Chiese: tutti i no alla guerra
Proseguiamo (Regno-att 16,2002,506-7) la recensione delle più autorevoli prese di posizione di Chiese e confessioni religiose rispetto a una possibile guerra contro Iraq.1 A ritroso è possibile individuare una linea di demarcazione costituita dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU dell’8 novembre: la gran parte delle dichiarazioni, infatti, prima di tale data chiedeva insistentemente l’intervento delle Nazioni Unite per avere un quadro giuridico di riferimento. Ora che esso è definito, le argomentazioni dei due più importanti interventi sul "no" alla guerra (vescovi cattolici degli USA e Consiglio delle Chiese cristiane degli USA) puntualizzano gli aspetti morali e accentuano le considerazioni di opportunità politica complessiva di un intervento militare.
Ratzinger. Una prima posizione è quella espressa in una conferenza stampa (Avvenire 21.9.2002) del card. J. Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in margine al convegno della Fondazione Liberal su "Le due libertà", tenutosi a Trieste lo scorso 20 settembre. "È importante non attribuire semplicisticamente quanto è accaduto l’11 settembre all’islamismo – ha detto ai giornalisti –. Sarebbe un grande errore. È vero, nella storia dell’islamismo c’è anche una tendenza alla violenza, ma ci sono pure altri aspetti: una vera realtà di apertura alla volontà di Dio. È quindi importante aiutare affinché nel mondo islamico prevalga la linea positiva che pure esiste nella sua storia. E che abbia la forza sufficiente per prevalere sull’altra linea". Rispetto a un’eventuale guerra in Iraq, Ratzinger ha affermato che essa "in questa situazione" non avrebbe "certamente" giustificazione morale. Innanzitutto perché esiste un’organizzazione come l’ONU: "È necessario che a decidere sia la comunità dei popoli, non un singolo potere. E il fatto che le Nazioni Unite cerchino il modo di evitare la guerra mi sembra dimostri con sufficiente evidenza che i danni risulterebbero più grandi dei valori che si vuole salvare". Per quanto riguarda poi il concetto di "guerra preventiva", esso "non appare nel Catechismo", ha concluso Ratzinger: "Non si può semplicemente dire che il Catechismo non legittima la guerra, ma è vero che il Catechismo ha sviluppato una dottrina tale che da una parte non si esclude che ci siano dei valori e delle popolazioni da difendere, in talune circostanze, e dall’altra propone una dottrina molto precisa sui limiti di queste possibilità".
Consiglio consultivo anglicano. Il 23 settembre scorso il Consiglio consultivo anglicano, espressione della Comunione anglicana, riunitosi a Hong Kong, ha ribadito la propria contrarietà a un intervento unilaterale degli USA in Iraq, che aggraverebbe l’instabilità della regione mediorientale mentre è prioritario fornire una soluzione al conflitto israelo-palestinese.
Martin. Sulla linea più possibilista, purché all’interno di un quadro giuridico definito dall’ONU, si è espresso l’osservatore permanente della Santa Sede presso le istituzioni delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, mons. D. Martin, in un discorso tenuto a Firenze il 24 settembre scorso in occasione del congresso su "La pace condizione essenziale per lo sviluppo globale", organizzato da 60 associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali che costituiscono il movimento "Sentinelle del mattino". In quella sede mons. Martin ha chiesto a coloro che si oppongono a un attacco militare all’Iraq di offrire soluzioni plausibili per salvaguardare la pace: "Siamo favorevoli al dialogo ma anche al rispetto del diritto internazionale". In particolare è stato attorno al concetto di "responsabilità" che egli ha costruito il proprio ragionamento. "Oggi è più che mai necessario il senso di responsabilità. Il ricorso alla forza è sempre e in ogni modo un fallimento", e comunque dovrà passare attraverso l’approvazione dell’ONU. Per cui "in questi tempi difficili, coloro che rifiutano l’uso della forza devono anche prendersi la responsabilità di spiegare in che modo essa si può evitare". Per mons. Martin una strada possibile per prevenire i focolai di conflitti è la lotta alla povertà in cui versano alcune popolazioni del pianeta.
CEI. Anche i vescovi italiani nel comunicato finale del Consiglio permanente della CEI (datato 24 settembre) "hanno espresso forte preoccupazione per la situazione mondiale che, a un anno dai tragici attentati dell’11 settembre 2001, evidenzia persistenti minacce alla pace e alla sicurezza. Oltre a rinnovare viva preoccupazione per il conflitto, ormai cronico, che coinvolge i popoli palestinese e israeliano in Terra santa, è stata auspicata l’individuazione di percorsi alternativi all’ipotesi di una guerra preventiva nei confronti dell’Iraq, una guerra che "avrebbe inaccettabili costi umani e gravissimi effetti destabilizzanti sull’intera area mediorientale, e probabilmente su tutti i rapporti internazionali"" (citazione dalla prolusione del card. Ruini). "Al riguardo, appare determinante rafforzare il ruolo dissuasivo dell’ONU, nonché il convergente impegno di paesi in grado di esercitare un’influenza concreta sul governo iracheno, che per parte sua dovrà manifestare una reale disponibilità a ricercare intese e a rispettarle". L’ipotesi di una guerra preventiva viene apertamente scartata.
