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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Gianfranco Brunelli

I no del papa

Fonte: "Il Regno" n. 4 del 2003

Si precisa la posizione diplomatica della Santa Sede;
Giovanni Paolo II non si rassegna alla guerra.



Il no di Giovanni Paolo II alla guerra che gli Stati Uniti intendono muovere a Saddam Hussein e al suo regime è un no motivato e articolato. Non un no emotivo e assoluto. «Da mesi la comunità internazionale vive in grande apprensione per il pericolo di una guerra, che potrebbe turbare l’intera regione del Medio Oriente e aggravare le tensioni purtroppo già presenti in quest’inizio del terzo millennio».

Oltre il terrorismo e la logica di guerra
All’Angelus del 23 gennaio, il papa è tornato, come molte volte in questi mesi, a ripetere il suo no a questa guerra dalle conseguenze umane e sociali, geopolitiche, religiose e di civiltà imprevedibili. Il suo è un no a una guerra evitabile pur nella necessaria azione che la comunità internazionale deve intraprendere con maggiore convinzione per esigere il disarmo dell’Iraq e del suo despota sanguinario. Il no è rafforzato da un appello alle coscienze di tutti gli uomini, perché nel tempo dei destini incrociati delle genti cessano le separatezze spazio-temporali e con esse anche le separatezze religiose e culturali. Quello del papa è un appello ancora fiducioso, anche se i suoi principali collaboratori oramai disperano che la guerra si possa evitare. Allora non rimangono che i cuori e la grazia che in essi opera. A tutti il papa dice che «mai potremo essere felici gli uni contro gli altri». Usa una terminologia inconsueta per il linguaggio del magistero, ma udibile: conseguire la felicità è nozione aristotelica rivisitata dalla filosofia anglosassone, che entra nel dibattito politico proprio con la Dichiarazione di indipendenza americana.

Ci si rivolge a tutti gli uomini, ma particolarmente ai credenti: è dovere dei credenti dirlo: «E’ doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra». Il papa lo fa a un anno dalla giornata di preghiera delle religioni per la pace (Assisi, 24 gennaio 2002), richiamando il triplice no alla violenza, al terrorismo, alla guerra, pronunciato allora.

Giovanni Paolo II aveva con forza sottolineato nel primo incontro di Assisi (1986) che «forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace». Sviluppando all’indomani degli atti terroristici negli Stati Uniti quel pensiero aveva stigmatizzato nel messaggio per la giornata mondiale della pace come «Non si uccide in nome di Dio» ed «è profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio». Poco dopo ad Assisi, con i rappresentanti delle maggiori religioni, aveva detto: «mai più la violenza, mai più la guerra, mai più terrorismo».

Egli ha scommesso sulla purificazione delle religioni, sul ruolo strategico del cristianesimo come religione capace di autocritica e di purificazione a partire dal proprio fondamento religioso. Ha scommesso sulla forza e la capacità del cristianesimo, nel confronto interreligioso, di approntare non solo per sé un processo autentico di purificazione religiosa e conseguentemente di laicità culturale. Oltre ogni forma di integralismo e di fondamentalismo religioso.

Nel segno di Assisi e della preghiera delle religioni per la pace è anche il gesto che il papa chiede ai cattolici e alle Chiese, particolarmente quelle del Medio Oriente, sul cui futuro grave una grande minaccia, di «dedicare con particolare intensità la giornata del prossimo 5 marzo, Mercoledì delle Ceneri, alla preghiera e al digiuno per la causa della pace, agli uomini di buona volontà: un giorno di digiuno per la pace: il 5 marzo, primo giorno di quaresima per i cristiani».

è la quinta volta che il papa indice una giornata di digiuno e sempre per la pace. Quattro su cinque hanno avuto un contesto o uno sfondo di dialogo interreligioso. L’ultima, il 14 dicembre 2001, fu in concomitanza con la fine del ramadan dei musulmani e in preparazione di Assisi 2002, nel pieno della crisi seguita agli attentati terroristici negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001.

Il digiuno, dice il papa, è «espressione di penitenza per l’odio e la violenza che inquinano i rapporti umani. I cristiani condividono l’antica pratica del digiuno con tanti fratelli e sorelle di altre religioni, che con essa intendono spogliarsi di ogni superbia e disporsi a ricevere da Dio i doni più grandi e necessari, fra i quali in particolare quello della pace». Il digiuno e la preghiera hanno funzione spirituale e formativa. «Noi cristiani, in particolare – prosegue il papa – siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell’egoismo, della menzogna e della violenza».

