La via della legalità internazionale
In questi tristi giorni la morte dei nostri soldati in Iraq ha avuto l’effetto di definire a ritroso, in un modo più comprensibile e più accettabile, ben oltre quel che le scelte politiche avevano definito, il compito che gli italiani si erano dati in quel paese: mantenere la pace e costruire la democrazia.
È ora divenuto necessario cercare una risposta concreta alla domanda su come fare per portarlo a termine. Tutti discutono su cosa non si doveva e non si deve fare: non fare la guerra, non fare la guerra senza il consenso dell’ONU e così via.
In questi giorni mi è tornato in mente un lontano episodio accaduto in Egitto e in Iran a me e a un gruppo di studenti e professori in viaggio di studio. Durante una visita, più o meno guidata, all’Università di Teheran, mentre il nostro gruppo si era sgranato per aule e corridoi, fummo, io e pochi altri, quasi sequestrati in un’aula da un gruppo di studenti e di studentesse e ci fu posta una semplice e diretta domanda: perché loro non potevano fare quello che stavamo facendo noi, e cioè venire e chiedere ciò che volevamo senza alcun controllo? La stessa cosa c’era già accaduta al Cairo. La nostra risposta consistette nell’allargare le braccia. Era chiaro a noi e a loro che le difficoltà per la realizzazione del loro desiderio non erano principalmente economiche. Quelli non erano gli studenti poveri di un’università di massa, e neppure solamente i figli ricchi dell’élite al potere. Erano i figli delle nuove classi che la modernizzazione aveva portato alla soglia della democrazia e che ora impediva loro di oltrepassarla.
Erano i primi anni sessanta, lo scià e Nasser erano al potere in Iran e in Egitto, i due paesi erano già schierati nei due campi internazionali contrapposti, eppure la domanda era la stessa. Quella domanda non ha ancora avuto risposta, ma senza una risposta efficace, nessuno dei problemi di quell’area ha la speranza di essere alleviato. La premessa e l’episodio raccontato sono forse un po’ lunghi ma in essi sono poste tutte le questioni sulle quali ora si dibatte.
Bisogna innescare e sostenere il processo di democratizzazione, o meglio bisogna aiutare, se possibile imporre, la democratizzazione della modernizzazione. Questo vuol dire sostenere il prevalere dei diritti individuali (dei diritti umani) sui diritti comunitari. La definizione, pur sommaria, fa risaltare la differenza che esiste fra la situazione europea e occidentale e quella del Medio Oriente. In Occidente i diritti individuali sono già sufficientemente saldi da poter considerare l’introduzione di diritti comunitari; la questione è divenuta attuale in Europa e in America con l’immigrazione di gruppi portatori di queste istanze. Si discute su quante di queste richieste possano essere accettate nel quadro dei diritti individuali del cittadino stabiliti nelle costituzioni e nella prassi. In Medio Oriente la situazione è di fatto rovesciata: sono le istanze comunitarie che prevalgono, siano esse etniche, religiose, linguistiche, tribali, ed esse sono di ostacolo alla realizzazione dei diritti individuali, i quali sono alla base dell’eguaglianza e cioè della democrazia.
Una cultura politica frantumata
L’Iraq è un caso esemplare di quest’impostazione. È stato costruito sulla convivenza forzata di etnie, confessioni e lingue diverse e ostili: curdi, arabi, sunniti, sciiti, tenuti insieme dalla forza dominante di un partito d’ispirazione alawita e cristiana che ha costruito uno stato senza tenere conto di queste divisioni. Queste divisioni hanno prevalso e hanno consegnato il potere a un clan regionale e familiare, quello dei tikriti, che ha progressivamente imposto il proprio dominio e si è poi incarnato nella figura del dittatore Saddam. Per mantenere il potere, questi doveva espanderlo poiché la sua giustificazione stava nell’ideologia bahatista; non potendo farlo verso la rivale Siria che sussisteva per la stessa ideologia, ha tentato di farlo verso l’Iran, gli Emirati e l’Arabia Saudita. Annettendo la parte meridionale dell’Iran, confinante con lo Shatt-el-arab, e il Kuwait, avrebbe accresciuto di molto il suo peso nel mercato del petrolio e accumulato risorse per accrescere la sua potenza militare.