Chiese canadesi. Oltreoceano è da segnalare che il presidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Canada, mons. Jacques Berthelet, ha partecipato alla firma di una lettera – datata 25 settembre - al primo ministro canadese, Jean Chrétien, nella quale il Consiglio canadese delle Chiese ha chiesto con forza di tentare la strada del negoziato con l’Iraq prima d’intraprendere qualsiasi azione militare. "In questi ultimi mesi … si è creato un forte consenso in favore di una nuova invasione dell’Iraq. La pressione verso la guerra continua nonostante gli sforzi di tanti … e la gente è tentata di concludere che un’altra guerra del Golfo oggi è inevitabile. Le scriviamo in quanto leader di molte comunità cristiane del Canada, per dire "no" a una guerra di questo tipo". La lettera chiede una risoluzione dell’ONU che però "non alzi così tanto la posta da rendere impossibile all’Iraq di acconsentire alle sue richieste". Un’invasione militare ottenuta a questo prezzo sarebbe sì "multinazionale ma continuerebbe a essere ingiusta". Essa chiede quindi il ritorno degli ispettori dell’ONU, verso i quali Saddam Hussein stesso si era dichiarato disponibile, e l’apertura di un negoziato, che potrebbe evitare alla popolazione innocente ulteriori deprivazioni. Piuttosto occorrerebbe aiutare quest’ultima a ottenere un cambiamento di regime evitando una "violenta invasione dall’esterno".
Ordinario militare USA. L’arcivescovo ordinario militare degli Stati Uniti ha invece sottolineato – in una dichiarazione del 30 settembre - che oltre a dover dimostrare l’esistenza dei presupposti per una guerra giusta, l’amministrazione Bush deve chiarire l’esistenza di un eventuale "collegamento tra Osama Bin Laden e l’Iraq". Inoltre, è da valutare da un lato se "le conseguenze di un nostro intervento offriranno un significativo miglioramento dell’attuale regime notoriamente tirannico che viene subìto dalla grande maggioranza di iracheni innocenti"; dall’altro se l’esercito è pronto ad affrontare "conflitti aggiuntivi nel Pacifico, nei Balcani e nel resto del Medio Oriente".
Martino. "Non vi può essere giustificazione morale delle dottrine militari che prevedono l’uso delle armi nucleari", ha affermato invece il 1o ottobre mons. Renato Martino, osservatore permanente della Santa Sede a New York, inserendo così la questione nell’ambito del dibattito in corso. Nel suo intervento, intitolato Le dimensioni essenziali del disarmo oggi, pronunciato al Comitato ONU sul disarmo, ha anche parlato delle "sfide poste dalle armi biologiche e chimiche": grazie al fatto che il loro uso va ben oltre confini definiti, "sforzi multilaterali devono essere compiuti per la loro eliminazione". "Le tecniche della mediazione, del negoziato e della verifica" vanno assolutamente privilegiate poiché esse "potranno fornire una base di speranza per l’umanità. Questi sono i passi che dobbiamo avallare nella continua ricerca dell’eliminazione di ogni strumento di guerra" e per far sì che i risultati acquisiti sin qui (trattati di non proliferazione degli armamenti atomici, riduzione e controllo del mercato delle armi leggere) possano consolidarsi e non essere ritrattati.
Chiesa d’Inghilterra. Il 9 ottobre la Chiesa d’Inghilterra ha presentato un lungo testo alla Camera dei comuni, nel quale si afferma che l’azione militare porterebbe come conseguenze immensa sofferenza "con conseguenze ampie e non valutabili a livello ambientale, economico e politico. Vi sarebbero inoltre implicazioni per quanto riguarda le relazioni interreligiose. Pertanto chiediamo che queste preoccupazioni siano al centro dell’azione politica e militare".
Vescovi francesi. Azione concertata nel quadro giuridico dell’ONU, extrema ratio, bene comune, strette condizioni sono i prerequisiti necessari a giustificare un intervento armato. Ma, si domandano i vescovi francesi ne La guerra in Iraq è ineluttabile? (comunicato del Consiglio permanente della Conferenza episcopale del 10 ottobre), "il regime iracheno, per quanto siano condannabili le sue violazioni dei diritti umani all’interno del paese e del diritto internazionale all’esterno, è davvero una minaccia così urgente e immediata da farci ricadere nel caso chiaro della legittima difesa? E se davvero costituisce una minaccia reale, non si dovrebbero mettere in atto tutti i mezzi non militari per evitarla?".
Inoltre vi sono delle conseguenze indirette preoccupanti: "Uno scontro tra un paese arabo e gli Stati Uniti rafforzerà la posizione degli ideologi dell’islam radicale per attirare l’ostilità di folle ignoranti e disinformate nei confronti dell’"Occidente" (erroneamente identificato con gli Stati Uniti) e i suoi valori di democrazia e tolleranza. Una guerra allargherà il fossato esistente tra i nostri popoli e quelli della regione, dove noi contiamo peraltro numerosi fratelli in Cristo, un fossato che non fa che approfondire il sentimento che le grandi potenze usano "due pesi e due misure" per fare applicare le risoluzioni dell’ONU nella regione. Ora più che mai la giustizia è il fondamento e la condizione della pace".
