Tutto è perduto con la guerra
La crisi irachena ha messo in luce come nella Chiesa cattolica stia emergendo in maniera consapevole una posizione sempre più critica nei confronti della guerra e della violenza, variamente giustificata. In questo senso il papa si pone quasi come un leader di un pacifismo non ideologico e radicale (Regno-att. 4,2003,76), invitando i cristiani a una responsabilità specifica, quella di essere «sentinelle della pace» (cf. qui a p. 130). Accanto all’appello del papa, cui si sono uniti numerosi episcopati (cf. a p. 132 la nota congiunta dei capi delle Chiese di Sarajevo, Gerusalemme e Baghdad) ed esponenti di altre confessioni cristiane e di organismi ecumenici (cf. la dichiarazione degli arcivescovi di Canterbury e Westminster a p. 131), non ha cessato di agire la diplomazia vaticana. L’intervento dell’osservatore permanente della Santa Sede presso l’ONU, mons. C. Migliore, nel corso dell’incontro al Consiglio di sicurezza sulla situazione tra Iraq e Kuwait, ha affermato che ogni decisione va presa all’interno dell’ONU. Nella conferenza tenuta all’Istituto dermopatico dell’Immacolata a Roma il 24 febbraio, intitolata «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra», mons. J.-L. Tauran, segretario per i rapporti con gli stati, ha poi ribadito: «Nessuna regola del diritto internazionale autorizza uno o più stati a ricorrere unilateralmente all’uso della forza per cambiare un regime o la forma di governo di un altro stato... Solo il Consiglio di sicurezza potrebbe, a motivo di circostanze particolari, decidere» di ricorrere alla forza.
Originali: mons. Tauran: Adista 8.3.2003, 3
Tutto è perduto con la guerra
«Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».
1. Senza dubbio queste parole di Pio XII, pronunciate il 24 agosto 1939, conservano tuttora un’attualità sconvolgente. A queste parole profetiche aggiungerei quelle dell’attuale papa nel suo discorso al corpo diplomatico, il 13 gennaio scorso: «Come ricordano la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e il diritto internazionale, non si può fare ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni, né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari» (Regno-doc. 3,2003,67).
Ciò mi pare che sia una sintesi della posizione della Santa Sede in questa materia. In realtà, l’azione della Santa Sede a favore della pace si può inquadrare tra due principi di riferimento: il primo è «Cristo è la nostra pace» (cf. Ef 2,14) e il secondo è un testo della Gaudium et spes: «Gli uomini in quanto peccatori sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo, ma in quanto riescono, uniti nell’amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza» (n. 78; EV 1/1592).
I papi e i loro collaboratori, illuminati da queste convinzioni, hanno cercato, e tuttora cercano, d’indicare all’umanità il cammino, segnalando le condizioni e i doveri che impone la creazione di un ordine internazionale giusto, fondandolo sul diritto naturale, sul diritto internazionale e sul Vangelo. La Chiesa, da parte sua, interviene in tale comune impegno favorendo e promuovendo una cultura della pace, elaborando anche criteri generali per un’educazione alla pace.
I papi in favore della pace
2. Per la Santa Sede, e per la Chiesa cattolica, la pace poggia idealmente su quattro colonne: la verità, la giustizia, l’amore e la libertà (cf. Pacem in terris). La sollecitudine per la pace è antica, si può dire, tanto quanto la Chiesa. Mi limito a enumerare alcune iniziative più recenti dei papi in favore della pace, soprattutto nel secolo scorso. Penso a Benedetto XV, che tentò una mediazione tra i belligeranti della prima guerra mondiale e scrisse la famosa enciclica Pacem Dei munus; penso a Pio XI che si oppose al nazismo e consegnò alla storia la famosa enciclica Mit brennender Sorge; penso ai radiomessaggi di Pio XII nelle ore più oscure del secondo conflitto mondiale; a Giovanni XXIII e alla sua enciclica Pacem in terris; ai documenti del concilio ecumenico Vaticano II; a Paolo VI che istituì all’interno della curia il Pontificio consiglio della giustizia e della pace e prese l’iniziativa della giornata mondiale della pace, all’inizio di ogni anno, e questo a partire dall’anno 1968.
