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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Alfio Filippi

La Bibbia indirizzata ai due popoli

La parola di Dio deve essere al di sopra di ogni conflitto umano. Essa non può alimentare un conflitto tra popoli e individui... La Bibbia è parola di Dio, parola di giustizia e di perdono, indirizzata, nelle circostanze attuali, ai due popoli, quello palestinese e quello ebraico. La sorprendente e alta interlocuzione del patriarca latino di Gerusalemme, che indica una Bibbia di pace.


Durante l’ultima mia visita a Gerusalemme ho voluto portare il gruppo che guidavo in una parrocchia cattolica di rito latino nei territori occupati. Nel progetto del viaggio la visita intendeva aprire uno squarcio sulla vita concreta di una comunità cristiana di lingua araba. So della difficoltà di entrare con un pullman di turisti nei territori occupati, al di fuori degli itinerari standard, e mesi prima avevo inoltrato il programma all’agenzia di Gerusalemme; all’arrivo, mi ero subito accertato della possibilità della visita. «Nessun problema», era sempre stata la risposta. La visita era prevista di domenica: avremmo celebrato la messa d’orario con la gente e poi avremmo incontrato il parroco con i suoi collaboratori.

Alla vigilia, l’autista incomincia a parlare dei pericoli dell’intifada, l’accompagnatore delle sassate verso i pullman dei turisti. Rientrando in albergo verso le 16, hanno il coraggio di dirmi che il giorno dopo non possono venire: loro hanno paura e l’agenzia non può rischiare col pullman. Lunga discussione, fatta solo per onor di bandiera; le conclusioni sono già note a me e a loro: l’agenzia (guadagnando sulla differenza dei costi) pagherà un pullman con targa dei territori occupati e autista arabo, mentre l’accompagnatore resterà a casa.

La gente del villaggio è sul piazzale per accoglierci vestita a festa; celebriamo in una chiesa piena, inframmezzando italiano e arabo; poi un rinfresco nei locali della parrocchia e il colloquio a ruota libera: quanti sono i cattolici, come sono i rapporti con la comunità ortodossa del paese, la situazione economica della gente e il lavoro. Veniamo a sapere della collaborazione con il parroco ortodosso, di famiglie che hanno gli uomini in prigione per l’intifada, delle difficoltà proprie della diocesi del patriarcato latino con popolazione araba stretta tra la maggioranza islamica e l’occupante israeliano.

Chiedo al parroco: «Qual è la difficoltà pastorale più grande?». «Spiegare l’Antico Testamento a dei cristiani arabi». Mi legge in faccia la sorpresa e chiarisce: «Come posso spiegare la conquista della terra e la sua divisione tra le dodici tribù, la promessa fatta a Davide e alla sua famiglia, le profezie su Israele luce delle genti, come posso dire “popolo eletto”, “popolo dell’alleanza” a delle famiglie che collegano tutti questi termini con la tuta mimetica dei soldati, con le perquisizioni, i posti di blocco, l’esperienza del carcere? Il Dio dell’Antico Testamento non diventa quasi automaticamente il Dio dell’occupante?». Avevamo toccato un punto più centrale dei sassi e del carcere dell’intifada. Tutta la conversazione continuò su questo tema, allargato poi a quello parallelo: come spiegare il Nuovo Testamento al vicino islamico?

«Una muraglia a destra e a sinistra»
Dopo lunga preparazione, è stata pubblicata in novembre la lettera pastorale di mons. Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, dal titolo Leggere e vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia.1 L’interlocutore primo del testo sono queste comunità cristiane, per le quali è difficile comporre l’esperienza dell’occupazione israeliana con i brani dell’Antico Testamento, proposti dall’altare. Ma la lettera ha presente anche l’interlocutore ebreo, proponendogli i metri alti con cui il testo sacro definisce la sua identità di popolo. Passaggio attraverso le due muraglie d’«acqua a destra e a sinistra» è questo messaggio di mons. Sabbah, che invita le due comunità a guardare avanti e più in alto rispetto al vissuto degli ultimi anni. «Per rimanere fedeli alla fede e alla parola di Dio, bisogna liberarsi dalle pressioni, consce o inconsce, che derivano dalle nostre appartenenze culturali e dalle posizioni politiche attuali, siano esse contrarie o favorevoli all’uno o all’altro dei due popoli interessati, il popolo palestinese e il popolo ebraico» (n. 33).

