Precursori della pace di Gerusalemme
Attorno alla questione di Gerusalemme, scorporata dal processo di pace in Medio Oriente, si cerca chiarezza almeno intorno ad alcune premesse. L’incontro di Roma (24 giugno) fra esponenti ebrei, cristiani e musulmani si mantiene a livello descrittivo. La proposta di Silvio Ferrari (forse non distante da quella della Santa Sede) prevede il passaggio alla richiesta di internazionalizzazione della città alle garanzie internazionalmente riconosciute per tutti i luoghi santi in una città politicamente delineata. Le possibili derive fondamentaliste sui «luoghi alti» delle religioni; le tentazioni di inglobamento; le ragioni della compatibilità fra i tre mondi.
Esponenti delle tre grandi religioni mediterranee discutono sullo statuto della «Città Santa».
Il 24 giugno, memoria della nascita di san Giovanni Battista (la circostanza merita una certa attenzione, come si vedrà), si è tenuto a Roma, all’Istituto Diplomatico, ospite l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, un incontro su «L’identità religiosa di Gerusalemme nella prospettiva del processo di pace mediorientale». Il programma prevedeva un’introduzione di Andrea Riccardi e relazioni di Ariel Toaff, Abdel Shafi e Silvio Ferrari. L’assenza di Shafi, capodelegazione palestinese alle trattative di pace da Madrid a Washington, e la sostituzione dell’ultima ora con Hanna Siniora, ha fatto emergere la questione - sempre presente in questo tipo di ricerche e di confronti - dei diversi titoli di rappresentatività che le singole voci possono o non possono proprio rivestire rispetto ai mondi di riferimento e/o di appartenenza. Shafi è palestinese musulmano di Gaza, Siniora è palestinese cristiano di Gerusalemme: la cura sempre vigile di quest’ultima figura nel mostrare la posizione semplicemente palestinese di fronte a quella israeliana (ma anche di fronte a quella cristiano-occidentale?) si è spinta fino alla puntualizzazione tendenzialmente critica nei confronti dell’allacciamento di relazioni diplomatiche fra Stato di Israele e Santa Sede.
Può esporre infatti la parte palestinese - e la componente cristiana in essa - a un certo indebolimento in questa fase. Tuttavia, in generale il gioco anche accuratissimo delle voci che rappresentino parti non potrà mai risultare perfettamente esatto e persuasivo, per l’inadeguatezza insuperabile del «tasso di rappresentanza» di chiunque rispetto a mondi che sono sì appartenenze, ma di una complessità estrema, in cui l’univocità si dà solo in origine e in linea di principio.
Dall’internazionalizzazione della città...
Ma proprio il divario fra questa univocità originaria e le figure realmente esistenti spingerà questi «laici» che oggi accettano di incontrarsi su Gerusalemme da Israele, da Palestina e da Europa/occidente/cristianesimo - nelle more di una trattativa che si è potuta aprire precisamente accantonando e differendo la questione di Gerusalemme - a tentare sempre di nuovo di esprimere le tensioni più radicali e «fondamentali» del legame ebraico, cristiano e islamico con Gerusalemme. Nessun soggetto fontale può dar loro un mandato del genere, naturalmente, e tuttavia non possono non fare come se l’avessero ricevuto. Essi hanno deciso a un certo punto per il processo di pace, e tentano di indurre alla pace le sorgenti della propria identità, in dipendenza delle quali ritenevano fino a ieri di essere destinati a farsi guerra indefinitamente.
In questa situazione paradossale è parso saggio ai più (a Riccardi in sede di introduzione, ma anche a Toaff e a Siniora) limitare il contributo alla descrizione delle ragioni - e un poco della storia e delle forme - del rapporto inalienabile che sussiste fra Israele e Gerusalemme, fra islam/nazione araba e Gerusalemme, cristianesimo/cristianità e Gerusalemme. Solo l’intervento di Silvio Ferrari ha affrontato direttamente il punto della possibilità e dei modi di una soluzione diplomatico-politica che tenga conto dei dati acquisiti sulle relazioni dei mondi/appartenenze con Gerusalemme. Appariva qui definitivamente chiaro come non si dia oggi una «pressione» cristiana su Gerusalemme corrispondente alla relazione originaria del cristianesimo con il luogo della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Citate le crociate come stagione estinta di quella presunzione di possesso, e percorsa a grandi linee l’evoluzione storica del venir meno di ogni residua pretesa di sovranità cristiana, resta l’impressione che la proposta di internazionalizzazione della città costituisse la forma estrema in cui la cristianità, secolarizzandosi in diritto internazionale, tentava di esprimere il proprio legame con Gerusalemme. Caduta anche questa tensione il diritto si pone semplicemente in attitudine di recettore e garante, di testimone in qualche modo, degli accordi raggiunti dai soggetti che rappresentano, almeno provvisoriamente e come ipotesi di lavoro, i mondi delle appartenenze ebraica, cristiana e islamica.
