Fra elezioni e attentati
Il 20 gennaio sono stati resi noti i risultati delle elezioni generali irachene del 15 dicembre scorso. Gli sciiti di Alleanza irachena unita hanno vinto con il 41% dei voti e 128 seggi su 275 a disposizione. 53 seggi ha guadagnato l’Alleanza curda (ne aveva 75) e 44 il Fronte della concordia (sunniti). Gli altri seggi sono andati a figure indipendenti (come Iyad Allawi e Ahmed Chalabi) e a partiti minori. Un solo seggio per il partito cristiano, ma forse altri saranno recuperati nelle diverse liste.
Il risultato riconferma il carattere comunitario del voto (per appartenenze etnico-religiose), l’impossibilità per gli sciiti di governare da soli, il ruolo dei curdi come ago della bilancia (si è ricandidato alla presidenza della Repubblica il curdo Jalal Talabani) e la progressiva irrilevanza dei cristiani (cf. Regno-att. 20,2005,674). Si ripropone con ulteriore urgenza la questione della legge islamica (sharia), del riferimento ai cristiani nella Costituzione (molto secondario), di alcuni aspetti della libertà di religione. I sistematici attacchi alle donne che non portano il velo, ai negozi e mercanti cristiani e gli attentati alle personalità cattoliche e alle chiese parlano un linguaggio fin troppo esplicito.
Oltre le appartenenze etnico-religiose
Dopo gli attentati alle chiese del 29 gennaio abbiamo chiesto una testimonianza a mons. Luis Sako, vescovo di Kerkuk.
«La città – ci ha detto – è stata abbastanza salvaguardata delle violenze terroristiche degli ultimi mesi. Composta da arabi, curdi e turkmeni vede la presenza di 12.000 cristiani in mezzo a 600.000 musulmani. Domenica scorsa (29 gennaio) alle 16,30, ora di messa, ci sono stati due attentati, alla chiesa cattolica e a una chiesa ortodossa. Tre le vittime nel primo caso e sei i feriti nel secondo. Tra le vittime un ragazzo, Fadi, e un coppia di musulmani che passavano in macchina nel momento della deflagrazione. Nello stesso frangente ordigni sono esplosi davanti a tre chiese a Baghdad e alla nunziatura apostolica. Fadi era un chierichetto e lo considero un martire. Ai suoi funerali erano presenti tanti musulmani e tante donne. Nonostante la violenza contro di noi siamo pieni di coraggio e di speranza, e attendiamo la pace e la fraternità.
Forse gli attentati rispondono alla pubblicazione delle vignette anti-islamiche apparse sui giornali danesi. In mattinata avevo incontrato il capo degli imam esponendo a lui la posizione ecclesiale, critica nei confronti di una libertà di stampa che non conosce i confini del rispetto.
Forse ci sono gruppi estremistici che approfittano del caso delle vignette per coprire la questione nucleare in Iran. O forse si cerca di creare il panico fra i cristiani per sollecitarli a partire, e così mostrare coi fatti che nei paesi musulmani non è possibile la convivenza di più religioni e il pluralismo delle idee. Purtroppo anche nei sermoni del venerdì nelle moschee ritorna l’accusa ai cristiani di essere al soldo degli americani e al servizio degli interessi occidentali. Siamo considerati kuffar, impuri e infedeli. Ho paura che la massa dei semplici fedeli musulmani non sia in grado di distinguere le cose. Così i cristiani iracheni fanno sempre più fatica a sopportare la situazione, perdono la pazienza e la speranza e cercano in tutti i modi di lasciare il paese.
Abbiamo bisogno di analizzare la situazione con chiarezza e di programmare il nostro futuro. È estremamente urgente il conforto e la vicinanza della Chiesa in Occidente, perché il sentimento di isolamento è molto forte nelle nostre comunità. Dovremo rafforzare il processo educativo sia per i laici sia per i preti, i religiosi e le religiose; formare veri leader fra i laici; rivedere le strutture della Chiesa locale. Le emigrazioni rafforzano la nostra diaspora ma indeboliscono la nostra Chiesa in Iraq e diventa difficile invitare gli iracheni a ritornare per far crescere il nostro paese. Dovremo aiutare i musulmani moderati a riflettere, a coltivare il dialogo, il rispetto e la convivialità. A convincerli che, oltre alle appartenenze etnico-religiose, vi è una cittadinanza condivisa e un’unica nazione».