Dichiarazione sull’Iraq
Vi sono «criteri diversi rispetto all’applicazione delle norme della guerra giusta in casi particolari, specialmente quando gli avvenimenti evolvono rapidamente e i fatti non sono del tutto chiari»: in questa affermazione è racchiusa tutta la complessità del lavoro di mediazione tra posizioni contrapposte, affrontato sul tema della possibile guerra dall’assemblea autunnale della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (11-14.11.2002). Il 13 novembre essa ha approvato una Dichiarazione sull’Iraq, il cui nucleo argomentativo è: «In base alle nostre attuali conoscenze continuiamo a ritenere che sia difficile giustificare il ricorso alla guerra contro l’Iraq, mancando una prova chiara e adeguata di un imminente attacco di grave natura». Questa motivazione è condivisa anche da altri episcopati, come Inghilterra e Francia ed esplicitamente richiamata dall’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Chiese di Cristo negli USA, riunita a Tampa (Florida, 14-16.11.2002; cf. anche Regno-att. 18,2002,653). Essa il 16 ha approvato una dichiarazione intitolata Dopo l’11 settembre 2001: considerazioni di politica pubblica per gli Stati Uniti d’America, in cui, oltre a dire il suo «no» alla guerra, rimprovera all’amministrazione statunitense una linea politica, in nome della «guerra al terrorismo», lesiva dei diritti umani per il ricorso a strumenti di controllo che metterebbero a rischio le libertà civili, «nobile patrimonio» del paese.
Originali: stampe (18.11.2002) da siti Internet: www.usccb.org e www.ncccusa.org. Nostre traduzioni dall’inglese.
Mentre noi vescovi cattolici siamo riuniti qui a Washington, il nostro paese, l’Iraq e il mondo intero si trovano davanti a gravi scelte in materia di guerra e pace e di perseguimento della giustizia e della sicurezza. Sono scelte non solo militari e politiche, ma anche morali, poiché coinvolgono questioni di vita e di morte. Il tradizionale insegnamento cristiano offre principi etici e criteri morali che dovrebbero guidare queste scelte cruciali.
Due mesi fa, il vescovo Wilton Gregory, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, ha scritto al presidente George Bush per incoraggiare gli sforzi a incentrare l’attenzione del mondo sul rifiuto dell’Iraq di ottemperare a varie risoluzioni delle Nazioni unite negli ultimi undici anni e sulla sua messa a punto di armi di distruzione di massa. In quella lettera, autorizzata dal Comitato amministrativo dei vescovi degli Stati Uniti, si poneva seriamente in dubbio la legittimità morale di ogni uso preventivo e unilaterale della forza militare per rovesciare il governo dell’Iraq. Ora insieme, come conferenza episcopale, noi facciamo nostre le domande e le preoccupazioni espresse nella lettera del vescovo Gregory, tenendo conto degli sviluppi intervenuti da allora, in particolare l’unanime intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dell’8 novembre.
Non ci facciamo illusioni sul comportamento o sulle intenzioni del governo dell’Iraq. Le autorità irachene devono cessare la loro repressione interna, smettere di minacciare i loro vicini, sospendere ogni appoggio al terrorismo, rinunciare alla messa a punto di armi di distruzione di massa e distruggere tutte le armi del genere già esistenti. Salutiamo con gioia il fatto che gli Stati Uniti si siano sforzati di ottenere un nuovo intervento da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per far sì che l’Iraq ottemperi al suo obbligo di disarmo. Ci uniamo ad altri per sollecitare l’Iraq ad attuare integralmente quest’ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza. Preghiamo vivamente tutte le parti interessate ad adoperarsi perché quest’intervento delle Nazioni unite non preluda alla guerra, ma permetta di evitarla.
Non potendo prevedere ciò che accadrà nelle prossime settimane, desideriamo ritornare sulle questioni dei fini e dei mezzi che devono essere ancora affrontate. Non presentiamo conclusioni definitive, bensì le nostre gravi preoccupazioni e domande nella speranza di aiutare tutti noi a pervenire a validi giudizi morali. Le persone di buona volontà possono avere criteri diversi rispetto all’applicazione delle norme della guerra giusta in casi particolari, specialmente quando gli avvenimenti evolvono rapidamente e i fatti non sono del tutto chiari. In base alle nostre attuali conoscenze continuiamo a ritenere che sia difficile giustificare il ricorso alla guerra contro l’Iraq, mancando una prova chiara e adeguata di un imminente attacco di grave natura. Con la Santa Sede e i vescovi del Medio Oriente e di altre parti del mondo, temiamo che il ricorso alla guerra, nelle attuali circostanze e alla luce delle attuali informazioni disponibili, non risponda alle strette condizioni in base alle quali l’insegnamento cattolico prevede la possibilità di contravvenire al forte presupposto contro l’uso della forza militare.*
Giusta causa. Il Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) limita la giusta causa ai casi in cui «il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni [è] durevole, grave e certo» (n. 2309). Siamo molto preoccupati per le recenti proposte di estendere in modo eclatante i limiti tradizionali imposti alla giusta causa al punto da comprendervi l’uso preventivo della forza militare per rovesciare regimi che costituiscono una minaccia o per risolvere il problema delle armi di distruzione di massa. In conformità con i divieti espressi nel diritto internazionale, si dovrebbe distinguere fra le azioni finalizzate a cambiare la condotta inaccettabile di un governo e quelle finalizzate a porre fine alla sua stessa esistenza.