Tutti e due gli interlocutori sono chiamati in causa quando mons. Sabbah esplicita il suo obiettivo negativo: «Anche oggi, sotto la pressione degli avvenimenti e della manipolazione che alcuni fanno del testo sacro, c’è una corrente che tende a vedere nell’Antico Testamento semplicemente la storia del popolo ebraico e un libro che non appartiene alla sacra Scrittura cristiana» (n. 34). Semplicemente come storia del popolo ebraico usano l’Antico Testamento sia gli ebrei che difendono il diritto di possesso Bibbia alla mano e ignorando il diritto internazionale, sia gli arabi che vogliono disfarsi della Bibbia, perché contiene parole contro la presenza del non-ebreo in terra d’Israele.

Il procedimento con cui mons. Sabbah parla ai due interlocutori muove anzitutto dall’identità cristiana: che cos’è la Bibbia per il cristiano (parte 1a); poi argomenta direttamente ai due popoli: risposta agli interrogativi (parte 2a).

«Per la nostra salvezza», non per la storia o la geografia
I punti che spiegano che cosa è la Bibbia ricalcano i passaggi espressi dal Vaticano II con la Dei Verbum.

«La Bibbia è parola di Dio, rivelata per la salvezza del genere umano» (n. 35); non si può quindi «accettare il principio di una lettura politica della Bibbia, dimenticando la sua essenza religiosa» (n. 33).

La Bibbia è «storia della nostra salvezza personale e comunitaria»: «la storia di Dio con il popolo ebraico è il modello della storia di Dio con ciascuno di noi, come individui e come popoli»; «la chiamata di un popolo è l’inizio della chiamata di tutti (...) Le tappe della storia biblica illuminano le nostre... sono altrettante esperienze differenti che illuminano vere e proprie tappe spirituali, nella storia di ogni individuo in seno al suo popolo. Esse ci aiutano a interpretare la nostra storia, a comprenderla e a corrispondere meglio alla nostra vocazione» (nn. 23.24).

Cristo è «chiave della lettura cristiana della Bibbia»; da un lato egli «compie, non abolisce, conferma» l’Antico Testamento, dall’altro egli «non si presenta semplicemente come la continuazione o lo sbocco dell’Antico, ma come una realtà assolutamente nuova, originale e superiore» (nn. 25-31).

I rapporti tra Antico e Nuovo Testamento sono dunque di:

- «Continuità, perché si tratta della stessa rivelazione, dello stesso Dio uno e unico, che rivela e che vuole che “tutti gli uomini siano salvati” (cf. Gv 3,17).

- Novità e compimento, perché c’è una nuova alleanza nella redenzione compiuta da Gesù Cristo, Signore e Salvatore.

- Continuità, perché “i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento” (Rm 11,29). Ed è per questo che s. Paolo afferma: i giudei, in grazia dei padri, rimangono carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono irrevocabili” (Nostra aetate, n. 4).

- Compimento e novità, perché nella chiesa e per mezzo della chiesa della nuova alleanza, il Cristo rivela che egli stesso è il fine del disegno di Dio, che è di “ricapitolare tutte le cose sotto un solo capo, il Cristo” (Ef 1,10). In lui ha cominciato a realizzarsi l’unità del genere umano, perché la chiesa ha cominciato a radunare nel suo seno uomini “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9)» (n. 31).2

All’interlocutore ebreo
Affermare con forza la presenza della seconda alleanza e la finalizzazione della prima, come di tutte le cose, alla redenzione in Cristo è già un punto centrale della risposta cristiana a un uso esclusivo della Bibbia da parte ebraica.

Ma il testo di mons. Sabbah si pone con efficacia proprio all’interno della Bibbia ebraica, per ricordare un’identità di Israele definita con i caratteri dell’universalismo: «La prima alleanza è stata conclusa con Noè e, attraverso di lui, con l’umanità» (n. 17); «le genealogie bibliche, sottolineando la parentela degli ismaeliti con Abramo, ricordano che gli altri popoli beneficeranno delle benedizioni accordate ad Abramo» (n. 18); la comunità costituita attorno a Mosè «include anche persone come Caleb e Rahab, estranei alla discendenza di Giacobbe» (n. 19); «ogni persona è oggetto dell’elezione e dell’amore di Dio» (n. 48); «la terra ha, nella Bibbia, uno statuto particolare: essa appartiene a Dio...(essa) rimane assegnata a quelli che Dio vi ha ammesso come suoi ospiti» (n. 51). Conclusione: l’«elezione comporta responsabilità e obblighi, non privilegi o condizioni di favore» (n. 19); «Dio non appartiene in modo esclusivo ad alcun popolo» (n. 22).

