Il dopo Rabin
Il leader della destra israeliana, Netanyahu, ha vinto le elezione del 29 maggio 1996.
Aver superato Peres non gli garantisce tuttavia una maggioranza qualificata.
La fine della generazione politica con la memoria della fondazione dello stato.
Gli interessi etnico-religiosi, il controllo USA, il processo di pace.
Una questione assolutamente classica della politica, espressa invero in termini un po' ottocenteschi, consiste nello stabilire i modi per far corrispondere il più possibile tra loro "paese legale" e "paese reale". Nell'attuale contesto israeliano tale raccordo sembra in gran parte affidato a un incrocio, assai articolato, di più componenti; infatti al fattore politico, basato sulla polarità ideologica destra-sinistra, si affiancano temi legati sia al confronto religione-laicità sia alla presenza, nel paese, di un'ampia varietà di provenienze culturali ed etniche.
Fin dalla sua fondazione lo Stato di Israele si è impegnato a legittimare tutta questa pluralità di aspetti, e, più precisamente, lo ha fatto in ragione della necessità di qualificarsi costitutivamente come stato ebraico, definizione quest'ultima che implica, per forza, un riferimento anche a componenti di natura culturale e religiosa. L'unico modo in cui si poteva conformare il sistema politico a questa multiforme situazione era quello di eleggere un parlamento monocamerale, la Knesset (i cui 120 alludono, significativamente, al numero dei componenti l'antico sinedrio) in base a un sistema rigorosamente proporzionale. Questa scelta, a sua volta, ha avuto come inevitabile conseguenza che, nella quasi cinquantennale storia dello Stato di Israele, tutti i governi sono stati di coalizione.
Ciò ha significato che, tanto nel trentennale originario predominio laburista, quanto nei successivi, più politicamente variegati, vent'anni, quasi sempre la "rendita di posizione" dei partiti religiosi, indispensabili per formare ogni maggioranza, sia stata tale da avere ben precise ripercussioni sulla società, specie in relazione al diritto di famiglia e al sistema educativo.
Per reagire a questa frammentazione, la tredicesima Knesset ha approvato, a modifica dell'art. 4 della "Legge fondamentale" dello stato, una riforma elettorale che introduce l'elezione diretta del premier. Essa però lascia invariate le modalità di elezione del Parlamento, non assicurando alcun premio di maggioranza allo schieramento del primo ministro. In tal modo si è costituito un sistema ibrido, il quale, in relazione all'elezione del premier, semplifica radicalmente le alternative (in pratica fa prevalere solo la polarità destra-sinistra), mentre per la nomina dei parlamentari continua a porre in gioco una più ampia serie di fattori in cui hanno diritto di cittadinanza anche componenti di tipo religioso, etnico, sociale e culturale.
I paradossi della legge elettorale
Il quadro delineatosi alla vigilia delle elezioni del 29 maggio scorso, le prime avvenute in base alla nuova legge, manifesta appieno queste tendenze eterogenee. Da un lato infatti, per quanto la legge preveda la presenza di una pluralità di candidature (prescrivendo un successivo ballottaggio se al primo turno nessun candidato abbia superato il 50% dei voti), i concorrenti alla carica di primo ministro erano solo due: Peres e Netanyahu; mentre, dall'altro, assai folta e dotata di buone speranze di successo era invece la schiera dei candidati alla Knesset. L'esito del voto per la Knesset ha potenziato la frammentazione e ha assistito a una perdita dei due partiti maggiori (più accentuata nel caso dei laburisti, più contenuta nel caso del Likud). In particolare, alla già consolidata presenza di partiti politici portavoci di gruppi come quello degli arabi israeliani o degli ebrei di origine mediorientale (per la massima parte elettori del partito Shas), si è aggiunto il partito di Nathan Sharanski (Israel be Alyà) che rappresenta i recenti immigrati russi, i cui voti furono giudicati da tutti importanti per la vittoria laburista nelle elezioni del 1992 (cf. Regno-att. 14,1992,435). L'elettore si è perciò inevitabilmente comportato diversamente con le due schede che aveva in mano: in una era costretto a semplificare drasticamente la scelta, nell'altra poteva invece dar corso a istanze particolaristiche.