... alle garanzie per i luoghi santi
Diamo allora uno sguardo alla proposta di Silvio Ferrari, per il suo significato e per la sua portata oggettiva di frutto dell’incontro romano. La proposta risponde all’esigenza di offrire una soluzione che corrisponda, come si è visto, ai legami irrinunciabili che, diversamente, insistono però sullo stesso luogo (e qui è stato interessante cogliere l’oscillazione nei secoli fra «luoghi santi» e città tutta intera nel rilievo che si dava alla questione), e che sia valida qualunque sia la soluzione politica, cioè quali che siano le sovranità o la sovranità che alla fine delle trattative riguarderanno Gerusalemme. È chiaro peraltro che rispetto agli esiti una proposta più che un’altra potrà influenzare la tempistica e le modalità dell’esito delle trattative stesse. Questo è il senso discretamente velato di incontri del genere.
Garanzie internazionalmente riconosciute dovranno allora riguardare innanzitutto i luoghi santi propriamente detti, come sempre richiesto da tutte le parti, per quanto attiene al libero accesso e alle autonomie delle gestioni. Le normative tradizionali, lo statu quo per quelli cristiani, e formulazioni più adeguate sul modello di analoghi riconoscimenti per situazioni assimilabili (con qualche cautela: Roma, l’Athos...), dovrebbero consentire di collocare in modo stabile e sicuro l’appaesamento - se così si può dire - dei luoghi santi in una Gerusalemme comunque politicamente delineata. Questo primo livello di garanzie apre alla necessità di un secondo, appena si presti attenzione ai nessi che costituiscono un unico ambiente di questi luoghi e delle strutture della loro fruibilità ed efficacia: è qui che la limitazione di questo sistema di garanzie alla città antica entro le mura potrà avere tutto il suo effetto positivo. Si tratta infatti di un ambiente ben individuato e si può estendere ad esso, nell’insieme di tutti i suoi aspetti, la convenzione dell’UNESCO (1972) che riguarda la città antica come bene culturale dell’umanità. Tutto l’ambiente entro le mura godrebbe così di una speciale tutela, attraverso legislazione della o delle sovranità interessata/e, recepita a livello internazionale e così garantita. Allo stesso modo un terzo livello di garanzie riguarderebbe le comunità viventi che abitano la città antica e «vivono» i luoghi santi stessi. Tali comunità sono intese come forme vitali della e delle identità di Gerusalemme, storicamente capaci di convivenza ove le potenze più grandi, estranee od omogenee che siano, non le forzino a contrapporsi.
Il fondamentalismo e la decisione della pace
Si esprime in questa proposta di Ferrari, semplice e coraggiosa nello stesso tempo, forse il massimo della tensione cui il diritto internazionale si può spingere nell’ascolto di ragioni che lo precedono e lo oltrepassano. È veramente in tanti in Israele, nell’islam e nelle chiese il desiderio che la Gerusalemme storica e dei nostri giorni sia città della pace, come è detto in senso spirituale ed escatologico (una maggiore attenzione alla capacità propulsiva di questa dimensione, anche per il processo di pace, veniva sollecitata negli interventi dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna). È peraltro almeno altrettanto forte in molti il timore che i rappresentanti più agguerriti e determinanti di ragioni non componibili di possesso esclusivo non siano appagati da proposte di questo tipo. Aleggia sempre in incontri di progettazione politica attorno alla questione mediorientale e massimamente attorno a Gerusalemme, il segreto sospetto che il fondamentalismo esprima esigenze pesantemente «vere», che ritorneranno fatalmente - e in qualche modo legittimamente - a pretendere più di quanto una decisione di pace possa offrire.