Ai cristiani arabi
Una serie di numeri della pastorale vengono dedicati al tema della violenza nella Bibbia (nn. 37-43); la trattazione conduce ad accostare ai vari episodi di violenza la proposta del «Servo sofferente» in Isaia e della redenzione attraverso la croce, conclude cioè sul comandamento dell’amore. «Con la guerra di religione, il credente pretende di ricorrere alla forza o alla violenza per difendere i diritti di Dio. Pretende di agire in nome di Dio e in suo nome si permette di distruggere e di uccidere. È un fatto che la religione spesso diventa uno strumento per rafforzare altre motivazioni di guerra, nazionali o culturali». Il testo riprende le parole di Giovanni Paolo II per la Guerra del Golfo: «Non può esserci guerra santa», e conclude: «Le religione deve condurre ad amare Dio e i figli di Dio che sono gli uomini... Dichiarare una guerra santa è andar contro l’essenza stessa della religione» (n. 44).

Il dilemma e le indicazioni per risolverlo
«La domanda di fondo posta dal palestinese cristiano, ma anche da ogni credente nella Bibbia, è questa: la Bibbia, come parola di Dio, conferisce oggi al popolo ebraico il diritto di appropriarsi della terra e di spossessarne il popolo palestinese?» (n. 53). Ampliando ulteriormente l’argomentazione religiosa: «Due popoli hanno nei confronti di questa terra dei diritti politici e tre religioni vi hanno la loro storia religiosa, e tutti e tre sono la “discendenza” fisica o spirituale di Abramo, a cui Dio ha promesso la terra. A chi dunque essa appartiene in nome della religione?».

I principi orientatori indicati dal patriarca Sabbah sono i seguenti.

Dio «non può consentire che il suo amore per un popolo possa trasformarsi in un’ingiustizia nei confronti di un altro popolo» (n. 54).

«Il popolo ebraico religioso di oggi si appella alla Bibbia rivelata da Dio, che è anche per noi cristiani parola di Dio. Noi rispettiamo questo rapporto che lega il popolo ebraico alla religione che Dio gli ha rivelato, ma non crediamo che questo legame religioso comporti di per sé un diritto politico» (n. 55).

«Bisogna distinguere tra il fatto religioso costituito dal popolo ebraico, con i suoi doveri, le sue obbligazioni e le sue responsabilità religiose, e il fatto politico di uno stato moderno e sovrano che questo popolo giunge a realizzare» (n. 54).

«Il fatto politico, quanto alla dimensione morale che necessariamente comporta, rimane sottomesso alla legge divina rivelata nella Bibbia. Ma la composizione delle controversie politiche tra i popoli, compreso il diritto di proprietà della terra, è regolata dal diritto internazionale» (n. 54).

«Per tutte le religioni della Terra Santa, il valore più alto è l’adorazione e l’amore di Dio: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) e “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18» (n. 54).

«Nel nome della religione, ognuna delle tre religioni ha un uguale diritto di presenza e di accesso per potervi praticare la propria fede. Ma la presenza politica, per l’una o l’altra delle tre religioni o per qualsiasi dei loro fedeli, dipende dall’azione condotta dalle autorità politiche. E questa è retta dal diritto internazionale» (n. 54).

Ho accennato all’inizio ai due interlocutori principali della lettera: il cristiano arabo della chiesa locale e l’ebreo che abita la stessa terra. Ma per capire la ricchezza e la complessità della pastorale bisogna aggiungervi altri due riferimenti concreti.

Il primo è sociale-politico: il cristiano arabo dei territori occupati condivide la situazione e la cultura degli ambienti musulmani ove il braccio armato di Hamas attinge personale disponibile per le azioni più violente dell’intifada; la scelta del terrorismo e della reazione armata per il cristiano dei territori occupati è oggetto di discussione concreta, di confronto quotidiano con il vicino di casa. Ecco perché una parte rilevante della lettera è dedicata a rispondere all’obiezione della «violenza nella Bibbia» e conclude proponendo la forza del «credente mite» (nn. 37-46).