La risoluzione dell’ONU. L’8 novembre viene approvata la risoluzione n. 1441 dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, con voto unanime – quindi anche della Siria. In essa, riprendendo le precedenti risoluzioni in merito e "deplorando che l’Iraq abbia ripetutamente ostacolato l’accesso immediato, senza condizioni e senza restrizioni" alle ispezioni precedentemente predisposte, decide "di offrire all’Iraq, mediante questa risoluzione, un’ultima opportunità di adempiere ai suoi obblighi sul disarmo sulla base delle risoluzioni pertinenti del Consiglio; e di conseguenza decide di istituire un regime potenziato di ispezioni"; decide che l’Iraq "deve fornire (…) non più tardi di 30 giorni dalla data di questa risoluzione, una dichiarazione accurata, piena e completa a oggi di tutti gli aspetti dei suoi programmi di sviluppo di armi chimiche, biologiche e nucleari, missili balistici, e altri sistemi di lancio" e altre armi nonché la loro ubicazione. Infine "ricorda (…) che il Consiglio ha avvertito ripetutamente l’Iraq che esso affronterà gravi conseguenze per effetto delle sue continue violazioni dei suoi obblighi".
Vescovi USA. Frutto di un vivace dibattito interno è invece la dichiarazione, frutto di un complesso lavoro di mediazione tra posizioni spesso contrapposte, adottata dall’assemblea autunnale della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti. Essa è stata stesa dalla Commissione sulla politica internazionale, presieduta dal card. B. Law, arcivescovo di Boston. Il testo, datato 13 novembre, afferma: "Facciamo fatica a giustificare il ricorso alla guerra contro l’Iraq, mancando una prova chiara e adeguata di un imminente attacco di grave natura (…) Con la Santa Sede e con i vescovi del Medio Oriente e di tutto il mondo, temiamo che il ricorso alla guerra, nelle attuali circostanze e alla luce delle attuali informazioni disponibili, non risponda alle strette condizioni in base alle quali l’insegnamento cattolico prevede la possibilità di contravvenire al forte pregiudizio contro l’uso della forza militare". Presentando il testo, Law ha aggiunto che la dichiarazione "non ignora il fatto che l’Iraq nel comportamento, nelle intenzioni e nelle minacce costituisce un pericolo (…) Chiediamo al governo dell’Iraq di rispondere alle legittime domande postegli dal mondo intero". Il testo inoltre plaude all’unanimità raggiunta nella votazione della risoluzione dal Consiglio di sicurezza; essa, però, non deve costituire "un preludio alla guerra ma deve evitarla".
Ma a riprova della diversità delle posizioni all’interno della Conferenza episcopale, è stata la discussione di un emendamento in base al quale i vescovi esprimevano un "appoggio nella preghiera" al personale militare che "in coscienza dissente dalla scelta della guerra". Alla fine si è arrivati a un compromesso su questa affermazione: "Appoggiamo coloro che rischiano la propria vita a servizio della propria nazione. Appoggiamo anche coloro che cercano di esercitare il proprio diritto all’obiezione di coscienza".
Consiglio delle Chiese cristiane USA. Le posizioni cattoliche sono state condivise anche dall’Assemblea generale del Consiglio delle Chiese cristiane degli Stati Uniti, organismo che riunisce 36 confessioni (tra protestanti, ortodossi e anglicani), riunita a Tampa (Florida) dal 14 al 16 novembre, che ha pubblicato due dichiarazioni. La prima, Dopo l’11 settembre 2001: Considerazioni di politica pubblica per gli Stati Uniti d’America, ha ribadito la propria posizione a favore della pace come già espresso in settembre anche durante la riunione del Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle Chiese a Ginevra. Attualmente il Consiglio si dice contrario, per ragioni morali, all’attacco contro l’Iraq. Le possibili ricadute umanitarie, le perdite tra i civili e le conseguenze sul piano politico interno e dell’intera regione potrebbero "rafforzare un sentimento antiamericano nell’area mediorientale e del Golfo". La seconda, Risoluzione esprimente apprezzamento per la dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti sull’Iraq, ha ripreso le argomentazioni della dichiarazione dell’episcopato cattolico, condividendone appieno l’analisi.
1 Per completezza si potrebbero aggiungere i "no" dell’inglese Catholic Agency for Overseas Development (CAFOD), affiliata a Caritas internationalis, espresso il 20.9.2002; di Pax Christi, sezione italiana, il 4.10 e della sezione francese sempre nel mese di ottobre; dell’organismo di rappresentanza delle religiose e dei religiosi degli Stati Uniti nel mese di ottobre; di George Carey il 27.10; dell’editoriale de La Civiltà cattolica di novembre; della Caritas internationalis, il 5.11.