Autorità legittima. In base al nostro giudizio, le decisioni riguardanti una possibile guerra contro l’Iraq richiedono l’osservanza delle norme costituzionali degli Stati Uniti, un ampio consenso a livello nazionale e una qualche forma di approvazione internazionale. Perciò, sono importanti l’intervento del Congresso e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come ha indicato la Santa Sede, qualora il ricorso alla forza fosse ritenuto necessario, dovrebbe avvenire nel quadro delle Nazioni Unite, previa accurata considerazione delle conseguenze per i civili iracheni e la stabilità regionale e mondiale (cf. arcivescovo Jean–Louis Tauran, segretario vaticano per le relazioni con gli stati, 9.10.2002).
Probabilità di successo e proporzionalità. L’uso della forza deve avere «fondate condizioni di successo» e «non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare» (CCC, n. 2309). Riconosciamo che anche il non intraprendere alcuna azione militare può avere conseguenze negative. Ma ci preoccupa il fatto che la guerra contro l’Iraq potrebbe avere imprevedibili conseguenze non solo per quel paese, ma anche per la pace e la stabilità in altre parti del Medio Oriente. L’uso della forza potrebbe provocare proprio il genere di attacchi che si vorrebbe prevenire, potrebbe imporre nuovi terribili fardelli su una popolazione civile che soffre già da molto tempo e potrebbe estendere il conflitto e l’instabilità nella regione. La guerra contro l’Iraq potrebbe anche distogliere dalla responsabilità di contribuire alla costruzione di un ordine giusto e stabile in Afghanistan e potrebbe minare i più ampi sforzi di fermare il terrorismo.
Norme che regolano la conduzione della guerra. La giustezza di una causa non riduce il dovere morale di rispettare le norme in materia di immunità della popolazione civile e della proporzionalità. Pur riconoscendo la maggiore capacità e il maggiore impegno per evitare di coinvolgere direttamente i non combattenti nella guerra, l’uso della forza militare in Iraq potrebbe comportare incalcolabili costi per una popolazione civile che ha già tanto sofferto a causa della guerra, della repressione e di un embargo debilitante. Nel valutare la proporzionalità dei «danni collaterali», la vita degli uomini, delle donne e dei bambini iracheni dovrebbe essere valutata allo stesso modo in cui noi valuteremmo la vita dei membri della nostra famiglia e dei cittadini del nostro paese.
Valutando questi interrogativi arriviamo a chiedere con forza al nostro paese e al mondo di continuare a perseguire attivamente le alternative alla guerra in Medio Oriente. È vitale per il nostro paese persistere nella sfida decisamente frustrante e difficile di mantenere un ampio appoggio internazionale su forme costruttive, efficaci e legittime di contenimento e scoraggiamento delle azioni aggressive e delle minacce irachene. Sosteniamo un efficace imposizione dell’embargo militare e il mantenimento delle sanzioni politiche. Rinnoviamo il nostro appello a favore di sanzioni economiche molto più mirate che non minaccino la vita dell’innocente popolazione civile irachena. La questione delle armi di distruzione di massa dell’Iraq deve essere accompagnata da più estese e decise misure di non proliferazione. Questi sforzi, basati sul principio della reciproca dissuasione, dovrebbero comprendere, fra l’altro, un maggiore sostegno ai programmi finalizzati alla sicurezza e all’eliminazione delle armi di distruzione di massa in tutti i paesi, controlli più severi sull’esportazione di tecnologia per la costruzione di missili e armi, il potenziamento delle convenzioni sulle armi biologiche e chimiche e l’attuazione degli impegni degli Stati Uniti a proseguire negoziati basati sulla fiducia in materia di disarmo nucleare in base al Trattato di non proliferazione nucleare.
Non esistono risposte facili. In ultima analisi la responsabilità per le decisioni in materia di sicurezza nazionale ricade sui nostri capi eletti, ma noi speriamo che le nostre preoccupazioni e domande morali siano prese in seria considerazione da loro e da tutti i cittadini. Invitiamo altri, soprattutto i laici cattolici –– che hanno la maggiore responsabilità della trasformazione dell’ordine sociale alla luce del Vangelo – a continuare a riflettere sul modo migliore di vivere la vocazione a essere «testimoni e operatori di pace e di giustizia» (CCC n. 2442). Come Gesù ha detto: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
Preghiamo per tutti coloro che saranno certamente i più colpiti da questo potenziale conflitto, specialmente le persone sofferenti dell’Iraq e gli uomini e le donne che prestano servizio nelle nostre forze armate. Sosteniamo coloro che rischiano la vita al servizio del nostro paese. Sosteniamo anche coloro che cercano di esercitare il proprio diritto all’obiezione di coscienza in generale e all’obiezione di coscienza selettiva, come abbiamo affermato in passato.
Preghiamo per il presidente Bush e per gli altri capi mondiali, affinché trovino la volontà e le strade per fare un passo indietro e non precipitare nel baratro della guerra con l’Iraq e lavorino per una pace giusta e duratura. Li sollecitiamo a lavorare insieme ad altri per elaborare un’efficace risposta globale alle minacce dell’Iraq, una risposta che riconosca la legittima autodifesa e si conformi ai limiti morali tradizionali nell’uso della forza militare.
* «L’insegnamento sulla guerra giusta si è evoluto [sempre più] verso la prevenzione della guerra; quando non la si possa evitare razionalmente, tale insegnamento cerca di ridurne e limitarne gli orrori. Esso vi perviene attraverso una serie di rigide condizioni di cui bisogna tenere conto se si decide d’intraprendere una guerra che si vuole moralmente ammissibile. Una siffatta decisione soprattutto oggi richiede ragioni straordinariamente forti per contravvenire al forte presupposto a favore della pace e contro la guerra. Questa è una ragione significativa per cui un corretto insegnamento sulla guerra giusta prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza» (La sfida della pace. La promessa di Dio e la nostra risposta, n. 83, 1983; Regno–doc. 13,1983,418).
Washington. D.C., 13 novembre 2002
degli Stati Uniti