Il secondo riferimento è di ordine ecclesiale-teologico: nell’ultimo decennio è nata nelle chiese di lingua araba una teologia della liberazione che prende la situazione dei cristiani palestinesi come punto di riferimento per una lettura della Bibbia con forte valenza politica contro l’occupante israeliano. Il volume di N. S. Ateek, presbiteriano di Nazaret, La giustizia solo la giustizia seguirai. Una teologia per la riconciliazione nel conflitto israelo-palestinese,3 ne è l’esempio più noto. La lettera di mons. Sabbah indica una lettura della Bibbia alternativa a quel percorso, più coerente con l’identità religiosa del Libro e con l’unità dei due Testamenti.

Una nomina e tre appuntamenti
Michel Sabbah era stato nominato patriarca da qualche mese, quando ho partecipato a una serie di incontri organizzati a Gerusalemme dal Ministero del turismo israeliano. Un funzionario del Ministero degli esteri, che aveva lavorato a Roma, saputo che ero direttore de Il Regno, mi impegnò durante tutta la cena seguita a uno di questi incontri con domande sulla teologia cristiana e sul mondo ecclesiastico cattolico. La teologia della liberazione palestinese era percepita come un pericolo interno allo stato israeliano (Nazaret fa parte dell’Israele del 1948) e tanto più grande quanto poco definibile nella forza e nella capacità di coinvolgimento. Circa il neoeletto patriarca, scelto dalla locale chiesa araba, un «palestinese» dunque, era evidente l’incapacità dell’autorità israeliana a capirne la persona e la linea politica. «Ma che cosa vuole questo patriarca?», fu letteralmente l’espressione che usò a un certo punto il funzionario. Oggi, a distanza, la scelta di mons. Sabbah si rivela una delle nomine più felici di Giovanni Paolo II a livello internazionale. Proprio perché esponente della chiesa di lingua e cultura araba, mons. Sabbah può parlare dall’interno della situazione locale, può interpretarne in modo positivo la complessità, i problemi e le possibilità per il futuro. Proprio perché parla conoscendo la sua gente, è interlocutore autorevole per la chiesa locale, per la Santa Sede, per il vicino ebreo e per il vicino musulmano. Grazie a lui tre appuntamenti storici: l’intifada, i colloqui di pace, l’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra governo israeliano e Santa Sede, non hanno colto impreparata la chiesa locale.

1 La «lettera pastorale» si compone di 64 numeri, organizzati secondo questo indice: «Introduzione. I. Gli interrogativi che si pongono; II. Che cos’è la Bibbia? 1. La Bibbia, parola di Dio; 2. La Bibbia, storia di salvezza; 3. La Bibbia, storia della nostra salvezza, personale e comunitaria; 4. Cristo, chiave della lettura cristiana della Bibbia; III. Risposta agli interrogativi posti; 1. Antico e Nuovo Testamento; 2. La violenza nella Bibbia; 3. Elezione, alleanza, promesse e dono della terra; Conclusione». Testo integrale sul prossimo numero di Regno-doc.

La prima versione della lettera, che si ricollega al lavoro del francescano p. F. Manus presso il clero locale, era pronta all’inizio dell’estate ed era pensata partendo dalla situazione di durezza nei rapporti tra popolazione palestinese e israeliani occupanti. Dopo la firma dell’accordo di Washington tra il presidente del consiglio israeliano e il presidente dell’OLP, lo scorso 13 settembre, avvenimento ricordato in apertura della lettera, il testo ha subito la necessaria revisione, con un adeguamento alle nuove prospettive aperte.

2 Ho provato a verificare l’impianto e le singole affermazioni della lettera anche in base alle posizioni assunte rispetto all’ebraismo dalla più recente teologia, che afferma il «permanere» dei doni di Dio (elezione, alleanza, salvezza...) e rifiuta lo schema della «sostituzione». Anche da questo punto di vista il testo di mons. Sabbah regge coerentemente; prova di un’avvedutezza teologica da segnalare.

3 Il volume è stato pubblicato in italiano dall1991, pp. 408; l’originale inglese è del 1989. Alla prospettiva di riconciliazione, espressa nel sottotitolo, fa riscontro nel volume un impianto di ferma rivendicazione. L’autore è di famiglia palestinese che nel 1948 è stata espulsa dall’esercito israeliano dalla sua casa e costretta ad abbandonare il proprio villaggio di Beisan; si è stabilito a Nazaret ed è cittadino israeliano.


articolo tratto da Il Regno logo

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