Le cose sono andate diversamente, ma la distruzione sistematica di ogni autonomia ha minato le basi sulle quali impiantare, in Iraq, un governo che tenesse conto delle diverse componenti etniche e linguistiche e fosse il meno arbitrario possibile. La minaccia continua della repressione e la sua feroce attuazione contro i curdi a Nord e contro gli sciiti a Sud hanno fiaccato le aspirazioni all’autogoverno e frantumato le possibili aggregazioni politiche e, infine, hanno costruito una società dipendente dall’alto e dalle elargizioni del governo, una società di tutti contro tutti.
L’emigrazione politica è anch’essa il risultato della repressione ed è costituita da superstiti senza storia e senza prestigio sfuggiti senza merito alla repressione e non costituisce una base ideologica coerente sulla quale costituire un’alternativa. La presenza delle truppe di occupazione e la mancata soppressione del dittatore lasciano spazio all’azione terroristica dei superstiti del regime che non hanno più nulla da perdere, né hanno la possibilità di accodarsi a un gruppo di potere alternativo che tuttora non esiste.
Sotto queste macerie materiali e morali è del tutto utopico rintracciare giacimenti di cultura politica. Tutto questo è stato misconosciuto e sottovalutato quando, dieci anni dopo aver permesso la sopravvivenza di una società corrotta e condizionata dalla dittatura, si è intervenuti con una nuova guerra i cui scopi sono andati mutando nel breve volgere di poche settimane, fra il facile crollo della forza militare e l’impossibile riorganizzazione di una società minata alla base dal regime.
La successione democratica deve essere preparata nel tempo trasmettendo alle società musulmane non solo la cultura materiale della società consumistica, ma anche i valori umani e i meccanismi politici che fanno funzionare una società democratica in Occidente. Società nella quale i consumi e lo stile di vita sono un effetto del capitalismo democratico e non sono separabili da esso.
In questo contesto un intervento armato che abbia lo scopo di spostare gli equilibri politici verso un assetto più democratico, in un quadro di legalità internazionale, può essere concepito e attuato. Ma è pericoloso e inefficace in assenza di quelle condizioni e fuori da quel quadro.
Paradossalmente, l’unica azione americana nella quale si sono verificate quelle condizioni è fallita, con conseguenze incalcolabili in Iran e nella regione. Quando Carter tentò, con un’operazione che aveva lo scopo di liberare gli ostaggi nell’ambasciata americana a Teheran e che fallì a Tabas, le aveva in gran parte realizzate. Aveva insistito e in parte costretto lo scià a una maggiore attenzione ai diritti umani, aveva sostenuto quanti desideravano in Iran un’apertura reale del regime all’opposizione interna, stava realizzando un’operazione di polizia dedicata a uno scopo preciso, aveva dalla sua parte il diritto internazionale e l’approvazione delle potenze amiche, otteneva la sconfitta e l’umiliazione degli organizzatori dell’assedio all’ambasciata, assedio concepito come un vero e proprio colpo di stato diretto contro la parte della rivoluzione islamica che faceva riferimento alle forze nazionali, democratiche, marxiste, le quali avrebbero conservato una dinamica aperta della rivoluzione. Così non fu e le conseguenze sono state drammatiche. La rivoluzione islamica si è chiusa per un ventennio alle altre forze che sono state o soffocate o espulse, e la massiccia opzione militare è stata, dalla presidenza Reagan in poi, la sola considerata possibile ed efficace dagli americani. E ora ne vediamo le conseguenze.