Il papa offre qui anche una definizione precisa della pace e della guerra. La pace non è per il papa assenza di guerra, artificio, calcolo. Poiché secondo la tradizione cristiana la guerra è «egoismo», «menzogna», «violenza». Potremmo dire, con Lévinas, «la violenza della guerra non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la continuità delle persone», fa cioè compiere loro atti che distruggono ogni possibilità di atto, cioè d’esistenza. Ricorda il papa che la pace ha, nella tradizione cristiana, fondamento ontologico, essa è la condizione della possibilità stessa della permanenza delle persone nella loro relazione coesistenziale. Il primato della pace rispetto alla guerra dipende dal loro diverso rapporto in relazione al primato della persona. Essa ha natura propriamente teologica. Ricorda la Gaudium et spes (n. 78) come «la pace terrena che nasce dall’amore del prossimo è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana da Dio Padre». Qualcosa di più e di diverso dalla lettura riduzionistica che delle parole del papa danno solitamente élites culturali e politiche laiche, per le quali le parole del papa sono tali perché promanano da una autorità religiosa e morale, ma l’essere e la realtà sono diversi dal dover essere e dal valore.

Dalle parole del papa consegue una precisa determinazione della responsabilità dei cristiani («sentinelle della pace») in relazione alla convivenza, all’ordine, all’armonia personale e sociale, senza le quali, come ricorda Agostino, «nihil esset omnino». Per questo, conclude il papa, a Dio chiediamo «la conversione dei cuori e la lungimiranza delle decisioni giuste per risolvere con mezzi adeguati e pacifici le contese, che ostacolano il peregrinare dell’umanità in questo nostro tempo».

Sviluppare i fondamenti del diritto internazionale
Accanto all’appello del papa non ha cessato di agire la diplomazia vaticana. Tra il 7 e il 22 si sono recati in visita in Vaticano quattro protagonisti della crisi irachena: Joschka Fischer, ministro degli esteri della Repubblica federale di Germania, Tarek Aziz, vice primo ministro della Repubblica di Iraq; Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite; Tony Blair, premier della Gran Bretagna. Mentre il card. Roger Etchegaray, presidente emerito del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, accompagnato da mons. Franco Coppola, consigliere di nunziatura, è stato inviato dal papa a Baghdad ed è stato ricevuto da Saddam Hussein il 15 febbraio.

La diplomazia vaticana si è dunque mossa, nel rammarico di un’azione divisa e inadeguata dell’Europa, interloquendo con le due opposte linee europee (quella franco-tedesca, appoggiata dalla Russia; e quella marcatamente filo americana che ha nella Gran Bretagna l’esponente più significativo), con l’ONU quale garante della legalità internazionale e con l’Iraq, esercitando una forte pressione direttamente su Baghdad, attraverso la lettera del papa consegnata dal card. Etchegaray allo stesso Saddam, affinché l’Iraq si apra seriamente a una collaborazione leale e totale con gli ispettori ONU nel rispetto delle Risoluzioni, onde evitare la guerra. Il punto è stato chiarito espressamente da mons. Migliore, intervenuto all’ONU il 19 febbraio. è interessante notare come nel suo intervento mons. Migliore, pur invocando tutte le iniziative possibili per arrivare pacificamente al disarmo dell’Iraq, non abbia escluso la guerra come ultima opzione cui ricorrere nel quadro delle Nazioni Unite, nel caso di «inadempienze» da parte di Saddam Hussein.

Sin qui è mancata una significativa interlocuzione (almeno a livello ufficiale) con gli Stati Uniti. Oggi i vescovi americani, moralmente indeboliti nell’opinione pubblica dagli scandali legati alle violenze sessuali dei sacerdoti, non hanno potuto esercitare una adeguata pressione sull’amministrazione Bush, e hanno perduto figure politiche di riferimento quali furono in passato i cardd. Law e O’Connor; mentre la Casa Bianca non ha trovato di meglio che mandare a Roma qualche teologo come Novak o Weigel, come se si trattasse di «spiegare» al papa la liceità morale della guerra preventiva.

Tuttavia, come appare dal testo di mons. Migliore, la posizione vaticana non è affetta da antiamericanismo, e la lettura della situazione irachena è senza sconti per Baghdad. Ma quel che non appare accettabile al papa e alla sua diplomazia è la scorciatoia tragica imboccata dall’amministrazione Bush nella ridefinizione delle relazioni internazionali e nello sviluppo di un governo democratico del mondo uscito dallo scontro bipolare.