E poi, ovviamente, penso a Giovanni Paolo II. I suoi discorsi al corpo diplomatico, all’inizio di ogni anno, contribuiscono a una vera educazione sistematica alla pace. Non vanno dimenticate le sue iniziative concrete, personali, in casi di grave crisi, come la mediazione tra Argentina e Cile circa il canale Beagle, senza dimenticare la giornata mondiale di preghiera per la pace di Assisi, lo scorso anno, e la sua intensa attività in queste settimane, ricevendo i maggiori esponenti del mondo politico internazionale.
Si tratta, evidentemente, di alcuni esempi eclatanti, in un certo senso, ai quali va affiancata quell’azione quotidiana dei rappresentanti pontifici della Santa Sede, meno visibile, certo, ma non meno incisiva, ispirata alla volontà del papa. Si tratta dei nunzi apostolici accreditati nei 174 paesi con i quali la Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche. A questa azione dei nunzi va aggiunta anche l’azione delle missioni permanenti presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, a New York e a Ginevra, all’Unesco a Parigi, la nunziatura presso le Comunità europee a Bruxelles, l’inviato speciale presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, nonché il rappresentante della Sante Sede presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), alla quale la Santa Sede partecipa come membro a pieno diritto. Grazie a questa presenza e a questi contatti istituzionali e quotidiani la Santa Sede ha potuto dare vita a una vera strategia in favore della pace.
I principi dell’azione della Santa Sede
3. Vorrei ora enumerare alcuni principi di questa strategia. Innanzitutto, proclamare forte e chiaro il suo rifiuto della guerra. Certamente la Santa Sede riconosce che ogni stato ha il dovere di proteggere la propria esistenza e la propria libertà con mezzi proporzionati, ma l’esperienza ha spesso dimostrato quanto sia illusoria l’efficacia delle armi quando si tratta di dirimere un conflitto tra gli stati.
Il papa nel suo discorso, all’inizio dell’anno, al corpo diplomatico ha gridato: «No alla guerra! La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità», e ha aggiunto: «Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra stati, l’esercizio nobile della diplomazia sono mezzi degni dell’uomo e della nazione per risolvere i loro contenziosi» (Regno-doc. 3,2003,66).
La Santa Sede incoraggia, in secondo luogo, un disarmo effettivo. Una dissuasione fondata sull’equilibrio delle forze non è mai stata considerata dalla Santa Sede come un fine in se stesso, ma soltanto come una tappa verso un disarmo progressivo, e così si spiega l’appoggio morale dato dalla Santa Sede, per esempio, al Trattato di non proliferazione nucleare, al Trattato di interdizione degli esperimenti nucleari, al Trattato di interdizione delle mine anti-uomo.
Dal momento che la pace non è soltanto l’assenza di guerra, la Santa Sede si è fatta promotrice, inoltre, di un ordine internazionale fondato sul diritto e la giustizia, indicando i diritti dell’uomo e i diritti dei popoli come i fondamenti della pace. L’alimentazione, la salute, la cultura, la solidarietà sono le condizioni necessarie affinché i cittadini si sentano coinvolti, con responsabilità, in un progetto di società che offra delle possibilità a ogni individuo.
Tutto ciò suppone una visione dell’uomo che tenga in debito conto tutte le sue dimensioni: il rispetto della vita umana dal momento del suo concepimento alla sua fine naturale, la sua dignità, la sua libertà, senza dimenticare il diritto alla libertà di religione. A tal proposito, il papa Giovanni Paolo II ama ricordare che quando è negata o limitata la libertà di religione e non è permesso di praticare la propria fede, in realtà sono tutte le altre libertà a essere minacciate.
