno cercando metalli preziosi; hanno trovato uranio e stanno cercando ancora e in questo modo non c’è nessuno che li possa controllare. Se il Kurdistan iracheno fosse ancora controllato da Saddam non potrebbero fare quello stanno facendo. Adesso vanno e vengono. In Kurdistan c’è uranio, oro, alluminio, carbone per tutta l’Europa, gas. Gli americani sono là per depredare. Sul posto c’è una commissione di militari capeggiata da un ufficiale americano". A quando l’unità del paese? Bidawid: "I curdi vorrebbero tornare all’unità nazionale, però gli americani non lo consentono, perché i loro progetti non sono ancora conclusi. Quando avranno finito di depredare, diranno: "Adesso andate e riconciliatevi!"".