Status di Gerusalemme: la politica del fatto compiuto
Nelle scansioni previste dagli accordi di pace tra Stato d'Israele e OLP l'inizio delle trattative per lo status di Gerusalemme fu fissato per il maggio 1996 (cf. Regno-att. 18,1993,527; Regno-doc. 19,1993,640). La dilazione della data apparve allora, giustamente, come l'unica prospettiva possibile per stringere un negoziato che rischiava di infrangersi sullo scoglio più arduo. Rimandare non garantisce però, di per sé, trovarsi infine in una situazione più favorevole, specie se nel frattempo si fa poco o nulla per predisporre il terreno dell'apertura di trattative dotate di buona prospettiva di successo.
Come è noto Gerusalemme è divisa in tre grandi aree, il settore ovest, israeliano fin dal 1948, il settore est, arabo, e la città vecchia. Queste ultime due aree, prima giordane, sono passate anch'esse in mano israeliana a partire dal 1967. L'esistenza di questa complessa tipologia urbanistica crea parecchi problemi sia politico-giuridici che storico-culturali (cf. Regno-att. 16,1992,514). Visto sotto l'aspetto della cronaca la realtà multipla di Gerusalemme si è soprattutto urtata con la tendenza (nata sulla scorta della ormai non recente decisione unilaterale di dichiarare Gerusalemme capitale "eterna e indivisibile" dello Stato d'Israele) di estendere il più possibile la presenza ebraica in tutti e tre i settori della città. Nel 1994, ad esempio, gli ebrei, per la prima volta, sono diventati maggioranza anche nella parte araba della città. Anche l'accordo fondamentale tra Santa Sede e Stato d'Israele (cf. Regno-att. 2,1994,1; Regno-doc. 3,1994,81) non ha affrontato, da parte sua, il nodo di Gerusalemme, specie in relazione all'assetto della città vecchia. Resta il fatto però che l'esistenza stessa dell'accordo rafforza oggettivamente il ruolo che il Vaticano potrebbe giocare in eventuali prossime trattative.
Il ruolo della Santa Sede
L'avvicinarsi della scadenza del 1996, anno cruciale anche perché in esso è prevista in Israele l'effettuazione delle elezioni politiche generali, ha portato un inevitabile surriscaldamento del clima. Da un lato si è assistito infatti alla prosecuzione, sotto varie forme, dell'ebraicizzazione dell'intera Gerusalemme, dall'altra si è avuta la sensazione che la sempre più contestata leadership di Arafat potesse giocare la carta di Gerusalemme per riaggregare l'interesse arabo attorno al problema palestinese. A ciò va aggiunta una vivace serie di prese di posizione sull'assetto di Gerusalemme espresse da parte delle varie chiese cristiane (vedi in proposito: il "Memorandum delle chiese cristiane di Gerusalemme"; Regno-doc. 1,1995,19; la "Dichiarazione di otto chiese americane su Gerusalemme"; Regno-att. 6,1995,170 e le preoccupate dichiarazioni del segretario del CEC, Raiser, in occasione di un suo recente viaggio mediorientale). E non pare eccessivo sospettare che dietro questa effervescenza vi sia in qualche misura anche il timore che, dopo la sigla del sopracitato accordo fondamentale, la Santa Sede sia gratificata da parte degli attuali governanti israeliani della qualifica di essere, per così dire, il "rappresentante ufficiale" dell'intero universo cristiano.
Dietrofront israeliano
I recenti avvenimenti, contraddistinti soprattutto da due dietrofront il secondo dei quali particolarmente clamoroso compiuti dal governo israeliano si inquadrano nel contesto qui descritto. Infatti, specie (a quanto sembra) grazie a un intervento vaticano, gli israeliani hanno dovuto rinunciare alla confisca di una proprietà salesiana sita nel paese di Cremisan. Di maggior rilievo è stata però la sospensione dell'esproprio di 53 ettari di terreno in villaggi palestinesi limitrofi a Gerusalemme. Quest'ultimo fatto, di per sé non più grave di molti altri analoghi episodi, è stato invece particolarmente clamoroso perché la minaccia d'esproprio ha prima indotto a mettere in agenda una riunione (poi sospesa) della Lega araba (sarebbe stata la prima a partire dal 1991) e ha poi provocato il ricorso al diritto di veto (per la prima volta in cinque anni) da parte degli Stati Uniti per bloccare, in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, una risoluzione di condanna dell'operato israeliano. A far mutare idea al governo Rabin, come spesso accade, non sono state però ragioni di politica estera, bensì motivi di politica interna, per l'esattezza la minaccia compiuta da parte di un manipolo di deputati arabo-israeliani di ritirare il loro indispensabile appoggio alla risicata maggioranza parlamentare su cui si regge l'attuale governo israeliano. E così, e non per la prima volta, la più grande potenza del mondo si trova, in un certo senso, sbugiardata dai piccoli numeri che reggono gli equilibri politici israeliani.
Osservata nel suo complesso la situazione appare poco confortante. La grandezza storico-simbolica di Gerusalemme obbliga infatti a una pressoché inevitabile retorica evocazione di sommi principi, ma in pratica, a dettar legge, sono da una parte il ricorso ai tatticismi e a tentativi di attuare la politica del fatto compiuto e dall'altra un ormai non troppo inedito miscuglio nazional-fondamentalistico presente sia nel mondo arabo che in quello israeliano. Nonostante tutto neppure Gerusalemme può sottrarsi al suo destino di essere anche una città dei nostri tempi.