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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Piero Stefani

Il ruolo decisivo degli sciiti

"Il Regno" n. 10 del 2003

Islam e cristianesimo nel dopo Saddam


Risulta ormai evidente che per interpretare le vicende dell’ultimo decisivo squarcio del XX secolo non si può prescindere dal fatto che in diverse aree geografiche le religioni, tenute a lungo in una posizione subordinata, emarginata, o anche apertamente osteggiata, stanno di nuovo giocando, in relazione a realtà etnico-nazionali, un rilevante ruolo identitario-politico. Le analisi rispetto ai paesi dell’ex blocco sovietico e dell’area balcanica sono numerose e tutte mostrano, sia pure nella diversità degli approcci e dei riferimenti, la natura carsica delle religioni: fattori di lunga durata, esse riemergono improvvise e fluenti, ma non indenni dal lungo passaggio nei sottosuoli della storia.

L’inizio del XXI secolo, lungi dall’attenuare questa convinzione, invita piuttosto a estenderla ad altre aree geografiche: una di queste è l’Iraq del dopo Saddam. A partire dal suo avvento al potere con il colpo di stato del 1968, il partito nazionalista Baath, appoggiato dai sunniti arabi e dominato dal clan Takriti, ha imposto al paese una pesante cappa laica con lo scopo di tenere a freno fattori etnici e religiosi.

La dinamica diviene comprensibile incrociando questi due parametri. Secondo i dati più accreditati, l’attuale popolazione dell’Iraq è così ripartita: arabi 77%, curdi 19%, arzebaigiani 1,7%, assiri 0,8%, altri 1,5%. Dal punto di vista religioso gli sciiti sono il 62,5%, i sunniti il 34,5%, gli altri il 3%. Tuttavia va precisato che, essendo i curdi tutti sunniti, la percentuale degli sciiti in seno alla popolazione araba si innalza notevolmente.

Rimarcare la propria componente sunnita da parte del regime avrebbe quindi significato, tra l’altro, avanzare un poco desiderato tratto accomunante nei confronti dei curdi. Per decenni dunque il governo è stato saldamente nelle mani di un ristretto gruppo di arabi sunniti non praticanti. Solo nell’ultimo periodo si è assistito a uno strumentale avvicinamento di Saddam alla retorica islamica e persino a una qualche assunzione di una simbologia para-sciita (cf. il parallelo tra il califfo Alì e i suoi due figli Hasan e Husain, e Saddam con i suoi due giovani leoni, i figli Udai e Qusai).

Si è trattato comunque di un’operazione condotta fuori tempo massimo e perciò priva di concrete ricadute pratiche. L’egemonia del clan Takriti risultava compatibile invece con l’instaurazione di buoni rapporti con le piccole minoranze arabe cristiane, le quali, in quelle circostanze, non venivano a identificarsi con alcuna delle componenti antitetiche al regime di Saddam. Il sigillo di questa operazione è stato la scelta di assegnare la vicepresidenza al cattolico caldeo Aziz.

Il martirio della Sciia
In Iraq gli sciiti hanno patito un’emarginazione di lungo periodo in un’area che, allo stesso tempo, custodisce i massimi luoghi santi della loro tradizione e confina con l’unico paese che fin dal XVI secolo è ufficialmente sciita: l’Iran. Najaf è la città in cui si trova la tomba di Alì, per gli sciiti il primo autentico successore del Profeta. Dal canto suo, la battaglia di Karbala (680) segna a tutt’oggi il punto di non ritorno tra gli sciiti e i loro nemici che presto sarebbero stati chiamati sunniti, ovvero quel cruento scontro è percepito come punto di passaggio da una contesa di tipo politico-dinastico alla creazione di una tradizione religiosa autonoma.

Il punto qualificante è che questa svolta decisiva non avviene a motivo di una vittoria militare; al contrario, essa ha avuto luogo a causa di una cocente sconfitta in cui trovò la morte Husain, il secondogenito di Alì. Si aggiunga che il califfo omayyade vittorioso, Yazad, sottopose a scempio il cadavere del suo rivale sconfitto. La Sciia ha dunque come proprio «mito fondativo» un martirio in cui la figura dei carnefici è costituita da altri musulmani. La ritualità di luttuose processioni di autoflagellanti e di sacre rappresentazioni che rievocano, di fronte a un pubblico commosso, le tappe della passione e della morte di Husain esprime un clima tutto diverso da quello che si manifesta nella sua rilettura avvenuta in certi ambiti politicizzati e disposti a imboccare la via dell’autosacrificio terroristico (cf. Regno-att. 22,2002,753).

Il processo di emarginazione degli sciiti iracheni affonda le proprie radici in epoca ottomana. I turchi preferivano inserire nell’apparato amministrativo gli arabi sunniti sia per motivi di appartenenza allo stesso tipo di islam, sia perché gli sciiti erano in stretto rapporto con i loro nemici persiani. Questo ha fatto sì che il livello culturale sunnita, giudicato in base ai parametri occidentali, fosse mediamente più alto di quello sciita. Tale situazione ha rappresentato una costante da allora fino agli ultimi mesi del regime di Saddam.

Si comprende quindi il perché della scarsa cultura politica della Sciia irachena, specie se paragonata alle possenti dinamiche presenti negli ultimi decenni del XX secolo tra le fila sciite dell’Iran e del Libano. Nonostante la presenza di gruppi come il Supremo consiglio della rivoluzione islamica fondato da Mohammad Baqr al-Hakim, nulla induce a credere che in seno agli sciiti il radicalismo politico fosse davvero prevalente. Tuttavia ciò non ha impedito che in entrambe le guerre combattute dall’Iraq di Saddam Hussein negli ultimi due decenni del Novecento gli sciiti pagassero pesantemente le conseguenze del loro essersi trovati, più o meno direttamente, coinvolti con l’altra parte.

