Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Michael Walzer

Il modo giusto. Considerazioni su Democrazia e dittatura, prima e dopo Saddam

"Il Regno" n. 6 del 2003

Vi sono due modi di opporsi alla guerra contro l’Iraq. Il primo è facile e sbagliato; il secondo è giusto, ma difficile.

La risposta semplice
Il primo modo consiste nel negare che il regime iracheno sia particolarmente abietto e che si trovi in qualche modo fuori dalla media degli stati, o nell’affermare che, per quanto abietto sia, esso non rappresenti una vera minaccia per gli stati vicini o per la pace nel mondo. Forse, nonostante le affermazioni contrarie di Saddam, il suo governo sta effettivamente cercando di dotarsi di armi nucleari. Ma anche altri governi stanno facendo la stessa cosa per cui, se o quando l’Iraq riuscirà a produrre queste armi – prosegue questo ragionamento –, possiamo ricorrere a una deterrenza convenzionale, come hanno fatto fra loro gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica al tempo della guerra fredda.

Ovviamente, se questo ragionamento è corretto, non c’è alcun motivo di attaccare l’Iraq. E non c’è neppure alcun motivo per imporre all’Iraq un forte regime di ispezioni o l’attuale embargo o le zone vietate agli aerei nel Nord e nel Sud del paese. A quanto pare alcuni degli organizzatori più determinati del movimento contro la guerra, negli Stati Uniti e in Europa, hanno assunto proprio questa posizione. Essa è stata sovra-rappresentata dai leader delle grandi manifestazioni contro la guerra.

A mio avviso, molti dei manifestanti non sostengono questo primo punto di vista; e non lo sostiene neppure la maggior parte degli elettori attualmente o potenzialmente contrari alla politica estera di Bush. Tuttavia dobbiamo riconoscere una costante tentazione della linea politica contraria alla guerra: immaginarsi che là fuori non esista veramente alcun nemico serio.

Indubbiamente questa immagine semplifica le cose, ma è sbagliata sotto ogni punto di vista. La tirannia e la brutalità del regime iracheno sono ben note e non possono essere coperte. Il suo uso di armi chimiche nel recente passato; la sconsiderata invasione dell’Iran e del Kuwait; la retorica della minaccia e della violenza attualmente in uso a Baghdad; i dati degli anni novanta, quando gli ispettori delle Nazioni Unite venivano sistematicamente ostacolati; la crudele repressione delle sollevazioni seguite alla guerra del Golfo del 1991; la tortura e l’assassinio degli oppositori politici: come può un movimento politico serio ignorare tutte queste cose?

Inoltre, nessuno dovrebbe sentirsi tranquillo di fronte all’idea di un Iraq provvisto di armi nucleari, che gli si deve impedire di usare. Non solo è incerto il funzionamento della deterrenza nei riguardi di un regime come quello di Saddam, ma il sistema della deterrenza che ne deriverà sarà molto instabile. Infatti, non coinvolgerà solo gli Stati Uniti e l’Iraq, ma anche Israele e l’Iraq.

Se si consente all’Iraq di dotarsi di armi nucleari, anche Israele dovrà acquisire ciò che ancora non possiede: la capacità di un’adeguata rappresaglia. E allora avremo navi israeliane nel mar Mediterraneo e nell’oceano Indiano dotate di armi nucleari e sempre pronte a lanciarle. Questa può essere considerata una deterrenza convenzionale, ma è folle pensare a una cosa del genere.

La via più difficile
Il giusto modo di opporsi alla guerra è quello di affermare che l’attuale sistema di contenimento e controllo funziona e può essere migliorato. Ciò significa che dovremo riconoscere il carattere negativo del regime iracheno e i pericoli che pone e cercare di affrontare questi pericoli con misure coercitive, senza giungere alla guerra. Ma non è facile difendere questa linea politica, perché tutti sappiamo quali sono le misure coercitive necessarie e ne conosciamo anche il costo elevato.