La pace è anche il risultato del rispetto degli strumenti tecnici propri della collaborazione internazionale. La Santa Sede ha fiducia nel diritto internazionale per garantire la libertà delle persone e dei popoli. Il rispetto degli impegni assunti, secondo l’adagio antico pacta sunt servanda, la fedeltà ai testi elaborati, spesso al prezzo di grandi sacrifici, la priorità accordata al dialogo, sono ugualmente dei mezzi che, secondo noi, dovrebbero permettere, sia a livello bilaterale sia a livello multilaterale, di evitare, nella misura del possibile, ai più deboli di essere le vittime della volontà malvagia, della forza o della manipolazione dei più forti.
Infine, vorrei porre in rilievo un contributo, spesso sconosciuto, dato dalla Santa Sede alla pace, ossia il suo apporto alla redazione delle convenzioni o delle dichiarazioni internazionali. Penso, ad esempio, alla nozione giuridica di «assistenza umanitaria», promossa dalla Santa Sede in occasione del conflitto in Iugoslavia. Gli stati hanno il diritto, anzi il dovere, d’intervenire per disarmare chi vuole uccidere, non già per incoraggiare la guerra, ma per impedirla. Penso, anche, alla posizione della Santa Sede sugli effetti negativi della pratica, non controllata a livello internazionale, dell’embargo contro uno stato che non rispetta il codice di condotta internazionale. L’embargo, limitato nel tempo, deve essere proporzionato a ciò che si desidera correggere e non rivolto a far precipitare la popolazione nella miseria.
Tutti conoscono l’azione del papa per alleviare le sofferenze delle popolazioni di Cuba e dell’Iraq. Penso alla proposta di Giovanni Paolo II, in occasione della sua ultima visita alla sede delle Nazioni Unite a New York, di redigere una Carta dei diritti delle nazioni. Penso, anche, all’azione delle delegazioni della Santa Sede alle principali conferenze mondiali, organizzate dalle Nazioni Unite negli anni novanta.
L’apporto del diritto internazionale
4. La Santa Sede offre così il proprio contributo affinché nella redazione dei documenti del diritto internazionale, spesso orientati ideologicamente, siano salvaguardati i grandi principi morali e l’apporto del diritto internazionale classico. Ciò che caratterizza, quindi, l’azione della Santa Sede in favore della pace è il servizio della coscienza. Il papa Giovanni Paolo II, ricevendo gli auguri del corpo diplomatico, il 9 gennaio 1995, dichiarava che la giustificazione della presenza della Santa Sede in campo internazionale era di «essere la voce che la coscienza umana attende», che ricorda «instancabilmente le esigenze del bene comune, il rispetto della persona umana, la promozione dei più alti valori spirituali. È la dimensione trascendente dell’uomo a essere in gioco – aggiungeva –, essa non deve essere sottoposta ai capricci degli uomini di stato o a delle ideologie» (Regno-doc. 3,1995,67).
Per un cristiano, e a maggior ragione per il papa, è nel cuore dell’uomo che nascono la pace o la guerra, ed è a questo uomo, il quale deve scegliere tra il bene e il male, che la Chiesa ha il dovere di rivolgersi. Essa lo accompagna sul cammino della vita indicandogli la giusta direzione. Essa interpella la sua libertà e la sua responsabilità. È a questa profondità che si costruisce la pace, e ovviamente lì s’inserisce, per noi credenti, la preghiera. Proprio ieri, alla recita dell’Angelus, il papa ha invitato tutti i cattolici a dedicare, con particolare intensità, la giornata del mercoledì delle Ceneri alla preghiera e al digiuno per la causa della pace, specialmente nel Medio Oriente. «Imploreremo innanzitutto – ha detto – da Dio la conversione dei cuori e la lungimiranza delle decisioni giuste per risolvere con mezzi adeguati e pacifici le contese che ostacolano il peregrinare dell’umanità in questo nostro tempo». E ha ricordato: «È doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremmo essere felici gli uni contro gli altri» (cf. in questo numero a p. 130). Tutto questo, ovviamente, è applicato dalla Santa Sede nel particolare contesto della crisi irachena di questi giorni.