Essa prevede il superamento di fatto dello strumento ONU e dalla stessa Alleanza atlantica attraverso l’opzione politico-militare dell’uso della guerra preventiva per garantire la «sicurezza globale» e la costruzione di un «nuovo ordine mondiale», centrato sugli Stati Uniti. Una strategia che forse rafforza gli Stati Uniti, ma fa retrocedere i rapporti tra le nazioni a prima delle Società delle nazioni, alla politica di potenza, da cui l’umanità, dopo due conflitti mondiali, pensava di essere uscita definitivamente.

Su questo punto le parole maggiormente paradigmatico è quello pronunciato da mons. Jean-Louis Tauran, segretario per i rapporti con gli stati a Roma il 24 scorso. «Il diritto internazionale – ha detto Tauran – non conosce il concetto di nuovo ordine mondiale, che permetterebbe il ricorso unilaterale alla forza da parte di alcuni stati per garantirne il rispetto».

Per la diplomazia vaticana occorre sviluppare la Carta delle Nazioni Unite laddove la pace è destinataria di una normazione diretta, e si esclude (cf. art. 2) il ricorso alla guerra di aggressione e la «legittima difesa presuppone l’esistenza di una aggressione armata». «Nessuna regola del diritto internazionale autorizza uno o più stati a ricorrere unilateralmente all’uso della forza per cambiare un regime o la forma di governo di un altro stato, perché ad esempio possiederebbe armamenti di distruzione di massa. Solo il Consiglio di sicurezza potrebbe – a motivo di circostanze particolari – decidere che tali fatti costituiscono una minaccia contro la pace. Ma questo non significa che il ricorso alla forza sia, per lo stesso Consiglio di sicurezza, la sola risposta adeguata».

Per il ministro degli esteri del papa, «una guerra di aggressione sarebbe un crimine contro la pace», e tale sarebbe la guerra all’Iraq se venisse decisa unilateralmente, da uno o più stati, fuori dall’ONU e in assenza di un attacco armato. «Per noi tutto deve essere deciso e intrapreso all’interno delle Nazioni Unite».

Rimane il problema Saddam e come lui un certo numero di altri paesi-problema. Lo smantellamento di arsenali di armi di distruzione di massa è «una necessità imperiosa» che va affrontata dall’ONU. Per Tauran il processo delle ispezioni in corso, anche se lento, è adeguato per portare a una soluzione di disarmo dell’Iraq.

Vi è infine da considerare che una guerra generalizzata provocherebbe «danni sproporzionati in rapporto agli obiettivi da raggiungere e violerebbe le regole fondamentali del diritto internazionale umanitario», cioè le convenzioni di Ginevra.

Operatori di pace
La crisi irachena fa vedere chiaramente come nella Chiesa cattolica stia emergendo in maniera consapevole una posizione sempre più critica nei confronti della guerra e della violenza, variamente giustificata.

Sulla violenza e sulla guerra non c’è unanimità di giudizio tra cristiani e tra cattolici. Esiste una pluralità di posizioni nelle quali non mancano giudizi diversificati sull’uso della forza.

Vi sono le forme del pacifismo radicale, che assolutizzando e destoricizzando il valore della pace e le condizioni concrete in cui esso si costruisce escludono sempre e comunque l’uso della forza, a qualunque livello e per qualunque motivo. E vi sono tendenze che pragmaticamente rinunciano alla definizione faticosa di una storia di pace possibile, così come in passato non sono mancate tesi a favore del ricorso alla violenza rivoluzionaria a motivo della difesa degli oppressi.

Se papa Pio XII escluse che la lotta al comunismo motivasse il ricorso alla guerra e lo stesso Giovanni Paolo II ha esaltato la transizione pacifica al post-comunismo, Paolo VI escluse ogni legittimità alla violenza rivoluzionaria.

Dopo il Vaticano II, gli interventi del magistero episcopale in varie nazioni e le parole recenti del papa guardano alla beatitudine evangelica: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9) come alla direzione storica irrinunciabile e operano per un nuovo quadro giuridico istituzionale che difenda la pace e normalizzi l’uso della forza come estrema risorsa, nel quadro della legittimità internazionale e sovranazionale.

In questo senso il papa si pone quasi come leader di un pacifismo non ideologico e radicale, di quanti si riconoscono nell’opera della pace più che nell’ideologia del pacifismo, e che possono rappresentare la maggior parte delle opinioni pubbliche democratiche.

Ma tocca alla politica, attraverso opzioni concrete ed efficaci per la pace, impedire che gli operatori di pace, a fronte di una resa passiva alle ragioni pragmatiche dei conflitti, imbocchino in numero sempre maggiore la deriva ideologica del pacifismo radicale.


articolo tratto da Il Regno logo


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