Primo, l’embargo esistente: esso può e deve essere adattato in modo da consentire l’introduzione nel paese di una più ampia gamma di prodotti necessari alla popolazione civile, continuando a escludere le forniture militari e le tecnologie necessarie alla produzione di armi di distruzione di massa. Ma per quanto intelligenti possano essere, le sanzioni costituiranno sempre un parziale blocco e una potente restrizione del commercio, e, stante il modo in cui Saddam spende i fondi disponibili, imporranno gravi sofferenze agli iracheni comuni. È giusto affermare che responsabile di queste sofferenze è il loro governo, poiché potrebbe spendere diversamente i fondi disponibili, ma questo non le rende più facili da sopportare. I bambini denutriti, gli ospedali senza forniture mediche, i tassi di longevità in rapido declino sono una conseguenza (indiretta) dell’embargo.

Secondo, le zone vietate agli aerei: impedire agli aerei iracheni di sorvolare un’area equivalente a quasi la metà del paese richiede continui sorvoli americani ed è stato calcolato che ciò obblighi a sua volta a una media bisettimanale di bombardamenti di radar e strutture antiaeree. Finora nessun pilota o aereo sono andati perduti e penso che pochi civili siano stati uccisi o feriti in queste incursioni aeree. Ma la cosa è rischiosa e costosa e, anche se non è guerra vera e propria, non è molto diversa da essa. D’altra parte, lasciando a Saddam libertà di controllo sui curdi nel Nord e sugli sciiti nel Sud del paese, il risultato sarebbe probabilmente una repressione così brutale da giustificare, e forse richiedere, un intervento militare per motivi umanitari. E questa sarebbe una guerra in piena regola.

Terzo, le ispezioni delle Nazioni Unite: dovrebbero continuare indefinitamente come un aspetto regolare del paesaggio iracheno. Infatti, anche se gli ispettori non trovano e non eliminano armi di distruzione di massa (alcune si possono nascondere molto facilmente), essi sono di per sé una barriera a qualsiasi uso di queste armi. Finché essi si muovono con libertà e determinazione in tutto il paese, in base alla loro tabella di marcia, l’Iraq sarà sotto un crescente controllo. Ma il regime delle ispezioni fallirà, come fallì negli anni novanta, se mancherà un uso della forza visibile e pronto a sostenerlo. E ciò comporta la presenza di militari nelle vicinanze, come i militari che gli Stati Uniti stanno attualmente schierando. Naturalmente sarebbe meglio che questi militari non fossero solo americani. Ma, ancora una volta, mantenere una tale prontezza per questa evenienza, chiunque la assicuri, è costoso e rischioso.

Difesa dell’embargo, dei sorvoli americani e delle ispezioni delle Nazioni Unite: questo è il modo giusto di opporsi alla guerra e così evitarla. Ma questo potrebbe anche suggerire l’argomentazione contraria: una guerra lampo, che metta fine all’embargo, ai bombardamenti settimanali e al regime delle ispezioni sarebbe migliore sia dal punto di vista morale sia politico dell’ipotesi di evitarla. Una guerra lampo, un nuovo regime, un Iraq demilitarizzato, cibo e medicine che fluiscono nei porti iracheni: tutto questo non sarebbe meglio di un sistema di coercizione e controllo permanente? Sì, forse. Ma chi può garantire che la guerra sarà breve e che le conseguenze nella regione e altrove saranno limitate?

Una responsabilità internazionale in tutto condivisa
Affermiamo giustamente che la guerra è l’ultima possibilità proprio a causa degli orrori imprevedibili, inattesi, non voluti e inevitabili che essa normalmente reca con sé. In realtà, la guerra non è l’ultima possibilità, poiché l’«ultimo» è una condizione metafisica, che non si raggiunge mai di fatto nella vita reale: è sempre possibile fare qualcos’altro, o rifarlo, prima di fare qualsiasi cosa che viene per ultima. La nozione di «ultimo» è un’ammonimento, ma un ammonimento necessario: impegnarsi con tutte le forze a cercare alternative, prima di «dare fuoco alle polveri».

Anche adesso, proprio in questo momento, esistono ancora delle alternative e questo è il miglior argomento contro il ricorso alla guerra. Si tratta, a mio avviso, di un argomento ampiamente accettato, anche se non è facile tenerne il passo. Che cosa scrivete sui cartelloni? Quali slogan gridate? Bisogna che la campagna contro la guerra sia complessa, e che i suoi fautori siano disposti a riconoscere le difficoltà e i costi delle proprie scelte politiche.

