Una grave responsabilità
La pace, la crisi internazionale, e il rischio dello scontro di civiltà
«Chi decide che sono esauriti tutti i mezzi pacifici che il diritto internazionale mette a disposizione, si assume una grave responsabilità di fronte a Dio, alla sua coscienza e alla storia». Sono le parole affidate dal papa e dai suoi collaboratori al portavoce vaticano Navarro Valls, il 19 marzo, nelle ore precedenti l’inizio dell’attacco militare anglo-americano all’Iraq. Parole amare, di presa d’atto del prevalere di una volontà di guerra sul proseguimento di un’azione di verifica internazionale condotta dalle Nazioni Unite nei confronti del regime di Baghdad.
«We are coming to the end of the road», aveva detto Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Bush, ai cardinali cattolici Bevilacqua, Keeler, Egan e McCarrick (rispettivamente di Philadelphia, Baltimora, New York e Washington), ricevuti il 3 marzo, due giorni prima dell’incontro tra l’inviato del papa card. Pio Laghi e il presidente degli Stati Uniti.
Lo sforzo del papa e di tutte le Chiese cristiane per evitare un nuovo conflitto è stato straordinario, potremmo dire che per la prima volta ci si è uniti «agli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla e per attuarla» (Gaudium et spes, n. 78; EV 1/1590). Invocazione e responsabilità concreta hanno contraddistinto l’atteggiamento delle comunità cristiane e l’azione diplomatica della Santa Sede. In questo corrispondendo a una mobilitazione mondiale a favore della pace che indica come «la causa della pace e la cultura della pace» – lo ha ricordato il card. Ruini nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI (24 marzo) – stia crescendo nella coscienza dell’umanità.
In una serie fittissima di incontri con diverse personalità di governo,1 il papa e i suoi collaboratori hanno esposto la posizione vaticana sulla grave crisi internazionale. Ne richiamiamo qui i passi salienti: evitare l’inizio della guerra; obbligare l’Iraq a conformarsi alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; nel caso che tali impegni non siano adempiuti, la comunità internazionale deve ricercare una soluzione adeguata utilizzando iniziative collettive, anche attraverso l’imposizione, sotto l’egida del Consiglio di sicurezza; spetta al Consiglio di sicurezza intensificare le ispezioni e dotarle di ulteriori strumenti; rifiuto del concetto di «guerra preventiva» che costituirebbe una grave rottura nelle relazioni internazionali. La Santa Sede sottolinea la necessità della comunità internazionale di rispettare la Carta delle Nazioni Unite (cf. art. 2, par. 4: «I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile coi fini delle Nazioni Unite»; essa ha inoltre fatto costante riferimento al cap. VII, che prevede cosa fare nel caso di minaccia contro la pace o di atto di aggressione. Nel caso in cui uno o più stati ricorressero unilateralmente all’uso della forza, essi agirebbero al di fuori della legalità internazionale. Spetta al Consiglio di sicurezza la valutazione circa una reale minaccia contro la pace, e l’eventuale decisione in favore del ricorso alla forza quale risposta adeguata.
Per la Santa Sede la questione principale è sempre stata quella di domandare ai diversi interlocutori internazionali se tutte le azioni e gli strumenti del diritto internazionale per conseguire il disarmo iracheno evitando la guerra fossero stati messi in atto davvero. Indicando la via della deterrenza (quindi acconsentendo a un uso della minaccia della forza nei confronti del dittatore di Baghdad) e del dialogo, le autorità vaticane hanno certamente indicato la necessità di una evoluzione politica e istituzionale interna all’Iraq, ma valutazioni di tipo umanitario, culturale, religioso e politico sull’insieme dei problemi della regione hanno sempre sconsigliato ogni ricorso alla guerra quale mezzo di risposta politica. Le sofferenze delle popolazioni irachene, gli sconvolgimenti geopolitici provocati da un conflitto nell’area, le conseguenze negative nel rapporto tra islam, cristianesimo e Occidente, sono stati i punti centrali affrontati nelle conversazioni diplomatiche, particolarmente con le autorità inglesi e statunitensi.
