Il diritto e la democrazia
Prosegue l’azione unitaria delle Chiese in favore della pace
Due commissioni d’inchiesta, una del Senato americano, l’altra britannica presieduta da lord Butler, hanno spiegato nei loro rapporti (9 e 14 luglio) che la guerra in Iraq fu un grave errore, un errore interpretativo, basato su false informazioni. Un errore collettivo dei governi americano e inglese. A dire: una cosa da irresponsabili. Non è un giudizio lusinghiero per Bush e Blair, anche se istituendo il concetto di «responsabilità collettiva» le commissioni evitano che i due massimi responsabili vengano messi in discussione.
Che si trattasse di una sorta di fideismo, fu anche l’impressione che ne ricavò nei suoi colloqui a Washington, alla vigilia della guerra, l’inviato papale, il card. Laghi. Ci disse che sembravano tutti prigionieri di uno stesso giudizio, che mostravano una sicurezza cieca.1
Certo quell’acritica adesione ai propri convincimenti, che non elimina la responsabilità morale e politica personale, particolarmente di chi deve prendere la decisione finale, è costata molto e riapre il problema della costruzione di processi decisionali trasparenti e autocritici nelle democrazie.
L’amministrazione Bush fece di quei presupposti errati la chiave di volta della sua nuova idea della politica internazionale e dell’egemonia statunitense. Bush ruppe con la visione multilaterale della politica americana precedente, in base alla quale la potenza americana perseguiva i propri interessi tenendo conto degli interessi e degli equilibri internazionali e nei momenti più alti traeva legittimità da azioni intraprese nel quadro del diritto internazionale, attraverso le istituzioni internazionali (l’ONU in particolare) e nel perseguimento di un interesse generale delle democrazie. E optò per un disegno unilateralista, che consentisse agli USA di decidere autonomamente dell’uso preventivo della forza, riducendo la portata politica delle alleanze precedenti e delle istituzioni internazionali.
Il dramma del dopoguerra, l’acutizzarsi dell’azione terroristica dentro e fuori l’Iraq, i gravi casi di torture e di violazione dei diritti umani nei confronti dei prigionieri iracheni da parte di soldati inglesi e statunitensi, le divisioni e il conflitto politico con l’Europa hanno alla fine indotto l’amministrazione americana a ritornare sui propri passi. Ci si è resi conto che la coalizione che aveva vinto la guerra aveva bisogno della legittimazione dell’ONU e del sostegno della comunità internazionale per poter dare vita a un governo di transizione credibile in Iraq. A questo scopo sono servite la risoluzione 1546 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la partecipazione del presidente Bush al 60° del D-Day, in Normandia, la sua visita in Vaticano e a Roma il 4 giugno.
Il severo monito del papa
Al presidente Bush il papa aveva chiesto di «collaborare» con l’Europa e con la «comunità internazionale» per poter giungere a una qualche normalizzazione della situazione irachena. Il no alla guerra e la priorità della soluzione della questione israelo-palestinese erano state richiamate in questi termini: «Lei ha molta familiarità con la posizione inequivocabile della Santa Sede al riguardo, quale fu formulata in numerosi documenti ed espressa in contatti diretti e indiretti». E: «Tutti desiderano che questa situazione sia normalizzata il più rapidamente possibile, con l’attiva partecipazione della comunità internazionale e, in particolare, dell’ONU, al fine di assicurare un rapido ristabilimento della sovranità dell’Iraq, in condizioni di sicurezza per tutto il suo popolo». «La recente nomina di un capo di stato e la formazione di un governo provvisorio iracheno sono un passo incoraggiante verso quegli obiettivi» – ha proseguito il papa, guardando con una preoccupazione persino più grande alla situazione tra israeliani e palestinesi –: «Possa una simile speranza di pace riaccendersi anche in Terra santa e condurre a un nuovo negoziato, ispirato a un sincero e deciso impegno al dialogo».
Del terrorismo, condannato senza alcuna esitazione, il papa ha ricordato quel che aveva detto dopo l’11 settembre 2001, definendo quel giorno «un giorno nero nella storia dell’umanità»; poi nello stesso paragrafo egli ha parlato degli orrori recenti: «Ancora poche settimane fa, altri deplorevoli eventi hanno visto la luce, sconvolgendo le coscienze civili e religiose e creando ulteriori problemi per una serena realizzazione dei valori umani senza i quali non ci si può liberare né della guerra, né del terrorismo». È evidente l’allusione alle torture sui prigionieri, alle uccisioni degli ostaggi, agli atti terroristici.
Al recupero di un dialogo tra Stati Uniti ed Europa, il papa aveva riservato la chiusura del suo discorso: «Una maggiore e più profonda comprensione tra gli USA e l’Europa giocherà sicuramente un ruolo decisivo per la soluzione dei grandi problemi», confidando che la venuta di Bush in Europa possa dare un nuovo e forte impulso a quella collaborazione.
Democrazia: lezioni da Canterbury
Sugli stessi temi sono intervenuti recentemente anche i vescovi anglicani. Gli arcivescovi di Canterbury e York, Rowan Williams e David Hope su mandato dei 114 vescovi presenti all’assemblea episcopale della Chiesa d’Inghilterra nel giugno scorso, hanno scritto al primo ministro Tony Blair (25 giugno) per esprimere il punto di vista della Chiesa anglicana su diverse questioni relative all’Iraq e al Medio Oriente (cf. qui a fianco).
La lettera non era stata pensata inizialmente per la pubblicazione, ma per offrire un concreto contributo allo sviluppo della politica del governo. Ma le indiscrezioni e le parziali riproduzioni hanno convinto i vescovi anglicani a renderla pubblica.
Essa definisce le priorità che i vescovi vorrebbero vedere perseguite dal governo britannico a seguito del trasferimento della sovranità al governo provvisorio dell’Iraq. Torture, violazione dei diritti umani non possono essere tollerati o derubricati a spiacevoli effetti collaterali nella guerra al terrorismo. Una democrazia dalla doppia morale o dalle doppie regole non può avere alcuna legittimazione.
Dai fallimenti nella guerra e nel dopoguerra iracheno vengono una serie di lezioni alle nostre democrazie, dicono i vescovi. Anche nell’agenda di Canterbury, così come in quella di Roma: Medio Oriente, ONU, un confronto con il mondo musulmano tenuto rigorosamente fuori da ogni schema di contrapposizione pseudo-religiosa, rappresentano le priorità condivise.
Per la Chiesa d’Inghilterra, la permanenza degli inglesi in Iraq è finalizzata oramai a garantire il passaggio dal governo provvisorio a un governo iracheno legittimamente eletto dal popolo. Per la Santa Sede, il ripristino della legalità internazionale, avviato con la recente risoluzione del Consiglio di sicurezza deve proseguire con un progressivo impegno diretto delle Nazioni Unite e un progressivo disimpegno della coalizione che ha fatto la guerra.
1 Cf. Regno-att. 6,2003,145 e «Nel Suo Nome. Dio e il confronto delle civiltà», Atti dell’Incontro di studio, Camaldoli 3-5.10.2003; supplemento a Regno-att. 6,2004, p. 29.