O, meglio, occorre una campagna che non sia focalizzata solo sulla guerra (e possa sopravvivere alla guerra): una campagna a favore di un forte sistema internazionale, organizzato e progettato per sconfiggere l’aggressione, fermare i massacri e la pulizia etnica, controllare le armi di distruzione di massa e garantire la sicurezza fisica di tutti i popoli del mondo. La triplice forma di coercizione esercitata sul regime di Saddam è solo un esempio, ma molto importante, del modo in cui dovrebbe funzionare questo sistema internazionale.

Ma un sistema internazionale deve essere il frutto del lavoro di molti stati diversi, non di uno solo. Devono esservi molti attori disposti ad accettare la responsabilità del successo del sistema, non uno solo. Oggi, in Iraq vi sono le ispezioni delle Nazioni Unite solo a causa di quella che molti americani liberali e di sinistra, e anche molti europei, hanno definito la sconsiderata minaccia degli Stati Uniti di ricorrere alla guerra. In mancanza di quella minaccia, i negoziatori delle Nazioni Unite sarebbero ancora a discutere con i negoziatori iracheni, senza essere giunti a un accordo definitivo sui dettagli del sistema d’ispezione; gli ispettori non avrebbero neppure fatto le valigie (e molti leader europei vorrebbero dare a intendere che questa sarebbe una cosa buona). Alcuni di noi rimangono perplessi al vedere che la minaccia cui ci opponiamo è la ragione principale dell’esistenza di un forte sistema di ispezioni e che l’esistenza di un forte sistema di ispezioni è oggi il migliore argomento contro il ricorso alla guerra.

Sarebbe stato molto meglio se la minaccia degli Stati Uniti non fosse stata necessaria; se la minaccia fosse venuta, tanto per dire, dalla Francia e dalla Russia, i principali partner commerciali dell’Iraq, la cui riluttanza ad affrontare Saddam e a dare nerbo al progetto delle Nazioni Unite è stata un’importante causa del fallimento delle ispezioni negli anni novanta. Un sistema di relazioni internazionali chiede che altri stati, oltre agli Stati Uniti, assumano la responsabilità di uno stato di diritto mondiale e siano disposti ad agire, politicamente e militarmente, per il raggiungimento di questo obiettivo. Gli esponenti americani favorevoli a un sistema di relazioni internazionali – sono molti, ma non abbastanza – devono criticare le spinte unilateraliste dell’amministrazione Bush e il suo rifiuto di collaborare con altri stati su tutta una serie di tematiche, dal surriscaldamento dell’atmosfera terrestre alla Corte penale internazionale.

Ma il multilateralismo necessita di un sostegno esterno agli Stati Uniti. Sarebbe più facile raggiungere il nostro obiettivo se fosse chiaro che vi sono altri attori nella società internazionale in grado di operare in modo indipendente e, all’occorrenza, con l’uso della forza, e pronti a rispondere di ciò che fanno, in luoghi come la Bosnia, il Ruanda o l’Iraq. Quando manifestiamo contro una seconda guerra del Golfo dovremmo manifestare anche a favore di questo tipo di responsabilità multilaterale. Ciò significa che abbiamo domande da porre non solo a Bush e soci, ma anche ai leader della Francia e della Germania, della Russia e della Cina, i quali, pur avendo recentemente sostenuto ispezioni continue e allargate, sono stati anche pronti, in diversi momenti del passato, ad assecondare Saddam. Se si farà una guerra preventiva, la responsabilità sarà anche loro, non solo degli Stati Uniti. E tutti, a guerra finita, saranno chiamati a renderne conto.

13 febbraio 2003

* Il presente articolo di Michael Walzer, professore di Scienze sociali all’Istituto di studi superiori dell’Università di Princeton (New Jersey, USA), è stato pubblicato da The New York Review of Books, 4(2003) I, 13.3.2003. Lo proponiamo in una nostra traduzione dall’inglese. Di Walzer in italiano sono disponibili, tra gli altri, Ragione e passione. Per una critica del liberalismo, Feltrinelli, Milano 2001; Sulla tolleranza, Laterza, Bari 2000; Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986; negli Stati Uniti è appena stato ripubblicato il volume, la cui prima edizione risale al 1979, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, tradotto e pubblicato in Italia da Liguori (Napoli) nel 1990.


articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)