Mentre Blair si è dimostrato più sensibile all’argomentazione vaticana circa gli effetti del conflitto sul Medio Oriente e in particolare sulla questione israelo-palestinese, giungendo a fare inserire nell’intesa con Bush, alla vigilia del conflitto, il tema della pace in Palestina tra le attenzioni prioritarie nell’agenda del dopoguerra, l’amministrazione Bush si è dimostrata piuttosto rigida nei colloqui, dando l’impressione di una decisione irrevocabile a favore dell’intervento militare statunitense e persino di una sorta di cieca fiducia nelle proprie posizioni e valutazioni politiche.2
Le dichiarazioni dei responsabili vaticani lasciano intendere che le questioni di fondo sollevate dagli interlocutori statunitensi riguardano il perseguimento, in una visione convintamente unilaterale, della propria missione mondiale attraverso l’uso prevalente della forza dopo l’11 settembre 2001 e la volontà di rifare il quadro politico e gli equilibri di tutta l’area mediorientale. In questo senso il terrorismo internazionale di matrice islamista si sostituisce ideologicamente al conflitto col comunismo nella logica amico/nemico. L’incapacità dell’ONU di risolvere il problema Saddam Hussein nei precedenti dodici anni fa concludere sulla sua attuale inutilizzabilità. Quanto all’Europa, essa sembra non comprendere le sfide nuove intervenute dopo l’11 settembre e la necessità di un nuovo equilibrio centrato sugli Stati Uniti e sulla loro forza.
I colloqui precedenti l’inizio della guerra e l’avvio della guerra stessa confermano la lettura che aveva dato il teologo americano, Christiansen: «La questione più preoccupante riguardo la connessione che l’amministrazione Bush ha fatto e sta facendo tra guerra contro il terrorismo e il principio del successo ad bellum: si può vincere una guerra contro dei nemici su ogni fronte possibile? Sembra che la determinazione degli Stati Uniti in Afghanistan abbia fatto intraprendere ad alcuni potenziali avversari, come il Sudan, azioni contro i terroristi per prevenire attacchi americani contro di sé. Ma la questione di fondo resta: possiamo vincere una guerra su un fronte così ampio, nel quale il governo è disposto a usare la forza per assicurare il predominio degli Stati Uniti, ma non è disposto ad affrontare le cause che stanno alle radici del terrorismo, cercando di prosciugare l’acqua nella quale il terrorismo ha le sue radici? Il problema più rilevante, naturalmente, è la giusta risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Ma il problema è più profondo: gli Stati Uniti sono disposti a impegnarsi e ad assumere le misure diplomatiche, civili e a favore della popolazione necessarie per vincere la guerra a lungo termine? Mentre gli Stati Uniti si stanno preparando alla guerra contro l’Iraq, molti hanno l’impressione che il governo stia agendo come il proverbiale riparatore che cerca di aggiustare un guasto con il martello perché è l’oggetto che ha a portata di mano. Non c’è alcun modo, assolutamente nessuno, con il quale gli Stati Uniti possano vincere la guerra contro il terrorismo o persino conservare il rispetto dei loro alleati se continueranno su questa strada. Per vincere la guerra, dobbiamo intraprendere la pace in modo ancor più vigoroso della guerra» (cf. Regno-doc. 15,2002,509).
Accanto ai primi civili iracheni e ai primi soldati, la guerra ha già fatto altre vittime. Ha sospinto i governi arabi e parte dell’islam moderato su posizioni più radicali, per rispondere alle proteste delle loro popolazioni e non vedere in alcun modo messa in discussione la loro leadership. Se il fondamentalismo islamico può essere affrontato adeguatamente solo dall’interno di un’evoluzione culturale complessiva della comunità islamica, questa guerra è la peggiore delle risposte possibili e finisce con l’acuire il sentimento antioccidentale e anticristiano, già a livelli di guardia nel mondo musulmano.