Un «nuovo ordine mondiale»?
5. Su questa crisi irachena, il papa e i suoi collaboratori hanno avuto modo di esprimersi in maniera chiara in questi ultimi tempi. Per noi tutto deve essere intrapreso e deciso nel contesto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Prima di tutto, vanno sfruttate tutte le risorse del diritto internazionale e ponderate le conseguenze che un intervento armato avrebbe sulle popolazioni civili, senza dimenticare poi le prevedibili reazioni dei paesi dell’area, che per solidarietà con l’Iraq potrebbero assumere degli atteggiamenti estremi.
Detto questo, ovviamente, è importante che i responsabili dell’Iraq sappiano regolare la loro azione politica secondo il codice di condotta che impone loro l’appartenenza alla comunità delle nazioni. Il diritto internazionale non conosce il concetto di un «nuovo ordine mondiale», come si dice oggi, che permetterebbe il ricorso unilaterale alla forza da parte di alcuni stati per garantirne il rispetto. Il diritto internazionale, lo sappiamo, ha messo fuori legge la guerra, in particolare grazie alla Carta delle Nazioni Unite. Mi riferisco all’articolo 2 § 4, che nessuno cita in questi tempi, ma che è molto importante proprio perché dichiara che gli stati rinunciano alla guerra per risolvere i loro conflitti.
Tutto deve essere intrapreso nel quadro definito dal diritto internazionale. Come sappiamo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Una guerra d’aggressione costituirebbe un crimine contro la pace, mentre la legittima difesa presuppone l’esistenza di un’aggressione armata previa. Dunque, conformemente a questi principi, nessuna regola del diritto internazionale autorizza uno o più stati a ricorrere unilateralmente, e insisto su questo punto, unilateralmente all’uso della forza per cambiare un regime o la forma di governo di un altro stato a causa, ad esempio, dell’eventuale possesso di armamenti di distruzione di massa. Solo, solo il Consiglio di sicurezza potrebbe, a motivo di circostanze particolari, decidere che tali fatti costituiscono una minaccia contro la pace, ma questo non significa che il ricorso alla forza sia, per lo stesso Consiglio di sicurezza, la sola risposta adeguata. Questa è la dottrina classica del diritto internazionale.
Detto ciò, la Santa Sede, come il resto della comunità internazionale, è profondamente preoccupata per la presenza di armamenti di distruzione di massa non solamente in Medio Oriente, ma anche in altre parti del mondo.
Il loro smantellamento è certamente una necessità imperiosa, dato che minacciano la pace internazionale. Ecco perché la Santa Sede, nel caso dell’Iraq, pensa che il processo d’ispezione in corso, anche se lento, potrebbe portare a un consenso che, se largamente condiviso dalle nazioni, renderebbe quasi impossibile a un governo agire in una maniera diversa, senza il rischio di un isolamento internazionale.
Molto probabilmente, una guerra generalizzata contro l’Iraq provocherebbe tra le popolazioni civili dei danni sproporzionati, in rapporto agli obiettivi da raggiungere, e violerebbe le regole fondamentali del diritto internazionale umanitario. Mi riferisco, ovviamente, alle famose Convenzioni di Ginevra.
Pertanto, sarebbe cosa grave da una parte la banalizzazione della guerra e dall’altra l’indifferenza alla dimensione giuridica delle relazioni internazionali.
Come vedete, siamo ben lontani da compromessi politici o da interessi da salvaguardare. Siamo di fronte, invece, a una scelta che ognuno di noi deve compiere, uomini e donne, semplici cittadini o responsabili politici. In una semplice parola, si tratta oggi di scegliere tra la legge della forza e la forza della legge.
Grazie per la vostra attenzione!
Roma, 24 febbraio 2003