Nel 1980 l’immediata vigilia della dichiarazione di guerra irachena nei confronti dell’Iran fu caratterizzata da espulsioni, persecuzioni e dalla condanna a morte del capo supremo della comunità sciita, Baqir Sadr. Durante la prima guerra del Golfo nel 1991 vi fu una sollevazione sciita a Karbala repressa nel sangue, le vittime furono molte migliaia (c’è chi propone la cifra di 30.000), a seguito della mancata avanzata delle truppe della coalizione. Il «tradimento» compiuto nei confronti degli sciiti da parte di Bush padre è una ragione non trascurabile che alimenta sia l’atteggiamento antiamericano dell’attuale leadership sciita, sia la profonda diffidenza avvertita dalla gran parte dei fedeli.

La conquista sciita dell’Iraq
Le vicende degli ultimi decenni hanno dato luogo, all’interno della Sciia irachena, a un lungo martirologio che la lega all’origine stessa della propria tradizione, nata da un martirio «intraislamico» testimoniato appunto dai luoghi santi del paese. Pur dando il giusto peso alle ovvie, marcate differenze, è possibile cogliere in ciò una certa analogia con un determinato modo cattolico di giudicare il Novecento come il «secolo dei martiri», qualifica che consente di riproporre nell’oggi una forza testimoniale che affonda le proprie radici nelle dimensioni paradigmatiche dell’origine.

L’ironia storica fa sì che in virtù dell’intervento occidentalizzante e democratizzante americano, al giorno d’oggi in nessun altro paese, fatta eccezione per l’Iran, gli sciiti si trovino tanto prossimi al potere come in Iraq. Qualunque sia la soluzione politico-istituzionale che alla fine prevarrà in Iraq, essi rappresenteranno senz’altro un elemento fortemente condizionante. La non spiccata ideologizzazione degli sciiti iracheni sembra tuttavia escludere la prevalenza di un’opzione di tipo radicale: è molto più probabile che essi continuino ad adottare un linguaggio tradizionalista volto a denunciare l’immoralità e l’impudicizia dello stile di vita occidentale.

Su questa prospettiva inciderà senza dubbio l’esistenza di tensioni intra-sciite. Infatti si è ben lungi dall’essere di fronte a una componente omogenea. Un primo problema riguarda il riconoscimento o il rifiuto dell’esistenza di un primato ideale iraniano. Si tratta di un terreno delicato, in quanto la massima autorità sciita dal punto di vista istituzionale, l’ayatollah Alì Al Sistani a capo della Hawza (il «Vaticano» sciita con sede a Najaf), è appunto di origine iraniana. A lui si contrappongo altre figure, come quella di al-Hakim (il già ricordato fondatore del Consiglio supremo), tornato trionfalmente a Bassora dopo un lungo esilio in Iran, e quella del giovane Mouktada Al-Sadr, che più di ogni altro può rivendicare a sé l’eredità del martirio arabo sciita: nel 1999 suo padre Sayyid Mohamed Al-Sadeq Al Sadr fu assassinato, assieme ad altri suoi due figli, per ordine di Saddam Hussein, mentre, come si è detto, nel 1980 suo nonno, Baqir Sadr, fu condannato a morte e giustiziato con l’accusa di collaborazionismo filoiraniano.

La grande ripresa della pubblica preghiera e della presenza sciita a Baghdad è avvenuta proprio invocando il nome dei Sadr. Gli ultimi avvenimenti sembrano inoltre aver evidenziato una certa frizione intra-sciita relativa al controllo dei due luoghi simbolo, quello «istituzionale» di Najaf e quello «aggregante» di Karbala.

Le preoccupazioni cristiane
La situazione che si sta profilando suscita apprensione nella componente cristiana, la quale teme l’avvento di un prossimo governo islamico e ha già dato segni di «nostalgia» della tutela goduta sotto il regime di Saddam. In questo quadro i patriarchi e i vescovi iracheni hanno fatto appello ai capi politici, ai leader religiosi e alla comunità internazionale perché la nuova Costituzione preveda il diritto alla libertà religiosa e garantisca ai cittadini la partecipazione alla vita sociale e politica senza discriminazione di appartenenza a gruppi religiosi o sociali. L’appello, firmato a fine aprile dai capi caldei, assiri, siriani, armeni, greci e latini, chiede in particolare che vengano riconosciuti i diritti delle comunità cristiane a professare la propria fede secondo i riti e le norme di ciascuna, di poter educare i figli secondo i principi cristiani, di organizzarsi liberamente e di costruire i luoghi di culto in base alle proprie necessità, e infine ribadisce il diritto a partecipare alla vita pubblica irachena in quanto cittadini uguali a tutti gli altri.

La Sciia irachena giocherà un ruolo significativo nel futuro Iraq e tenderà a parlare un linguaggio antioccidentale sia per il congenito orgoglio islamico, comunque insofferente di una tutela altrui, sia per il tradizionalismo etico-sociale; essa appare invece culturalmente poco propensa tanto al radicalismo della «rivoluzione islamica» quanto al terrorismo «sacrificale». Lo stesso non può dirsi per i cromosomi presenti nel wahhabismo saudita, che si presenta dotato delle due caratteristiche di essere a un tempo retroterra culturale di Osama Bin Laden e finanziatore dell’80% dei centri islamici negli USA. Forse un giorno ci si accorgerà che, per alcuni versi, la politica statunitense non è tanto passibile dell’accusa di essere miope quanto piuttosto di quella di essere presbite.


articolo tratto da Il Regno logo

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