La guerra ha poi sconvolto gli equilibri internazionali, dividendo le democrazie occidentali: ha quasi travolto il ruolo delle Nazioni Unite, declassato la funzione della NATO, gettato lo scompiglio nel difficile e ambizioso progetto di unificazione dell’Europa. Questa guerra reca con sé già un pesante fardello di vittime, di risentimenti, di crisi politiche – nella speranza che non si apra un ulteriore processo di destabilizzazione tra Turchia e Kurdistan iracheno, in Iran e in Arabia Saudita – che peseranno a lungo, in particolare nei rapporti tra Stati Uniti e nazioni europee.
Vedere saldarsi da una parte un asse di interessi nazionali tra Parigi, Berlino e Mosca, e dall’altra l’insieme dei paesi candidati a entrare nell’Unione Europea su una ipotesi politica del tutto insensibile a ogni progetto politico unitario dell’Europa, lascia intendere che il processo di allargamento dell’Europa rischia di fallire prima ancora di iniziare, senza una rapida acquisizione di strutture e progetti unitari.
Nelle divisioni occidentali non è difficile scorgere prima e dopo questa guerra un contrasto di fondo sulla definizione di un nuovo equilibrio mondiale nel dopo guerra fredda: unipolare ed egemonico nella visione «religiosa» dell’amministrazione Bush, multipolare e sottoposto all’esercizio del diritto internazionale nell’approccio europeo prevalente. Ma la risposta politica europea è stata sin qui inadeguata, sospettabile e sospettata di rispondere piuttosto alle vecchie logiche nazionali e di potenza che alle nuove responsabilità.
«Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che la guerra come strumento di risoluzione delle contese fra gli stati è stata ripudiata, prima ancora che dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla coscienza di gran parte dell’umanità, fatta salva la liceità della difesa contro un aggressore. Il vasto movimento contemporaneo a favore della pace – la quale, secondo l’insegnamento del concilio Vaticano II, non si riduce a una “semplice assenza della guerra” (Gaudium et spes, n. 78) – traduce questa convinzione di uomini di ogni continente e di ogni cultura. In tale quadro, lo sforzo delle diverse religioni per sostenere la ricerca della pace è motivo di conforto e di speranza», ha detto il papa nel messaggio inviato il 24 marzo ai cappellani militari.3
Forse tocca proprio alle Chiese, segnatamente alle Chiese europee, farsi in questi giorni promotrici di una iniziativa ecumenica a favore della pace, della giustizia, del diritto internazionale umanitario. Chi altri, oltre il papa, può convocare una tale assemblea?
1 Il papa ha ricevuto nell’ordine: Joschka Fischer, ministro degli esteri tedesco (7 febbraio); Tareq Aziz, vice premier iracheno (14 febbraio); Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite (18 febbraio); Tony Blair, primo ministro inglese (22 febbraio); José Maria Aznar, primo ministro spagnolo (27 febbraio); Seyyed Mohammad Reza Khatami, leader iraniano (27 febbraio); oltre a contatti con il governo italiano. Inoltre il papa ha mandato a Baghdad come suo inviato speciale il card. Roger Etchegaray nel tentativo di fare riflettere Saddam Hussein sulle sue gravi responsabilità di fronte a un conflitto e sulla necessità di una sua collaborazione completa con gli ispettori dell’ONU. Da ultimo, il 5 marzo, il papa ha inviato il card. Pio Laghi a Washington per incontrare il presidente americano George W. Bush e i suoi collaboratori per esporre la posizione della Santa Sede sulla crisi internazionale. Il 5 marzo è stata anche la giornata di digiuno e di preghiera chiesta dal papa alle comunità cattoliche in favore della pace.
2 Cf. in proposito le dichiarazioni del card. McCarrick al Catholic New Service del 28 febbraio e del Card. Pio Laghi del 5 marzo, dopo il colloquio col presidente Bush.
3 Il messaggio del papa è stato occasionato dal corso di formazione al diritto umanitario organizzato dalla Congregazione per i vescovi e dal Pontificio consiglio della giustizia e della pace.