Il risultato elettorale, nonostante lo scarto ridottissimo di voti a favore del vincitore (circa 37.000), segna una sconfitta senza appello per Peres. Quest'ultimo era fino a oggi considerato un eterno perdente, in quanto non ha mai vinto alcuna delle elezioni in cui si è presentato come principale leader dei laburisti (1977, 1981, 1984, 1988). Nessuna di queste sconfitte ha però segnato un suo definitivo tramonto; questa volta invece la parabola appare irrimediabilmente conclusa.
Il governo a maggioranza laburista, guidato da Rabin, uscito vincitore alle elezioni del '92, ha compiuto sul piano internazionale passi senza precedenti, ponendo in atto, in tempi assai rapidi, un processo di pace che, sia nei confronti dei palestinesi che in quelli della Giordania (cf. Regno-att. 18,1993,527; 12,1994,357; 20,1994,616; e Regno-doc. 19,1993,640), ha conseguito risultati irreversibili. Il principio più importante messo in atto in questo processo di pace (che si è svolto, è bene ricordarlo, all'interno di un quadro internazionale profondamente mutato a causa degli avvenimenti dell'89 e della successiva guerra del Golfo) sta nell'avere concretamente accolto il principio, fino allora ritenuto inaccettabile, della cessione dei territori in cambio della pace. Un processo non ancora giunto definitivamente a termine, ma che ha già richiesto in cambio il prezzo della vita di Rabin (cf. Regno-att. 29,1995,583).
Peres a fine '95, nella sua qualità di successore di Rabin, è stato investito del compito di portare a termine rapidamente il processo di pace in un momento in cui il sussulto di sdegno seguito all'assassinio del suo predecessore aveva messo la destra alle corde. Per cercare di spiegare la vittoria di Netanyahu, conseguita nel corso di elezioni anticipate volute dal suo avversario, bisogna perciò rivolgersi soprattutto a fattori di breve periodo. L'interrogativo principale consiste perciò nel chiedersi come abbia fatto Peres a dilapidare nel corso di pochi mesi buona parte del consenso di cui godeva. Gli avvenimenti principali da segnalare in quest'ambito paiono essere soprattutto i seguenti: l'esito delle elezioni palestinesi svoltesi il 20 gennaio 1996 (cf. Regno-att. 4,1996,77), la serie di gravissimi attentati suicidi di febbraio-marzo (cf. Regno-att. 6,1996,145), l'intensa ripresa delle attività belliche da parte dei guerriglieri filoiraniani hezbollah e la successiva risposta militare israeliana nel Libano denominata operazione "Furore".
L'esito delle elezioni palestinesi, oltre ad aver dato un fondamentale contributo al credito internazionale che circonda la leadership di Arafat, ha sostanzialmente dimostrato l'ineluttabilità di giungere, presto o tardi, alla creazione di un vero e proprio stato palestinese, prospettiva, quest'ultima, che buona parte dell'opinione pubblica israeliana non appare ancora disposta ad accettare. Non a caso Netanyahu, in una delle prime dichiarazioni dopo la vittoria, mentre si è dichiarato favorevole al mantenimento dell'autonomia palestinese, ha risolutamente negato la possibilità della creazione di uno stato, rivendicando nel frattempo il diritto di intervenire, in caso di necessità, anche nei territori amministrati dai palestinesi. La prospettiva della creazione di uno stato palestinese comporta di necessità la questione della capitale e quindi il problema dello status di Gerusalemme. A tal proposito pure i laburisti sono in realtà assai fermi nel considerare Gerusalemme capitale "una e indivisibile dello Stato d'Israele", tuttavia Netanyahu è riuscito a inculcare in parte dell'opinione pubblica la convinzione che questo principio non fosse in effetti così granitico. Ed è probabile che anche questo aspetto abbia fatto convogliare verso il personalmente laicissimo Netanyahu gran parte del voto religioso. Si è assistito così al consueto sovrapporsi di istanze nazionalistico-religiose (non a caso uno dei primi gesti compiuti da Netanyahu dopo la vittoria è stato quello di andare, scortato dal sindaco di Gerusalemme, Olmert, a deporre, secondo consuetudine, un bigliettino nelle fessure del Muro del pianto).
