Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Commissione Giustizia e pace Gerusalemme

I territori palestinesi e la pace

Fonte: "Il Regno" n. 10 del 1996

Gli ultimi attentati suicidi, particolarmente sanguinosi, commessi in febbraio a Gerusalemme, Ashkelon e Tel Aviv, hanno fortemente colpito l'opinione pubblica, sul luogo e in tutto il mondo. La condanna di questi atti è stata quasi generale anche fra la popolazione palestinese. La reazione delle autorità israeliane è stata di imporre immediatamente un blocco totale su tutti i territori palestinesi, impedendo agli abitanti di recarsi a Gerusalemme e persino di spostarsi nelle diverse località palestinesi.

Per il processo di pace sono stati colpi molto duri. Una larga parte dell'opinione pubblica israeliana, ancora fortemente influenzata dagli antichi riflessi di timore per la propria sopravvivenza, può facilmente essere indotta a credere che questa violenza sia la conseguenza diretta del processo di pace, seguita al ritiro dell'esercito israeliano dai territori palestinesi e al timido inizio di libertà che il popolo palestinese cominciava a sperimentare. In realtà questi attentati sono l'atto di alcuni estremisti. Alcuni tra loro vogliono a tutti i costi distruggere il processo di pace colpendo con tanta più violenza quanto più esso avanza; altri agiscono da disperati, spinti all'estremo dalle tante frustrazioni legate a un processo troppo lento che non sembra aprirsi su un futuro migliore.

Attentati di questo genere non possono trovare alcuna giustificazione. Tutti sono d'accordo sul fatto che occorre cercare e usare tutti i mezzi necessari per impedire ai gruppi estremisti di continuare le loro campagne di violenza. Non si può permettere loro di sabotare la pace. Ma il blocco totale dei territori palestinesi può essere considerato un mezzo efficace e accettabile?

Chi conosce la situazione sul luogo sa che una chiusura assoluta non è possibile. Le più alte autorità israeliane hanno riconosciuto pubblicamente, più di una volta, che nessuna chiusura, per quanto rigida, può offrire una garanzia assoluta contro tutti gli attentati. Le realtà israeliane e palestinesi sono troppo intrecciate. Perché allora imporre a tutta la popolazione palestinese una misura così draconiana e anche poco rispettosa dei diritti più elementari?

Un considerevole numero di osservatori non esita a dire che l'annuncio della chiusura ha in gran parte lo scopo di tranquillizzare l'opinione pubblica israeliana. Il governo israeliano vuole così dare l'impressione di prendere grandi misure per garantire la sicurezza, sapendo bene che l'efficacia di tali misure è del tutto relativa.

La grande sfida è infatti di vincere il terrorismo con mezzi democratici. Se si risponde alla violenza con la forza e la violenza, si rischia di lasciarsi coinvolgere nell'ingranaggio e perpetuare il ciclo delle vendette e delle rappresaglie. È soltanto lavorando per rimediare alle ingiustizie, che alimentano i risentimenti e permettono ai gruppi terroristi di dare una parvenza di giustificazione alla loro azione, che si può sperare di eliminare un giorno il terrorismo in maniera radicale e permanente.

Chiusura e punizione collettiva
Tutto indica che la chiusura dei territori tende piuttosto a produrre l'effetto contrario. Questa misura è prima di tutto avvertita come una punizione collettiva. L'intera popolazione palestinese è privata delle sue libertà a causa degli atti di qualche estremista, che la grande maggioranza al suo interno disapprova.

In un primo momento tutti i palestinesi erano rinchiusi dentro le loro città o villaggi, senza potersi spostare nelle diverse località dei territori palestinesi e a maggior ragione senza potersi recare a Gerusalemme o oltre la frontiera con Israele. Allo stesso tempo, più della metà fra di essi si trovava senza lavoro e senza fonti di reddito. Per moltissimi di loro era impossibile fare ricorso alle cure mediche necessarie. Cinque persone almeno, fra cui tre bambini, sono morte per essere state respinte ai posti di blocco israeliani sulla via verso l'ospedale. Numerose istituzioni, nei territori o a Gerusalemme est, in particolare le scuole e gli ospedali, non hanno potuto funzionare normalmente o non hanno funzionato affatto.

La maggior parte di questi problemi continua a esistere, anche dopo che le autorità israeliane hanno annunciato un "alleggerimento" della chiusura. Tutti i permessi di passaggio e di lavoro a Gerusalemme est devono essere rinnovati una volta di più, con tutti i fastidi e le lentezze amministrative che questo comporta. Occorreranno parecchie settimane prima che tutti gli insegnanti o tutto il personale degli ospedali possano di nuovo circolare legalmente. D'altronde è da più di tre anni che Gerusalemme est non è più liberamente accessibile per i palestinesi. Chi anche riesce a ottenere un'autorizzazione, perde da un'ora a un'ora e mezza al giorno, sulla strada per il posto di lavoro, nelle file in attesa davanti ai posti di controllo.

Gli abitanti di Gaza mancheranno presto di cibo. In un primo momento, qualunque ingresso di generi alimentari era proibito. In seguito fu annunciato ufficialmente che sarebbe stata ammessa una quantità determinata, già di per sé del tutto insufficiente, ma a causa dei controlli complicati, soltanto una minima parte arriva a destinazione. È impossibile di non sentire tutto questo come una punizione collettiva, soprattutto se si aggiunge il modo rude ed umiliante con cui molto spesso la gente viene trattata durante i controlli.