Il dibattito ha mostrato qua e là segni e spie abbastanza evidenti a questo riguardo; e non tanto, come ci si poteva aspettare, da parte del direttore di Limes, Lucio Caracciolo, che è apparso non particolarmente attratto da una materia del contendere così prossima al postulato geopolitico di terre condannate alla lotta. L’ascoltatore notava piuttosto nei discorsi più piani squarci singolari su retroterra profondi evidentemente irrisolti. È stato in effetti sorprendente il ricordo di san Giovanni Battista in diversi interventi. Il battezzatore ebreo e cristiano, il profeta venerato dall’islam richiama in verità uno scenario non così irenico come poteva apparire negli auspici: quello del rapporto buono ma non ancora sufficientemente fondato fra Israele e chiesa, e quella tensione verso una sintesi onnicomprensiva che connota l’islam ben oltre il traguardo di una convivenza. Nel paper di Shafi, offerto per punti, non mancava poi il consueto riferimento polemico alla continuità palestinese a partire dai primi abitatori della terra, quelli cioè che precedono l’insediamento dei figli di Israele. È sì una sorta di aporia dell’identità islamica questa memoria cananea, ma si riscontra spesso in argomentazioni sia fondamentaliste che - come questa - laiche. Colpiva un poco a questo proposito che con l’espressione «luoghi alti» della memoria e dell’impegno per la pace potessero essere denominati questi, da parte dell’osservatore europeo (Riccardi). È un piccolo scarto appena a distinguerli da quegli «alti luoghi» che nelle Scritture designano la tentazione idolatrica per l’abitatore della terra: quella che lo rende «della terra» e non della Parola che lo chiama; ctonico, autoctono.
Concludiamo questa rassegna di inquietanti spie/emblemi dello spessore irrisolto della questione con la nota dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede. Nel ricordare la tradizione ortodossa di legame con Gerusalemme, lasciava cadere come beneaugurale il possibile slittamento dell’autocoscienza moscovita dal mito della Terza Roma a quello della Nuova Gerusalemme. È forse possibile che nelle cancellerie i miti possano essere curvati a buon fine, quando si è presa la decisione della pace, ma i popoli ne hanno sempre conosciuto e ne conoscono la fecondità distruttiva. E quello della sostituzione del luogo della salvezza è fra tutti i miti il più guerriero. È comunque chiaro che una certa nostalgia dell’oltrepassamento della dimensione dell’accordo politico occupa anche le menti dei diplomatici e dei politici. Quale potenza non avrà allora tale nostalgia in chi si abbevera solo, e fino all’ebbrezza, delle sorgenti che prima e oltre stanno!
Israele, chiesa, umma
Sembra allora di dover riproporre qui al diritto che intende praticarla una più tesa attenzione alle forme diverse dell’insistenza di tutto Israele, di tutto l’islam, di tutta la chiesa su Gerusalemme. In altre parole la misura minima della città antica deve manifestare il suo rapporto con le intere e integre comunità credenti che la costituiscono. Israele, chiesa e casa dell’islam/umma hanno in verità forme così diverse di rapporto con la terra - questa innanzitutto, di Gerusalemme - da far pensare che solo se violentemente costrette a omologarsi possono combattersi. Non potranno invece convivere, e di più co-vivere, se consapevoli e custodi della propria formale differenza? In particolare solo l’islam necessita di una diffusione territoriale omogenea che inglobi Gerusalemme. Credette di averne bisogno la chiesa delle crociate quando si interpretava come cristianità territorialmente diffusa e omogenea, cioè come umma; ma non lo crede la chiesa, oggi dichiaratamente. E lo Stato di Israele non potrà essere riconosciuto dall’umma/casa dell’islam come la forma che assume al suo interno la comunità del popolo del libro? Il diritto internazionale potrebbe ancor più chiaramente limitarsi a vedere come questi tre mondi vivono, perché nel mondo e in Gerusalemme stanno in modi originariamente così diversi da essere compatibili. Ma quali voci in/di questi mondi potranno essere così lucidamente autorevoli da esprimerli in tale semplicità di forme?