La sconfitta di Peres
Gli attentati suicidi, gli attacchi degli hezbollah e la campagna libanese, gestita con un certo impaccio da parte di Peres e macchiata dalla strage di civili avvenuta a Cana, hanno posto al centro il tema della sicurezza; argomento assolutamente nevralgico per l'opinione pubblica israeliana. Rispetto a questo punto cruciale Peres, indipendentemente dalle scelte effettive da lui compiute, non è mai riuscito a comunicare agli israeliani l'impressione garantita invece dall'ex-militare Rabin, il quale tanto quando faceva la guerra o reprimeva l'intifada, tanto quando faceva la pace, riusciva sempre a convincere la maggior parte dei suoi concittadini che il centro delle sue preoccupazioni fosse comunque costituito dalla sicurezza di Israele. Rabin a suo tempo disse: "Forse in Israele... solo un militare è nelle condizioni di imporre la pace" (cf. Le Monde 31.5.1996, 2). La mancanza di un passato militare da parte del politico Peres ha perciò di nuovo giocato a suo sfavore; di contro Netanyahu, oltre che sulla collocazione politica, poteva contare anche su un sia pure non strepitoso passato militare (egli ha trascorso cinque anni nei comandi d'élite dello stato maggiore e ha partecipato a qualche spettacolare azione antiaraba sotto il comando, ironia della sorte, del generale Barak, attuale prestigioso esponente laburista).
Per quanto fortemente ridimensionato (essendo sceso da 44 a 35 seggi) il partito laburista conserva alla Knesset, sia pure per pochissimi voti, la maggioranza relativa. Con il precedente sistema elettorale, a parità di risultati, sarebbe perciò toccato a Peres intraprendere complicate trattative per far nascere il nuovo governo. Anche questo particolare dimostra che si è effettivamente di fronte a una sconfitta personale, i cui esiti però sono davvero di portata generale e generazionale. Peres era uno degli ultimi politici che poteva rivendicare legami personali con i fondatori laburisti dello stato (a iniziare da Ben Gurion); di contro Netanyahu, più giovane di oltre 25 anni, rappresenta la rottura di ogni residuo legame con la forma di sionismo laico-socialista che ha dato il contributo principale alla nascita dello stato. Anche per questo uno dei temi decisivi posti davanti al nuovo governo sarà quello di vedere come riuscire a fare i conti con una componente religiosa sempre più esigente. In un'epoca contraddistinta, a più vasto raggio, da fondamentalismi religiosi sempre più forti, in Israele si assiste all'ormai definitivo esaurimento dell'originario compromesso con la componente religiosa perseguito dai laburisti, i quali, a loro tempo, erano mossi dalla convinzione che, alla lunga, gli orientamenti laico-progressisti avrebbero avuto partita vinta su forme di religione ormai destinate a uscire docilmente dalla scena della storia.
L'investitura diretta del premier non garantisce a quest'ultimo alcuna maggioranza qualificata; Netanyahu perciò, davanti a un paese politicamente diviso in due parti sostanzialmente equivalenti, dovrà cimentarsi, per formare il nuovo governo, in un duro lavoro di contrattazione con partiti, espressione di istanze religiose o etnico-culturali, divenuti sempre più consapevoli del loro peso specifico. Il nuovo primo ministro dovrà poi porre in fortissimo rilievo il tema della sicurezza senza che questa scelta vada a scapito della conquista di un credito internazionale che gli è assolutamente indispensabile. Per ora gli Stati Uniti aspettano e guardano, e Netanyahu sa bene che tutte le sue prime mosse saranno attentamente scrutate da questo sguardo non disinteressato. È fuor di dubbio che con queste elezioni sia iniziato il "dopo Rabin". L'espressione va però colta in tutta la sua ambiguità; da un lato vi è qualcosa di ormai definitivamente tramontato, mentre dall'altro non si potrà in ogni caso prescindere da alcune svolte decisive già avvenute.