Questa impressione di punizione collettiva è inoltre rafforzata dal fatto che le autorità israeliane hanno ricominciato a distruggere le case delle famiglie di chi è sospettato essere implicato negli attentati, come nei momenti più oscuri dell'intifada. Agli occhi di molti non è soltanto una chiusura o un blocco, ma un ritorno all'occupazione pura e semplice.

Per la gente che deve subire queste vessazioni, cosa rimane ormai del processo di pace? Dopo il ritiro dell'esercito israeliano dai principali centri popolati della Palestina occupata, a eccezione di Hebron, alla fine del 1995, si era diffuso un sentimento di sollievo. Il fatto di non doversi confrontare ogni momento con presenza militare israeliana aveva fatto nascere un'impressione di distensione. Così, dopo un lungo tempo di esitazione, un numero crescente di palestinesi aveva cominciato a credere a poco a poco alla dinamica della pace, sulla quale il presidente Yasser Arafat aveva contato dopo la firma dei trattati di Oslo.

Tuttavia molti avevano pensato che i capi palestinesi avessero ceduto su troppi punti e troppo in fretta, e che ormai fossero interamente in balia dell'arbitraria benevolenza degli israeliani per i progressi futuri, senza avere il minimo mezzo per fare pressione o persino per negoziare veramente. Allo stesso tempo, i prigionieri palestinesi non erano stati liberati come previsto, e gli espropri di terre palestinesi continuavano. In particolare, per potersi ritirare l'esercito israeliano pretendeva di espropriare altre terre per costruire strade che gli permettessero di delimitare e accerchiare i centri palestinesi, al fine di conservare il controllo della situazione e di garantire la sicurezza dei coloni israeliani istallati in quei territori.

Un'autonomia di facciata
Una situazione contraddittoria e irreale. Di fatto, i territori palestinesi sono innervati di strade destinate all'esercito e ai coloni, il che riduce l'autonomia palestinese ad alcuni isolotti separati l'uno dall'altro. Ufficialmente l'autorità è stata trasmessa ai palestinesi perché essi stessi si assumano i servizi di base, ma per tutto quanto, fino ai minimi dettagli, deve essere richiesta l'espressa autorizzazione degli israeliani. Così è molto difficile sfuggire all'impressione che questa pretesa autonomia non sia di fatto che un'illusione, un miraggio. La facilità e la rapidità con le quali l'esercito israeliano ha potuto bloccare l'insieme dei territori palestinesi e prendere in ostaggio tutta la sua popolazione non fa che confermare questa impressione di doppio gioco o di imbroglio. La disillusione è stata dolorosa e generale.

L'avvenire della pace
Se la chiusura dei territori palestinesi continuerà di fatto, come è stato annunciato, fino a dopo le elezioni politiche israeliane nella seconda metà di maggio, in questo frattempo il sostegno di base a tutto il processo di pace attuale diminuirà considerevolmente nella popolazione palestinese. Le condizioni di vita vanno sempre più deteriorandosi.

Esigere dall'autorità palestinese di intervenire con determinazione e forza contro la sua opposizione interna, quando la pace che è offerta in cambio non è davvero tale, perché non porta alcun progresso visibile, equivale a mettere tale autorità in una situazione assolutamente insostenibile. Una simile maniera di affrontare il problema è del tutto controproducente. È altresì inammissibile che l'intera popolazione palestinese sia tenuta in ostaggio a causa della campagna elettorale, in Israele o negli Stati Uniti d'America.

Solo la dinamica della pace, e di una pace vera nella giustizia, può permettere di trovare una vera soluzione al problema della violenza e del terrorismo. È solo dando una soluzione stabile alle ingiustizie, alle frustrazioni e alle umiliazioni che sono all'origine delle reazioni di rigetto e di rivolta, che si priveranno i gruppi estremisti di qualsiasi parvenza di giustificazione e sostegno da parte della popolazione palestinese.

Tutti i governi occidentali che vogliono promuovere il processo di pace in Medio Oriente devono agire in questo senso. Occorre fare progredire e intensificare i negoziati, e non raffreddarli, o ancor peggio utilizzare la minaccia della loro sospensione come mezzo di pressione sulle autorità palestinesi perché esse agiscano con forza contro i loro oppositori. L'aiuto tecnico e finanziario ai palestinesi deve continuare e farsi più tangibile, affinché la popolazione palestinese possa costatare di fatto che il processo di pace davvero migliora le sue condizioni di vita. Allora le si potrà domandare di pazientare e di sopportare, intanto, le privazioni inerenti a un progresso lento.

Il popolo palestinese vuole la pace, si sforza di comprendere il bisogno di sicurezza che avverte il popolo israeliano, ma non accetta di essere sottomesso passivamente all'arbitrio dell'esercito e della polizia israeliani, che potrebbero in qualunque momento impedirgli di andare al lavoro, a scuola, all'ospedale, in chiesa o alla moschea, persino impedirgli di mangiare a sazietà. Il popolo palestinese esige un principio di libertà e di dignità, e domanda che questo punto di vista sia preso in considerazione, allo stesso modo del bisogno di sicurezza che proclamano così altamente le autorità israeliane e a cui l'occidente si mostra ben più sensibile.

25 marzo 1995


articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)